Che diluvio al Gaffurio! – Un cadavere in stato di putrefazione
19. CHE DILUVIO AL GAFFURIO!
Comizi fascisti si tengono, senza incidenti, ma in un clima di grande tensione, a Milano, in piazza Belgioioso, ed a Monza; il comizio nel capoluogo, in particolare, assume toni molto suggestivi e originali, per la coreografia nuova e di stile “ardito” che l’accompagna.
A decidere per il comizio in piazza, e non al chiuso del teatro Dal Verme, come consigliano i più prudenti, e non solo per questioni meteorologiche, è proprio Mussolini, nel corso di una riunione al Comitato elettorale; egli stesso, accompagnato dall’Ufficiale degli Arditi Gino Svanoni, fa un giro delle piazze disponibili e sceglie la più affidabile “strategicamente”, piazza Belgioioso, appunto.
A conferma dell’estrema eccitabilità degli animi, alla vigilia, il 7 novembre, si rinnovano in Galleria incidenti e corrono pistolettate tra gruppi di fascisti e sovversivi, che, al termine di un comizio, hanno riproposto l’ormai consueta “marcia” sul centro cittadino, in cerca di ex combattenti e avversari.
La solerte Questura provvede a fermare Vecchi e Marinetti, che sono sempre in prima fila, e ritenuti anche in questo caso, non a torto, i “caporioni” di parte fascista, responsabili dell’accaduto.
Appunto per prevenire nuove provocazioni in occasione del comizio, il Popolo d’Italia del 10 riporta severe disposizioni organizzative, probabilmente stilate proprio da Mussolini:
“All’ora stabilita, i fascisti, gli Arditi, gli smobilitati, i volontari di guerra, i combattenti, i futuristi, gli studenti futuristi si troveranno alle loro sedi, per recarsi al luogo del comizio. Il comizio si terrà anche in caso di pioggia. Durante il comizio, gli aderenti al blocco fascista sono impegnati al più profondo silenzio, per individuare ed isolare immediatamente gli eventuali disturbatori e per udire gli ordini e vedere i segnali. Nel caso di conflitti, il pubblico deve filare rapidamente per via Morone, verso via Manzoni. Il comizio, come tutte le manifestazioni fasciste e dell’arditismo, sarà sbrigativo. Terminato il comizio, al grido di “eja, eja, alalà”, la massa fascista sfilerà compattamente per via Morone, via Manzoni, piazza della Scala via Silvio Pellico e si scioglierà, senza dar luogo ad incidenti, davanti alla sede del Comitato elettorale fascista. Altre misure minuziose, che non possiamo rendere di pubblica ragione, sono state prese perché il comizio fascista riesca, come riuscirà, indisturbato e solenne.”
Contemporaneamente, viene organizzato il concentramento in Milano di squadre di Arditi e fascisti, provenienti anche da fuori città. Sono piccoli gruppi, ma molto “decisi”; arriva da Cremona anche Roberto Farinacci, che porta con sé “quattro pellacce, forse poco fascisti, ma capaci di tutto”.
Per i suoi uomini egli chiederà, a fine giornata, un rimborso extra rispetto alle 30 lire accordate agli altri; per questo litigherà con Mecheri e la spunterà solo per il personale intervento di Mussolini.
In piazza, alla sera, mischiati alla folla, si ritrovano anche almeno un centinaio di Arditi in uniforme, armati ed inquadrati che, guidati da Mazzuccato, presidiano gli ingressi e le vie di accesso, per evitare brutte sorprese.
La manifestazione inizia, dunque, con l’esplosione di un razzo bianco da segnalazione, sparato da Mecheri con una pistola Very, e i vari oratori, tra i quali i soliti Vecchi, Marinetti e Mussolini, parlano alla folla da sopra un camion posto a ridosso della casa manzoniana. Viene concessa la parola anche ad un contraddittore, un giovane operaio socialista iscritto alla Camera del Lavoro, il cui intervento è seguito dall’uditorio in maniera sostanzialmente tranquilla; al termine del comizio, i partecipanti improvvisano un piccolo corteo nelle vie del centro, alla suggestiva luce delle fiaccole a vento rette dagli Arditi, e poi si sciolgono ordinatamente.
