Il movimento dei fasci nasce il 23 marzo del 1919: stabilire, però, tra la riunione di piazza san Sepolcro e l’incendio dell’Avanti del 15 aprile un rapporto diretto di causa ed effetto, non è possibile e sarebbe errato; la lettura dei resoconti fatti dai principali protagonisti di questa prima clamorosa azione antisovversiva del dopoguerra, la ricostruzione che dell’episodio si può ricavare dalle cronache giornalistiche e poliziesche, la considerazione soprattutto dello stato d’animo dei controdimostranti riuniti in Galleria, tutto conferma la spontaneità dell’azione ed il suo sostanziale travalicare, almeno nelle conclusioni, le intenzioni degli stessi organizzatori del raduno antisocialista, Marinetti, Vecchi e Mario Chiesa.
La tesi della spontaneità dell’azione sarà da essi unanimemente sostenuta: scriveranno Vecchi e Marinetti, nel manifesto stilato dopo il fatto, congiuntamente da futuristi, Arditi e Fasci di combattimento: “Nella giornata del 15 aprile avevamo assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna controdimostrazione, perché prevedevamo il conflitto e abbiamo orrore di versare il sangue italiano. La nostra controdimostrazione si formò spontanea per invincibile volontà popolare. Fummo costretti a reagire contro la provocazione premeditata degli imboscati…Col nostro intervento intendiamo di affermare il diritto assoluto dei quattro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono dirigere e dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia. Non provocheremo, ma se saremo provocati aggiungeremo qualche mese ai nostri quattro anni di guerra…Risponderemo senza Carabinieri, né questurini né pompieri, e senza il concorso delle truppe…”
Dichiarerà anche Mussolini, in un’intervista concessa il 17 aprile al Giornale d’Italia, dalla sede del Popolo d’Italia che: “…non è un giornale, ma una fortezza che nessuno potrà espugnare”: “Conoscete la cronaca della giornata di martedì. Quello che avvenne fu spontaneo e fu provocato dall’elemento estremista del sovversivismo milanese. Guardate la lista dei morti e dei feriti. Si tratta di ragazzi dai 16 ai 18 anni: gli operai di una certa età e di una certa esperienza non partecipano a dimostrazioni senza scopo. E questi operai sono la maggioranza enorme anche a Milano. Tutto quello che avvenne all’Avanti fu spontaneo, assolutamente spontaneo. Movimento di folla, movimento di combattenti e di popolo stufi del ricatto leninista. Si era fatta un’atmosfera irrespirabile, Milano vuole lavorare. Vuole vivere…Noi dei Fasci non abbiamo preparato l’attacco al giornale socialista, ma accettiamo tutta la responsabilità morale dell’episodio. Se i socialisti avessero un tantino di fegato dovrebbero rivendicare la loro parte di responsabilità morale e forse materiale di tutto il resto.”
Il giorno successivo, sul Popolo d’Italia, Mussolini torna sull’argomento, per ribadire il carattere “popolare” dell’azione: “Ma, diciamolo qui chiaro e forte, non erano reazionari, non erano borghesi, non erano capitalisti quelli che mossero in colonna verso via S. Damiano. Era popolo, schietto, autentico popolo ! Erano soldati e operai stanchi di subire il ricatto sabotatore della pace, stanchi di subire le prepotenze, non più semplicemente verbali, dei leninisti. Qui il nostro giornale era stato presidiato da soldati e operai, autentici soldati, autentici operai ! Nessun borghese, dal grosso portafoglio, ha cercato la soglia, ben vigilata, della nostra fortezza ! E’ l’interventismo popolare, il vecchio buon interventismo del 1915 che in tutte le sue gradazioni si è raccolto intorno a noi !”
Milano aveva già conosciuto, il 16 febbraio, una giornata di paura, allorché un forte e combattivo corteo socialista aveva percorso le vie cittadine cantando canzoni sovversive, insultando e minacciando chiunque incontrasse per via, ed era sembrato incontenibile nella sua forza ed irruenza.
