Nella lingua comune, l’aggettivo «volatile» definisce un pensiero o un oggetto effimero, destinato a svanire in breve tempo. Eppure, ostenta le ali uno dei simboli più profondamente radicati nella tradizione filosofica e spirituale eurasiatica: la coppia di uccelli appollaiati sulla cima di un albero. Mentre uno dei due volatili rappresenta la volontà combattiva (l’Occidente, la «via dell’azione»), l’altro richiama la quiete riflessiva (l’Oriente, la «via della contemplazione»). Compagni inseparabili e al tempo stesso emblemi di funzioni opposte, i due uccelli formano un equilibrio perfetto: “Due begli uccelli, l’un l’altro compagno, abitano assieme sul medesimo albero. L’uno si ciba del dolce frutto del pippala, l’altro, senza mangiare, con lo sguardo tutto abbraccia” (Mundaka Upanishad, III, 1, 1). Questo simbolo incarna una verità universale che trascende il tempo, conservando intatta la sua potenza evocativa. È un’allusione all’essenza primordiale dell’uomo: la tensione dinamica tra l’agire e il contemplare, il fare e l’essere, aspetti che disegnano i confini dell’umano, dichiarandone l’identità.

Un altro archetipo pronto a dimostrare quanto possano essere duraturi certi significati, è il motivo di origine mongolo-siberiana dell’«uccello solitario in cima all’albero». Il ripetersi dei simboli aviari ha una ragione storico-antropologica: l’uomo trae ispirazione da ciò che ha a portata di mano, e i popoli nordici scesi in tempi preistorici nelle pianure eurasiatiche venivano dal «paradiso degli uccelli», cioè delle terre che abbracciavano l’Artico, dove ghiandaie e sparvieri cacciavano tra i boschi, corvi e cornacchie saccheggiavano i nidi, mentre lungo le coste gabbiani, urie e pulcinelle di mare trovavano abbondanza di cibo nei freddi flutti, ben più generosi delle acque temperate.
Ancora oggi una delle attività prevalenti delle Fær Øer è la raccolta di uova e piume di uccelli marini che ai primordi, grazie alla loro bellezza, leggerezza e varietà, ispirarono molte tradizioni spirituali e culturali, divenendo simbolo e metafora dell’anima che «vola via» dopo la morte del corpo. Tuttora in Groenlandia gli Inuit (discendenti dei Dorset e dei Thule), durante le cerimonie religiose indossano maschere e copricapi adorni di piume. Nell’Egitto predinastico la piuma di Maat (incarnazione delle leggi fisiche e morali che governavano il mondo degli uomini) era usata nel rituale della pesatura del cuore. Presso i Maya e gli Aztechi, le piume di quetzal erano associate al serpente piumato Quetzalcoatl, perciò ritenute sacre.
I cieli privi di nuvole che sovrastavano le tiepide steppe e i roventi deserti, erano invece il territorio di caccia di falchi e avvoltoi. Infatti, tra i pennuti più rispettati della preistoria c’era il Falco Pellegrino, un predatore con la vista acuta, il becco robusto e fortemente arcuato, le unghie possenti e adunche. Gli studi moderni hanno rivelato che alla velocità di 300 Km/h questo volatile mette a segno attacchi fulminei, dispone di una «bussola solare» interna ed è capace di misurare l’altezza del sole sull’orizzonte. Più grosse dei maschi, le femmine depongono sbrigativamente le uova in ricoveri improvvisati e poi riprendono la caccia.
Dotati di un identico spirito cosmopolita, i navigatori piumati della preistoria apparvero sulla scena mondiale all’improvviso, portando in dote un patrimonio di conoscenze ignote agli altri popoli della Terra. È difficile comprendere la singolare parentela ornitologica che legava questi marinai agli uccelli, se non si è avvezzi alla vita di mare. Se non si conosce l’importanza vitale delle indicazioni di un volatile per mantenere la rotta e schivare gli scogli affioranti. Se si ignora cosa significhi rollare sull’oceano per settimane, o mesi, circondati da solitudine e silenzio, finché tutto a un tratto un paio di ali spianate annuncia l’avvicinarsi della terra. Principalmente per queste ragioni, il percorso simbolico «aria→ ali/piume→ dèi» divenne la cifra dell’umanità post-diluviana.
