All’età di otto anni mio padre mi portò con sé in via Nazionale dove, al Palazzo dell’Esposizione, vi era una mostra di libri per ragazzi. Fu in quella occasione che mi fece scegliere il mio primo libro. Immagino sotto sua indicazione, per la bella copertina e i tanti disegni all’interno, mi feci comprare L’ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper. Rivestito e protetto da pellicola di cellofane lo conservo ancora, mantenutosi in buone condizioni, con la matita rossa e blu le giacche dei soldati inglesi e francesi. Ecco: se dovessi indicare il primo libro di dieci di quelli, di cui ho memoria affetto e significato, a parte la cronologia, questo, sì, lo porterei con me in qualche isola sperduta e senza ritorno… (Un tempo, mi sembra di ricordare, erano tre a poter essere risparmiati dal precipitare dalla torre o qualcosa di simile).
Un pretesto come un altro, un pretesto intelligente. Intanto perché per molti il libro rimane quello di scuola e non oltre. Senza spocchia o atteggiamento. Da professore che, per circa quarant’anni, ha vissuto e visto passare generazioni di giovani e di giovani che non passava loro per la testa che un libro può essere una vittoria sulla noia di pomeriggi uggiosi e in casa che può essere un’avventura ove perdersi ritrovarsi e scoprirsi diversi che è una scoperta, ad esempio, quando trovi un pensiero una immagine una emozione e ti dici d’averla già avvertita in te. Un libro per sentirsi meno soli incompresi confusi… Su fb ci si insegue e ci si chiede quali sono i dieci libri che si considerano essenziali.
Inizio anni ’60, piazza Fontanella Borghese, banchi di libri, oggetti vari. Ne ho scritto sovente. Frequentando un liceo al centro, m’era facile passarvi e curiosare. Con le cinquanta lire, risparmiate su ogni biglietto del filobus, potevo azzardarmi a dare vita a personale e militante biblioteca. Non ricordo la successione, ma di certo i primi tre furono: I proscritti di Ernst von Salomon, il Così parlò Zarathustra di Nietzsche, i Poemi di Fresnes di Robert Brasillach (allora il suo titolo originario era Hanno fucilato un poeta). Durante il Regime fascista il libro di von Salomon non trovò traduzione e accoglienza: in fondo si tratta di forme di terrorismo, di disobbedienza politica e civile, di strani connubi con ‘l’altra parte’, anche se d’ispirazione nazionale. E il Fascismo s’è trovato addosso la monarchia la chiesa la borghesia che, per governare, si necessitano ma non per fare una rivoluzione (non è questo lo spazio per approfondire questo tema e la sua complessità. In un paio di righe emerge solo un giudizio riduttivo e noi, che dal Fascismo siamo stati ‘stregati’, non intendiamo essere facili giudici…). Solo nella primavera del 1943, su pressione dell’intellettuale Giaime Pintor, apparve presso l’editore Einaudi – e di questa prima edizione e unica per molti anni possiedo ancora la copia. Non possiedo più, al contrario, le originarie copie degli altri due. Il Così parlò Zarathustra di Nietzsche era nella prima edizione della Casa Editrice Apuana, in bella copertina bianca e rigida con al centro ‘il logo’ a raffigurare, inquietante, l’immagine d’un vecchio capellone sguardo penetrante sdentato un incensiere in una mano e nell’altra la penna d’oca (molti anni dopo, a Trieste, sono riuscito a recuperare la seconda edizione, 1937, più modesta nella veste tipografica). Dopo l’Opera Omnia a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, che ha raccolto unanime consenso di critica, si potrà fare il verso alla traduzione d’allora, ma io rimango dell’idea che vi è un ritmo, una musica un potere evocativo che legittimano il giudizio di coloro che considerano il filosofo un poeta fra i più grandi della lingua tedesca. Quella copia rimase in mio possesso fino al novembre-dicembre del 1969, vigilia del mio arresto. La prestai a Giovanni Ferraro, anarchico del circolo 22 Marzo, e un seguito tragico. Una notte, forse ero ancora in carcere, egli s’era recato a Trastevere con la ragazza a mangiare la pizza. Tornato alla macchina, mentre armeggiava con la chiave ad aprire la portiera, dei poliziotti lo confusero – questa la versione ufficiale in tempi di ‘omicidi di Stato’ – per un ladro, un colpo di pistola, un corpo sull’asfalto… E il ‘mio’ Così parlò Zarathustra s’è idealmente tinto di sangue dando un senso alle parole del filosofo ché, tramite il linguaggio del corpo, affermava scorgere lo spirito purificato in rosso lavacro.
