In Italia, il 10 febbraio si celebra il “Giorno del Ricordo” (istituito con la “legge Menia” 2004) in coincidenza con la data di quel trattato di pace punitivo (Parigi, 10 febbraio 1947) che comportò la perdita delle terre dell’Adriatico orientale e l’esodo di più di 300.000 Istriani, Fiumani e Dalmati.
Sulle tragiche pagine di storia delle terre del nostro confine nord-orientale non vi è più il silenzio tombale durato mezzo secolo, fino al “rompete le righe!” che il crollo del Muro lanciò ai militanti dell’ideologia marxista e alle nutrite schiere dei suoi utili idioti. Ma quei capitoli di storia stentano molto ad entrare sia negli ambienti accademici nazionali di studi sia nella coscienza degli italiani.
“Fascisti”, ossia esseri subumani meritevoli di morte, di una morte inflitta dopo terrore e torture, è l’etichetta giustificatrice della logica della “raccolta differenziata”, invalsa per tanti anni negli ambienti che contano in Italia e che surrettiziamente continua, con i morti italiani delle terre del confine orientale automaticamente considerati “fascisti” e sversati nella discarica dell’oblio o addirittura dell’odio.
Lo dico con amarezza e un certo imbarazzo: io, originario dell’Istria, non provo più il senso di speranza che il Giorno del Ricordo aveva suscitato in me agli inizi. Mi appare ormai chiaro che l’Italia non farà mai sua la tragedia della sconfitta e della guerra civile e della perdita delle nostre amate terre. Provo anche fastidio e disagio per le polemiche che questa ricorrenza rinfocolerà, con gli immancabili gesti di protesta e anche di vandalismo a danno di targhe e iscrizioni commemoranti il martirio della nostra gente. Inoltre, in un Paese dove ciò che conta è “portare avanti il discorso”, il Giorno del Ricordo sfiora ogni volta il pericolo di trasformare la nostra passata tragedia in un tema da talk show. E oltre a riattizzare nella penisola gli abituali odi civili antitaliani, le nostre commemorazioni suscitano ringhi e latrati oltreconfine: in Slovenia e in Croazia, dove – incredibile a dirsi – credono che gli italiani siano capaci di nutrire sentimenti di riconquista e di rivincita. In realtà “il passato è passato” e noi esuli non sogneremmo riconquiste territoriali neppure con la mente obnubilata dall’alcool.
Dove sono, gli estremisti giuliano-dalmati? Quali episodi di violenza abbiamo noi espresso? Il bilancio è zero. Nonostante ciò noi, esuli o figli di esuli, dobbiamo difenderci da accuse, tacite e talvolta urlate.
Cari italiani, continuate ad essere voi stessi, con le vostre beghe, la vostra rissosità permanente, i vostri odi civili… Nessuno vi chiederà l’impossibile: smentire per più di un solo giorno il vostro DNA.
Ma qualcosa dopotutto è cambiato dopo il lungo silenzio, grazie anche alla medaglia d’oro alla memoria per i nostri morti istituita da Menia, e grazie ai libri, film e testimonianze. Il dramma del nostro popolo e delle sue foibe non è più un tema tabu. Ma il “Giorno del ricordo” dà ogni volta purtroppo anche la stura alla canea dei negazionisti e dei giustificazionisti (vedi Claudia Cernigoi) che monteranno in cattedra con i loro “Sì, però, anche noi…”, “Sì, però bisogna capire…” e presenteranno la contabilità dei morti, con le due colonne “dare” e “avere” ben in evidenza, e con il giudizio finale: “Tutto va ricondotto al fascismo…” Invece di dover rispondere delle atroci nefandezze del comunismo e dei suoi gulag, inclusa la croata “Isola Calva” (Goli Otok), negazionisti e giustificazionisti continueranno ad accusare i nostri morti dall’alto di una cattedra che spetta loro di diritto in un’Italia dove, tra le élite della nostra Nazione, orfane di Stalin, di Togliatti, di Tito e di Pertini, trionfa e trionferà sempre un certo spirito antitaliano.
Claudio Antonelli (Montréal)