Il falco, la pigna e il secchiello
Nella forgia dell’Olocene, tra il martello del ghiaccio e l’incudine del sole, il «figlio del sole» alato sostituì il Serpente Antico come sigillo dei tempi: in pratica, l’uomo riconquistò il suo posto nel mondo passando dalle spire della conservazione all’ebbrezza del volo, cioè dalla meditazione all’azione.
Nella tradizione induista questa figura rappresentò lo specchio dell’anima (atman) intenta a liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni (samsara) per elevarsi a puro spirito. In quella norrena l’aquila posata su Yggdrasil incarnò il legame sacro tra i mondi, emblema di saggezza e connessione cosmica. Tra i patriarchi biblici, l’uccello assunse un duplice significato: poteva rappresentare lo Spirito Santo, ma anche l’anima in cerca di dio; più tardi, il tronco sul quale l‘essere alato soleva appollaiarsi sarà associato sia alla Croce, emblema di salvezza, sia all’Albero della Vita, simbolo di eternità e rinascita.
È sorprendente osservare l’universalità di questi simboli fin dalla più remota antichità. Dallo Yucatan alla Turchia capita inoltre d’incontrare un’altra celebre icona: accanto a un albero ricco di frutti, un uomo-uccello coglie una pigna, ovvero il frutto (o seme) di un sempreverde collegato all’idea di vita eterna. Anche la dea azteca dell’agricoltura e delle acque terrestri Chalchiuhtlicue, o Chicomecōātl [trad.”colei che indossa una sottana-di-giada“], cioè la divinità che distrusse il Quarto Mondo scatenando il diluvio, viene raffigurata con un ramo di pigne in una mano e un albero sempreverde nell’altra.
Analogamente gli Apkallu, o kulullu, incisi sul pilastro 43 del sito megalitico di Göbekli Tepe, fratelli gemelli degli uomini-uccello del Palazzo del re Sargon II a Dur Sharrukin, l’attuale Khorsabad (Iraq), raccolgono pigne da un albero [immagine 1].
Il percorso simbolico «aria→ ali/piume→ acqua» si arricchisce di nuovi elementi di riflessione in alcuni pannelli intagliati e tavolette di argilla rinvenute nel palazzo di Nimrud, dove l’Apkallu, o uomo-falco, stringe in pugno un enigmatico secchiello (banduddû, che ha un omologo in Sicilia di nome bandunà), nel quale, si suppone, verrà messa la pigna (mullilu).
Aria/ali → piume/acqua → terra/pigna → secchiello/fuoco degli dèi. Tutto fa pensare che questo personaggio antropomorfo stia compiendo un rituale di protezione dalle origini arcane. Il gesto di deporre la pigna nel secchiello potrebbe essere l’allegoria del travaso della «parola dei creatori» nel recipiente vuoto dell’ignoranza umana, un retaggio del rammarico per la dispersione dell’antica sapienza.
Storicamente il periodo coincide con il riposizionamento geografico di alcune popolazioni settentrionali in aree più meridionali (circa 11.700 anni fa), aggiungendo ulteriori strati di significato a elementi simbolici già ricchi e complessi: l’uomo non più albero (axis-mundi) ma accanto all’albero, l’uccello-guida, la pigna e il secchiello.
La parentela tra la pigna e il falco fa comunque parte della geometria segreta del movimento. A tale proposito, è illuminante lo studio del biologo Vance A. Tuker (cfr.: Biologia degli animali, Zanichelli, Bologna, 1998), dove si osserva come il falco nel mirare e colpire la preda non scelga la via più breve e veloce, cioè la traiettoria rettilinea, ma segua un disegno preciso che traccia nel cielo una meravigliosa spirale logaritmica, o aurea, la stessa che governa la formazione della pigna.