Dei Poemi di Fresnes, cioè quelle poesie ‘struggenti e rasserenanti’ come ebbe a definirle il drammaturgo Jean Anouilh (colui che bussò di porta in porta degli intellettuali francesi per ottenerne la firma sotto la richiesta di grazia al generale De Gaulle), ne ho scritto con animo raccolto e commosso. Come sanno i miei lettori Robert Brasillach è il fratello più caro, scoperto io sedicenne e lui fratello più grande, poi, eternato nella morte, i suoi trentacinque anni al momento della esecuzione me l’hanno reso più giovane. E vanto – e mi vanto – l’ultima traduzione in ordine di tempo, con mio saggio introduttivo, appunto di quei versi (ed. Settimo Sigillo, 1998). Poi in Inquieto 900 del 2004 un capitolo a lui dedicato non poteva mancare fra quegli intellettuali che affidarono al Fascismo le loro speranze così come, nel 2006, in Strade d’Europa la visita alla sua tomba, un tripudio di fiori, nel piccolo cimitero di Saint Germain de Charonne là dove si svolge una delle prime scene de I sette colori. E sempre ricorre il suo nome, quel vivo sentire la giovinezza la gioia di vivere l’amicizia e, al limitare del plotone d’esecuzione, ‘la fierezza e la speranza’. Certo c’è un altro Brasillach, di cui mi auguro presto potremo conoscere il contenuto, il giornalista acuto critico a volte aspro tanto lontano dal poeta dal romanziere (con saggio introduttivo di Rodolfo e uno mio è in fase di stampa una raccolta di articoli, 1940-1945, scritti su Je suis partout, la rivista più aggressiva delle molte del Fascismo francese), ma è appunto ‘altro’ e tale da non scalfire quello a me tanto prossimo. Avrei potuto chiedere a mia madre di portarmi a Regina Coeli i Poemi. Non volli perché, quale simbolo della libertà ritrovata, doveva attendere il mio ritorno a casa e così avvenne già la sera stessa della mia scarcerazione. Infine alcune di quelle poesie divennero Le sbarre e le stelle, incontro di parole e musica che, per un paio d’anni e forse più, realizzai con l’amico Mauro e Valerio al pianoforte su brani da lui stesso composti.
12 dicembre 1969, via tuscolana angolo via Nocera Umbra, secondo pomeriggio. Da una cabina telefono ad un amico, a cui ho prestato I leon morti di Saint-Paulien e vorrei riprenderlo. Non è in casa. Proseguo allora per San Giovanni, prendo l’autobus e… poi la sera suonano alla porta: sono agenti dell’Ufficio Politico, ma questa è altra storia. Nell’inverno del ’65 sono a Francoforte sul Meno. Stanza d’affitto, lavoro a fare pacchi al Kaufhof, la sera leggo qualche libro in italiano. E, a un quarto d’ora di strada a piedi, c’è la Ulmstrasse ma un invisibile muro ci divide, tu ed io per sempre… Ad altro muro è rivolta la mia attenzione, l’intento di attraversarlo ritrovare quei luoghi e quelle atmosfere che il libro di Saint-Paulien ha saputo descrivere. La Berlino aprile-maggio 1945 là dove si compiva il destino dell’Europa, la ‘finis Europae’ per dirla con Adriano Romualdi, e in cui, tra le macerie la metropolitana in prossimità del bunker, gli ultimi combattenti della divisione Waffen SS Charlemagne danno vita alle pagine più robuste della vicenda. Ne ho scritto già in Strade d’Europa. Di quella Berlino non rimane quasi più traccia, ma la mente ed il cuore sanno ricostruire la geografia dietro lo schermo degli occhi. Così come l’aurora si ripone nella notte che la precede. Poi sarebbe da raccontare la vorticosa stagione del ’68 e dintorni l’ambasciata a Berna della Repubblica Popolare Cinese i reduci della LVF e delle due divisioni delle SS (Charlemagne, appunto, e la Giovanna d’Arco) e l’adesione formale e strategica all’ombra del ‘grande timoniere’, ma anche questa è altra storia.
Gli eroi della mia adolescenza, gli eroi dei fumetti dei film western dei racconti di Emilio Salgari, e tu, gran spadaccino dal grande naso e dal grande cuore, tu, Cyrano de Bergerac. Oh, sì, lo confesso: cinema arena Zanarini, viale Maria Ceccarini, Riccione, bambino con mia zia Mimma a vedere il film e tanto piansi che mi minacciò di portarmi via ed io ‘no, no, è tanto bello!’… La commedia di Edmond Rostand, ‘un’opera tersa e sincera’, nella perfetta traduzione di Mario Giobbe. ‘Che dite?…E’ vana…so…la resistenza adesso,/ ma non si pugna nella speranza del successo!/ No, no: più bello è battersi quando è invano…’. Appoggiato al tronco d’un albero, la spada sguainata a fender l’aria contro la Menzogna le Viltà i Compromessi i Pregiudizi ‘ed eccoti anche te,/ Stoltezza! – Io so che alfine sarò da voi disfatto;/ ma non monta: io mi batto, io mi batto, io mi batto’, e su, in cielo, la luna ad attenderlo con il suo pennacchio, simbolo d’indipendenza coraggio e poesia. In camicia nera dal 15 ottobre 1960… Ed ora, sovente mi ascolto il Cyrano di Francesco Guccini. ‘e quando sento il peso d’esser sempre solo mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo ma dentro di me sento che il grande amore esiste… ‘ Rossana, no, Elisabeth ( poca cenere, lo so, ma io ti seguo simile ad una stella luminosa e distante eppur vicina) ‘le scriverò coi versi…’ .