Il giorno dopo, Mussolini parla a Monza, senza che anche qui abbia a lamentarsi alcun incidente; viene così fissato per il 13 un comizio a Lodi: nella cittadina il clima è particolarmente teso, per avere i socialisti impedito già una prima manifestazione fascista. E’ questo il motivo per cui da Milano partono, in treno, una cinquantina di fascisti, molti dei quali non milanesi, ma presenti in città come già detto per dare manforte ai camerati del capoluogo, come l’avv. Ferrari ed il Magg. Bianchi, oratori designati in sostituzione di Mussolini, che all’ultimo momento ha dato forfait.
Arrivati nella cittadina, già nel percorso dalla stazione al teatro Gaffurio, sede dell’adunata, ai fascisti vengono rivolti insulti e minacce da parte di gruppi di sovversivi, ben intenzionati a ripetere l’intimidazione di qualche giorno prima; giunti, comunque, al teatro, gli squadristi si dispongono in Galleria e sul palco, strategicamente, in modo da poter fronteggiare nel modo migliore un assalto avversario che, a questo punto, appare più che probabile.
Esso, infatti, puntualmente si verifica, allorché una massa urlante, sfondato il portone, invade la platea; in un attimo il palcoscenico è bersagliato da tavole, attaccapanni, sedie divelte ed altri oggetti contundenti; per qualche minuto la rissa si spezzetta in una serie di corpo a corpo isolati, finchè dal fondo della sala vengono esplosi dei colpi di pistola, ed è il fuggi fuggi degli aggressori, che lasciano sul terreno un morto e due moribondi.
Il gruppo fascista, rimasto padrone del teatro, è arrestato quasi per intero dalla forza pubblica finalmente sopraggiunta; l’elenco dei carcerati di Lodi comprende alcuni nomi destinati a diventare famosi nell’ambiente fascista e squadrista; vi sono, tra gli altri, Italo Bresciani, Leandro Arpinati, Arconovaldo Bonaccorsi, Luigi Freddi e Asvero Granelli.
L’episodio, nel suo drammatico epilogo, è in buona parte causato dall’incapacità dell’apparato poliziesco a fronteggiare, o meglio, a prevenire situazioni di estrema pericolosità.
Il precedente, riuscito, tentativo di impedire il comizio fascista, e la dichiarata volontà di non subire la prepotenza per la seconda volta, lasciavano prevedere una concreta possibilità di incidenti. Eppure, nulla viene messo in atto per prevenire il contatto fra i due gruppi avversari, la cui grande disparità numerica faceva presumere, e legittimava quasi, l’uso delle armi da parte dei più deboli, che rifiutavano il ruolo predestinato di vittime di un atto di violenza e sopraffazione.
Certo, fuor di luogo in questo caso parlare di connivenza delle autorità con i fascisti, chè anzi, prevedibilmente essi avrebbero dovuto avere la peggio nel confronto con la massa sovversiva e, quindi avrebbero piuttosto tratto giovamento da una forte presenza di poliziotti e Carabinieri.
E’ più esatto attribuire l’inerzia dei pubblici poteri ad una radicata tendenza a “lasciar fare, lasciar perdere”, a lasciare, cioè, che le fiammate si spengano da sole, ed intervenire solo nei casi più estremi.
Tendenza che sarà ufficialmente adottata dal Governo nei mesi a venire, di fronte alle occupazioni di terre, alle rivolte paesane e cittadine, fino alle occupazioni delle fabbriche.
Sul versante fascista, i fatti di Lodi confermano da un canto la “coriaceità” dei primi squadristi, disposti anche a fare ricorso al “fuoco fermo” se necessario, in situazioni di grave pericolo, dall’altro ripropongono l’efficacia risolutrice di un intervento deciso e duro, anche a costo di provocare delle vittime, come unico modo per difendere i propri diritti e sopperire alla grande inferiorità numerica.