Stiamo andando verso il più alto grado di illuminazione spirituale. Non è un caso che dalla pigna prenda il nome la ghiandola pineale, un organo importante nel regolamento dei ritmi circadiani, sia negli uccelli che negli esseri umani: nei primi essa misura il Tempo in base all’alternanza luce-buio, mentre nella nostra specie l’epifisi è spesso associata al terzo occhio legato all’intuizione, alla consapevolezza interiore e al potenziale creativo latente in ogni individuo.
Nonostante nei Veda e negli Yoga Sutra, la Kundalini (dal sanscrito कुण्डलिनी, “arrotolata” o “a spirale”) sia descritta genericamente come un’energia che risale attraverso i chakra, alcuni autori (es. Swami Satyananda Saraswati) accostano il Sahasrara Chakra (il “loto dai mille petali” in cima al capo) alla pineale, sede della coscienza superiore. Interessanti spunti emergono anche il «bastone di Osiride» (1.224 a.C. circa): due serpenti intrecciati a un’asse e protesi verso la «pigna della sapienza» [immagine 2].
Troppi tasselli rivelatori escludono la casualità. Dunque, la logica implica l’ammissione che l’evoluzione umana cela una profondità inarrivabile per le nostre attuali conoscenze.
Il nodo simbolico della Storia
Giunti a Cuzco nel 1533, i rozzi conquistadores di Pizarro rimasero sbalorditi davanti a Sacsayhuamán, l’imponente fortezza del «falco soddisfatto». Come diavolo avevano fatto i «selvaggi» Inca ad erigere una costruzione di quelle proporzioni? Nessun essere umano poteva trasportare massi pesanti fino a 200 tonnellate, smussarli in modo che s’incassassero perfettamente l’uno sull’altro, sollevarli per sistemarli senza utilizzare carrucole.
Chiaramente l’esistenza di leggi diverse da quelle applicate nell’Europa dell’epoca non fu presa in considerazione, né la presenza di «popoli precedenti», o il fatto che gli amerindi sottoutilizzassero la ruota perché non serviva in un ambiente montuoso e senza animali da traino.
Onde evitare imbarazzanti paragoni, furono velocemente derubricati a «miti» tutti i racconti di fondazione del Mesoamerica che avevano al centro il popolo di Quetzalcóatl, conosciuto nei dialetti maya come il «Serpente dalle Piume Preziose» (da quetzal- , ‘bella piuma’; cōātl , ‘serpente’). Eppure, fu opera sua fu lo ziggurat di Chichén Itzá, i cui ruderi vegliano tuttora sullo Yucatán settentrionale da un’altezza di trenta metri. Questa specie di «matrioska», ha altre due piramidi all’interno e presenta sofisticati effetti acustici che solo abilissimi artigiani – umani, non divini – possono avere congegnato e realizzato (M. Sartor, Il libro di Chilam Balam di Chumayel. Mito e cronaca in un testo maya yucateco, Cleup, Padova, 1994).
Purtroppo, la disponibilità a comprendere le antiche cose non è migliorata con il passare del tempo. Se il linguaggio ancestrale risultava ostico ai nostri antenati, più interessati di noi alla comprensione dell’universo, figuriamoci quale effetto può avere sui nativi digitali, inconsapevoli oggetti del feticismo dei dati.
Quando, invece, l’unico dato certo riguarda la diffusione planetaria della «cultura dei Falchi». Un interessante studio dell’architetto Loris Bagnara mette in luce le strane affinità riscontrate tra la Grande Piramide di Giza e la Piramide del Sole di Teotihuacan, la quale presenta una scansione in cui ricorre frequentemente il modulo di 378 Standard Teotihuacan Unit (1 S.T.U. = 1,059463 m), pari a circa 400,48 metri, che è in rapporto circa 1/100.000 con la circonferenza equatoriale terrestre (L. Bagnara, Il Modello Celeste di Giza: Oltre il Disegno Planetario, Aurora Boreale, Prato, 2023).