Per circa quarant’anni ho fatto l’insegnante di storia e filosofia, realizzando con qualche difficoltà quello che fu la decisione nata all’età di sedici anni dopo che il professor Morelli, insegnante di greco, ci tenne lezione sulla nascita della tragedia. Era possibile dispiegare le ali e volare su un universo tanto ampio che i confini del mondo si confondevano e il centro e la periferia sembravano incontrarsi e farsi uno? Tornai a casa e a mio padre feci presente che, se dalla cattedra si poteva esercitare l’arte della parola quasi come quella di un illusionista, beh, mi sarei preso il gusto di tirar fuori dal cilindro Socrate e Napoleone Platone ed Hitler e mille e mille altre meraviglie… E così è stato, nonostante qualche zeppa che il tempo e le circostanze, con l’ausilio di qualche infamità e miseria, si sono messe di mezzo (i diciassette anni tra carcere e reiterati processi che, però, mi hanno consentito di completare gli studi, mentre fuori, chissà, mi sarei perso per strade e notti armi alla mano…). Michelstaedter e Max Stirner: oggetto il primo della tesi di laurea, su ‘il suicidio metafisico’ secondo l’espressione di Giovanni Papini, mentre del secondo impossibilitato perché qualcuno – ligio alle disposizioni carcerarie e ignaro del timido professore per giovani signorine di buona famiglia dallo pseudonimo appunto di Stirner – temeva che si nascondesse un testo per evadere – e, forse, non aveva del tutto torto –…
E lo studio tutto mio su Martin Heidegger dopo l’uscita in Italia del misero e miserabile testo di Victor Farias da titolo Heidegger eil Nazismo (1988), che aveva riempito le pagine dei giornali e rinnovato le annose polemiche sull’ipotesi di adesione e in quale misura alla luciferina visione del mondo di Hitler e dintorni. Fra i tanti testi, che mi affrettai ad acquistare e leggere, mi piace ricordare quello di un ufficiale francese di nobile origine polacca, Frédéric de Towarnicki, che per primo si recò a trovare il massimo filosofo del XX secolo, relegato e impedito a insegnare. Ricordi di un messaggero della Foresta Nera, il suo titolo. C’è un incanto un arcano mistero atmosfere di luci ed ombre nella scrittura un gioco di parole dette e, soprattutto, di quelle non dette… ‘Auf einen Stern zugehen, nur dieses’.
E lo studio tutto mio sulla Repubblica Sociale, alla ricerca degli uomini e delle donne che avevano vissuto quella tragica ed esaltante tragedia (ne sarebbero uscite le due raccolte di racconti Atmosfere in nero e a I confini del nero e il romanzo scritto a due mani La guerra è finita). Com’era che una stagione così breve della propria vita, 600 giorni e per molti ancora meno, fosse rimasta indelebile marchio di tutta l’esistenza? Devo ringraziare l’amicizia di Ugo Franzolin – e i suoi libri -, la stima del comandante Mario Sannucci, nobile figura di soldato, le commosse chiacchiere di Mario Coen e quelle grintose di Franco Grazioli, l’affetto umile e sincero di Gina Romeo e la disponibilità di Raffaella Duelli, l’atteggiamento burbero del gran cuore della medaglia d’oro Alessandro Tognoloni e l’ironia di Mario Castellacci e, infine (mi si perdoni le tante e tante dimenticanze), ma non certo ultimo Emilio Mandelli e l’ombra di Mila. Quali libri dovrei inanellare per riconoscere d’essere idealmente loro figlio?
E, ancora, Julius Evola, pur nella ormai distanza dalle sue letture, che pure furono scuola ben più d’ogni registro e cattedra; Leon Degrelle a cui – e per mio colpevole ritardo – venni meno all’incontro di Madrid; Céline disperato e folle che diede parola al rigetto d’ogni tentativo consolatorio e giustificante di dare senso alle cose e a me stesso… e, beh, l’elenco dei dieci libri è stato forato e non invano.
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