La detenzione, per alcuni degli arrestati, si protrarrà fino a nove mesi di carcere preventivo; in cella, Arconovaldo Bonaccorsi si scopre insospettate doti di stornellatore ed è l’organizzatore dei cori carcerari. Mano a mano che usciranno, il liberati porteranno l’eco delle loro canzoni per le vie di Milano, con un ritornello che ricorda la prova del fuoco vittoriosa:
“Pussisti di Milano
Attenti, che diluvio
Ritornano da Lodi
I fascisti del Gaffurio”
20. UN CADAVERE IN STATO DI PUTREFAZIONE
Qualche giorno dopo la sparatoria di Lodi, il 16 novembre, l’esito elettorale sembra condannare definitivamente le speranze dei fascisti ed avvicinare la vittoria socialista. Alle urne si reca poco più del 50 % degli 11.000.000 circa aventi diritto al voto: ai socialisti vanno 156 seggi, ai popolari 100, mentre i restanti 252 vengono divisi tra liberali, radicali e repubblicani.
La lista fascista, presente solo a Milano, che è la roccaforte del movimento, prende 4.675 voti su 270.000 votanti circa; alla sconfitta si aggiunge la beffa del commento meneghino: “Già, con un maestro d’orchestra come Toscanini, la sonata non poteva che essere eccezionale”.
Mussolini in privato sembra prenderla allegramente; la vittoria schedaiola degli avversari non lo spaventa, ostenta quasi una certa strafottenza: “Voti ne abbiamo ottenuti pochi sì, ma in compenso di rivoltellate ne abbiamo sparate molte!”.
Ufficialmente, il commento è quello del Popolo d’Italia del 18, che minimizza l’insuccesso e, con un’arditezza retorica, trasforma la sconfitta in una vittoria politica.
Lo stesso giorno l’Avanti pubblica un trafiletto in cronaca, dove si annuncia che “un cadavere in stato di putrefazione fu ripescato stamane nel Naviglio: pare si tratti di Benito Mussolini”; e, infatti, un fantoccio raffigurante Mussolini viene gettato nel fiume: l’infelice commento del giornale socialista sembra così destinato ad aggiungere benzina sul fuoco che cova in città.
La sera del 17, alle prime notizie dei risultati elettorali, sono già scoppiati incidenti tra socialisti e fascisti; i primi si sono radunati, in via S. Damiano, sotto la sede del loro giornale, ad ascoltare le infuocate parole di “sua santità” Giacinto Menotti Serrati: “Lavoratori, la vittoria è nostra. Non dimentichiamo in quest’ora di legittima esultanza che nella vicina via Cerva i banditi fascisti attendono la nostra esemplare vendetta”.
Ma l’oratore si sbaglia, i “banditi” fascisti non “attendono”, ma, piuttosto, passano all’attacco ; un gruppetto, guidato da Albino Volpi, arriva in via S. Damiano e fa esplodere tra la folla un petardo Thevenot, che provoca poco danno e tanto panico. E’ un’intollerabile provocazione, che va subito rintuzzata; la massa sovversiva si trasferisce minacciosa sotto la sede del Comitato elettorale fascista, dove puntualmente gli incidenti si ripetono, con un bilancio complessivo di dieci feriti; segue la tradizionale proclamazione di sciopero generale , alla quale si aggiunge, questa volta, un’inaspettata quanto violenta reazione poliziesca.
E’ lo stesso Nitti che da Roma telegrafa per sollecitare severi provvedimenti contro i perturbatori dell’ordine pubblico, contro chiunque detenga “armi e, soprattutto esplodenti”, contro i complottatori ed i sediziosi. Nella stessa notte del 17 viene perquisita la sede del Comitato elettorale fascista e sono arrestati una quindicina di Arditi e fascisti rimasti di presidio.
Il giorno dopo tocca al Popolo d’Italia, dove sono rinvenute, in una stufa, 15 pistole ed una Very da segnalazione; scatta l’arresto per Mussolini. Anche l’abitazione di Vecchi, la sede degli Arditi e quella del Fascio in via Silvio Pellico sono perquisite dai poliziotti ormai scatenati, che arrestano praticamente tutto lo stato maggiore interventista e non rinunciatario milanese: Vecchi, Marinetti, Pasella, Bolzon ed altri; per tutti l’accusa è di detenere armi senza permesso.