Astronomi, architetti, maghi e guaritori, i «falchi» s’incastonarono in figure potenti come quelle del sumero Enlil e del babilonese Marduk, i quali non si limitarono ad affrontare problemi esistenziali come la separazione tra il Cielo e la Terra, o il rapporto tra lo Spirito e la Materia, ma ristrutturarono la società sopravvissuta ai diluvi, organizzando le popolazioni incolte dei villaggi rurali attorno a leggi, norme, feste e calendari.
Amava mostrarsi con la testa di falco anche Horus, uno tra i più noti dèi-civilizzatori dell’Egitto, mentre i miti di fondazione dei Dan della Costa d’Avorio raccontano che all’inizio dei tempi comparve nella loro terra una razza di “bellissimi uccelli umani in possesso di tutte le scienze che trasmisero all’umanità”. Analogamente i miti aztechi descrivono la costruzione del sito di Tenochtitlán come la conseguenza di un presagio: i navigatori piumati (Atlanti?) videro su un’isola del lago Texcoco un’aquila appollaiata su un cactus con un serpente tra gli artigli, e lì si fermarono.
Il massimo tasso di sollevamento delle acque marine (15.000-11.000 anni fa) pose fine alle scorribande via mare dei navigatori preistorici, rallentando anche quelle via terra. Gradualmente cambiarono tutti i punti di riferimento, cioè le elaborazioni maturate in precedenti ambiti geo-storico-culturali, ma il Falco rimase la figura nodale che separava, allacciandole, l’Età della Saggezza (pre-diluviana) governata dai Serpenti dalla successiva Età del Riscatto (post-diluviana). Iniziava il tempo delle personalità determinate ad ottenere il potere ad ogni costo, anche con la forza.
Dritti al punto
Da allora, non ci siamo più mossi. Tanto è vero che gli esponenti della talassocrazia contemporanea continuano ad essere definiti «falchi», o «aquile», impersonando lo spirito del rapace che punta la preda e l’aggredisce. Chiaramente in senso peggiorativo, come dimostra l’odierno anglo-sionismo secolarizzato, il cui banduddû è ormai un recipiente vuoto che conferma l’entropia delle leggi universali.
Allo stesso modo sono cambiati i termini della navigazione, nel senso che il mare inizialmente fulcro attorno al quale si svilupparono importanti società e civiltà, è diventato il garante del mantenimento del «potere marittimo» perennemente impegnato in una guerra esistenziale contro il «potere terrestre», come spiegò il vice-ammiraglio della Royal Navy Philip Howard Colomb (1831-1899), padre nobile del cosiddetto “atlantismo”, traducibile nella volontà di assoggettamento dell’ovest eurasiatico ai Cinque Occhi (di falco) che sorvegliano il mondo. O meglio, lo sorvegliavano.
Il «tempo del falco» volge al termine e con esso tramonteranno le egemonie, le idee di stampo anglosassone basate sull’empirismo, il nominalismo, il liberismo 4.0 che strizza l’occhio al transumanesimo e tutto il resto. Nel giro di un paio di secoli, il modello industrialista-sviluppista è fallito. L’ordoliberismo sostenuto dalla finanza e dal pensiero unico, è fallito.
A breve, fallirà anche il socialismo tecnologico che ha stravolto miliardi di vite, perciò il destino di tutti questi elementi messi insieme è quello di confluire in un puntino sulla mappa del cammino dell’uomo nella Storia. Ma chissà mai che dalle penne sgualcite del falco esca un nuovo «tempo della pigna» in grado di ripristinare la circolarità sacra, facendo crollare l’hybris del dominio sotto il peso della sua stessa insostenibilità. Utopia? Forse. Ma tra le poche certezze dell’uomo ce n’è una inattaccabile: l’impermanenza. Come fece scrivere sulla sua lapide il fisico Leó Szilárd (1898–1964), uno dei padri della bomba atomica: “Il bello è che prima o poi muoiono tutti.” Anche i falchi.