Ecco perché distruggere la sede del potente giornale del (pre)potente Partito socialista è impresa che deve sembrare troppo azzardata e pericolosa anche ai più arditi fra quanti Arditi, futuristi e studenti si raccolgono in Galleria quel pomeriggio del 15 aprile.
Pomeriggio quasi festivo, per lo sciopero generale indetto dalla Camera del lavoro cittadina, a seguito dei gravi incidenti occorsi il 13 sera, tra polizia e socialisti, a largo Garigliano, al termine di un comizio.
Alle 14,00 si tiene all’Arena la manifestazione di protesta, durante la quale, peraltro, gli anarchici impediscono a Claudio Treves di parlare; al termine, un lungo corteo, infiammato dalla parole accese degli oratori, si dirige verso il centro, tradizionale punto di ritrovo, con i suoi caffè, della piccola e media borghesia, oltre che degli Ufficiali smobilitati in attesa di sistemazione.
La direzione
presa dal corteo e il suo procedere minaccioso, sembrano avvalorare i timori di chi prevede in questa “marcia” i prodromi di un’occupazione di uffici pubblici e, quindi, di una vera e propria insurrezione generale; è per questo che un buon numero di futuristi ed Arditi si ritrova in Galleria, in coincidenza con il raduno socialista, per ascoltare le parole di Vecchi, Marinetti ed altri oratori; ad essi si unisce un gruppo di Ufficiali studenti, guidati da Mario Chiesa e provenienti dal Politecnico: essi, due giorni dopo, formeranno la squadra del Politecnico “pronti ad ogni cimento per la vita e per la morte”. Per ora sono lì in piazza, con gli altri: in verità, se dobbiamo credere a Marinetti, stanno ad ascoltare “discorsi inutili rivolti alla facciata del Duomo, mentre tutte le facce erano rivolte all’imboccatura di piazza Mercanti e relativo cordone di Carabinieri e fanteria”.
presa dal corteo e il suo procedere minaccioso, sembrano avvalorare i timori di chi prevede in questa “marcia” i prodromi di un’occupazione di uffici pubblici e, quindi, di una vera e propria insurrezione generale; è per questo che un buon numero di futuristi ed Arditi si ritrova in Galleria, in coincidenza con il raduno socialista, per ascoltare le parole di Vecchi, Marinetti ed altri oratori; ad essi si unisce un gruppo di Ufficiali studenti, guidati da Mario Chiesa e provenienti dal Politecnico: essi, due giorni dopo, formeranno la squadra del Politecnico “pronti ad ogni cimento per la vita e per la morte”. Per ora sono lì in piazza, con gli altri: in verità, se dobbiamo credere a Marinetti, stanno ad ascoltare “discorsi inutili rivolti alla facciata del Duomo, mentre tutte le facce erano rivolte all’imboccatura di piazza Mercanti e relativo cordone di Carabinieri e fanteria”.
I convenuti, in effetti, sono lì non per il solito comizio, ma perché piuttosto vogliono testimoniare, con la loro presenza, la volontà di non cedere alla “bestia ritornante” il possesso quasi fisico di quelle strade, anche contro l’indifferenza e la pura dei borghesi e l’ostilità dei quartieri popolari, dove chi si avventura in divisa rischia spesso insulti ed aggressioni.
Quando, perciò, quel pomeriggio del 15 aprile verso le 16,00, l’eco del canto di “Bandiera rossa” mischiata alle grida di “viva la rivoluzione” e “viva la Russia”, “a morte gli interventisti” arriva in piazza Duomo, per i giovani equivale ad una frustata in pieno viso; le staffette inviate incontro al corteo annunciano che esso, travolgendo ogni resistenza della forza pubblica, si avvicina, con in testa le foto di Lenin e Malatesta (segue)
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