Non è ancora contento l’Avanti, che, nel chiedere, infuriato: “corda e sapone ci vuole non contro l’ignoto sciagurato bombardiere, ma contro tutti i fascisti, minoranza che, pur sconfitta alle lezioni, continua a far tanta paura ai vincitori”, continua ad irridere in particolar modo, a Mussolini, che: “… aveva cercato la Camera dei Deputati e aveva trovato la camera di sicurezza”.
Gli arresti però, appaiono ai più, precipitosi e non necessari, di fronte a tanta precedente tolleranza dimostrata verso le intemperanze delle due parti: il Corriere della Sera, che pure non è tenero verso Mussolini e i suoi seguaci, parla il 19 di “atto di dedizione ai socialisti vincitori” e sottolinea “l’impressione penosa” che l’arresto di Mussolini produce nel paese. Lo stesso Nitti si rende allora conto che a Milano si è andato un po’ troppo oltre, e si rimangia i severissimi ordini, con una lavata di testa al Prefetto troppo solerte.
Il sospetto di una certa acquiescenza verso i vincitori delle elezioni è avvalorato dal fatto che lo zelante Prefetto ha anticipato la notizia dell’arresto dei capi fascisti alla delegazione socialista che, guidata da Treves, Turati e D’Aragona si è recata da lui per protestare dopo gli incidenti in Galleria e per chiedere, in sovrappiù, un manifesto ufficiale che annunci l’allontanamento da Milano di tutti gli Arditi e lo scioglimento del Fascio cittadino.
L’accenno di persecuzione “a caldo”, subito dopo l’insuccesso elettorale, non spaventa però più di tanto i fascisti: il Popolo d’Italia del 19 riconferma la piena solidarietà al direttore detenuto ed agli altri arrestati, con un appello firmato da tutti i maggiori dirigenti fascisti ancora in libertà:
“Il compenso è venuto, e quale nessuno di noi osava sperare. Benito Mussolini è in carcere. Ai demagoghi del Partito socialista che trascinano nel fango la vittoria e rinnovano in gioia aperta il tripudio silenzioso di Caporetto, il governo di sua eccellenza Francesco Nitti ha voluto gettare un uomo, un simbolo, una bandiera: Benito Mussolini… Non protestiamo. Ma siamo fieri ed orgogliosi di dichiararci colpevoli colui. Il suo reato è il nostro. Giuridicamente e moralmente ci accusiamo. Lui è con noi; noi siamo con lui. Se i demagoghi socialisti hanno bisogno di essere placati, ci offriamo a loro. Oggi come ieri, domani come dopodomani. Sempre. Viva l’Italia”
Analogo è l’atteggiamento de L’Ardito del 23 novembre:
“… Noi sottoscritti, superstiti della redazione dell’Ardito, affermiamo la nostra piena solidarietà con tutti i nostri compagni arrestati, col nostro direttore Ferruccio Vecchi, reo di fulgidi sentimenti di ardita italianità, col nostro carissimo Piero Bolzon, Capitano decorato ed austera figura di artista, cui vennero messe le manette come ad un volgare delinquente”
Mussolini viene comunque scarcerato quasi subito: lo stesso pomeriggio del 19; per gli altri arrestati, la detenzione si protrarrà ancora per una ventina di giorni.
La situazione, peraltro, resta grave e l’avvenire nebuloso: occorre tenere i nervi saldi e serrare le fila per superare la “raffica” che si è abbattuta sul fascismo; il 19 si riunisce il Comitato centrale e la Commissione esecutiva; il 23 tutti i rappresentanti regionali eletti a Firenze si radunano a Milano per decidere il da farsi.
Quel “manipolo di gente di fegato, capace di far scappare mille sovversivi, ma non di ricomporre un’urna elettorale”, ha bisogno di fare il punto della situazione, di fronte al deludente risultato elettorale, alla reazione poliziesca ed alla montante offensiva socialista.
E’ però inevitabile che, passata la buriana, qualcuno si sbandi; mentre ancora sono carcerati molti fascisti, la stessa redazione del Popolo d’Italia è sconvolta dal caso Rossato – Capodivacca, o “caso dei finanziamenti di Fiume”, come dicono i maligni.
Infatti, due redattori del giornale, Arturo Rossato e Giovanni Capodivacca, si dimettono dal loro incarico, adducendo dissensi di ordine politico; poi, però, di fronte alla reazione di Mussolini, che nega loro ogni indennità di liquidazione, si lasciano ad andare a rivelazioni che vogliono essere compromettenti per il loro ex direttore.
In particolare, essi denunciano un uso distorto dei fondi raccolti per Fiume; tali fondi sarebbero, infatti, stati adoperati in parte da Mussolini per mantenere a Milano, nel corso della campagna elettorale, il forte gruppo di Arditi e volontari di cui abbiamo detto.
La denuncia è inconsistente dal punto di vista della correttezza dei rapporti tra Mussolini e D’Annunzio; infatti, l’impiego di parte dei soldi per assicurare la presenza del capoluogo lombardo di una forza di supporto è stato esplicitamente autorizzato dal poeta. Egli, a chiarire ogni dubbio, lo confermerà a Mussolini, nuovamente in una lettera del febbraio del ’20:
“Da parte mia dichiaro ancora una volta che – avendo spedito a Milano una Compagnia dei miei legionari bene scelti per rinforzo alla vostra e dalla nostra lotta civica – io vi pregai di prelevare dalla somma delle generosissime offerte il soldo fiumano per quei combattenti.”
L’intera questione si concluderà, quindi, con la sconfitta dei due denuncianti, ai quali darà torto anche il lodo dei probiviri dell’Associazione lombarda dei giornalisti, investito dell’inchiesta. Indubbiamente, comunque, l’episodio porta in luce tensioni, contrapposizioni e delusioni che qua e là cominciano ad emergere all’interno del movimento fascista.
Di qui a qualche mese, nel gennaio del ’20, usciranno dal fascismo Mecheri, Lanzillo ed altri, per dissensi sull’atteggiamento da prendere di fronte allo sciopero dei ferrovieri; in tale circostanza, mentre i dissidenti riterranno di dovere comunque appoggiare i lavoratori nella loro battaglia, Mussolini pur riaffermando la solidarietà alla lotta dei ferrovieri per i suoi contenuti economici, dissentirà dalla scelta scioperaiola da essi adottata:
“… A sciopero dichiarato noi diciamo che esso non può finire nel solito compromesso, salvo a ricominciare fra tre mesi. Noi chiediamo che ci sia finalmente un vinto ed un vincitore, chiediamo che la lotta sia lotta, non trucco, forse combinato a Roma: o lo Stato vince e il sindacato pere, o viceversa… Ma una “fine” ci vuole: un equilibrio bisogna trovarlo; una disciplina è necessaria, un “potere” deve funzionare e imporsi. Questo è il desiderio generale. Questa “tarantella” della dissoluzione, questa incoscienza disintegratrice, questo stato di perenne incertezza, che non è reazione e non è rivoluzione, devono finire.”
Di fatto, qualcosa sta mutando nell’orientamento generale del movimento. Il fascismo repubblicano ed anarchicheggiante è destinato a durare ancora, ma la sconfitta elettorale della lista fascista, e più in generale di tutta la sinistra interventista, le defezioni di molti dei primi fascisti che, con le loro convinzioni ed il loro bagaglio ideologico ed esperienza avevano influenzato i primi passi del movimento, il progressivo emergere di nuovi personaggi meno vincolati da precedenti esperienze politiche, sembrano lasciare presagire sintomi di un lento ma costante adeguamento e mutamento di programmi. Il conseguente sbandamento accentua la crisi (la “prima crisi del fascismo”) che si affaccia alle porte, proprio mentre l’iniziativa socialista contro le istituzioni prende sempre più forza, tra l’indifferenza e l’impotenza dei pubblici poteri.
Tocca ai singoli intervenire. A fine anno, a Roma, studenti e Ufficiali nazionalisti bastonano alcuni parlamentari socialisti, rei di aver sabotato la Seduta Reale.
La redazione dei colpiti è immediata: vene proclamato lo sciopero generale in tutto il Paese che, in varie città, fornisce l’occasione per nuove violenze sovversive che animano il periodo intercorrente tra la fine del ’19 “fosco anno di fraternità e sofferenza” per i fascisti e l’inizio del ’20.