18 Luglio 2024
Appunti di Storia

1919: Turbolento, Diabolico e Glorioso (2^ parte)

 

3. Giovinezza guerriera – 4. Sventrare, spazzare, ripulire – 5. Serata futurista

 

 

3. GIOVINEZZA GUERRIERA

Contro tutti i rinunciatari, che vogliono negare i diritti della vittoria italiana, i più intransigenti sono, fin dall’inizio, futuristi ed Arditi, due gruppi umani tra i quali i legami sono strettissimi, favoriti anche dalla contemporanea appartenenza alle due comunità di molti esponenti di spicco.

A loro non possono bastare le varie “alleanze di difesa” che, soprattutto in funzione antisocialista, vanno sorgendo un po’ dovunque; troppo limitati sono gli obiettivi e, soprattutto troppo legati al vecchio mondo sono dirigenti ed organizzatori di queste associazioni. In genere, si tratta di “pacifici professori ed illuminati commentatori della Divina Commedia”, che qua e là danno vita a gruppi dai nomi fantasiosi e roboanti: “Unione popolare antibolscevica”, Fascio delle associazioni patriottiche”, “Comitato di organizzazione civile” che però, spesso, si limitano nei fatti a raccogliere l’adesione del solo fondatore e di qualche amico.

Il loro orientamento, sostanzialmente “liberale e nazionalista”, è irriso spietatamente da Ferruccio Vecchi:

“Il Partito liberale è un uomo in veste da camera, pantofole ricamate in seta, pipa di terracotta in una testuccia di Garibaldi, goccetta permanente al naso e altrove… papalina a fiocchetto pure ricamata, scaldino, Corriere della Sera…ritratto di Vittorio Emanuele III alle pareti, canticchia Verdi, sgrida il cane e orina nei vasi da fiori per far dispetto alla cuoca.

In questi ultimi tempi l’hanno informato che c’è stata una guerra ed egli, stupito, ha chiesto: “C’eravamo anche noi? Chi ha vinto?” “L’Italia” gli è stato risposto.

Il vecchio ha esclamato allora: “Che bravi ragazzi, bisognerebbe pagar loro il cinematografo!”

…Ci siamo avvicinati ai nazionalisti. Questi giovani hanno un discreto coraggio fisico, ma sono tarlati dal vecchio baco monarchico, che, nel Consiglio della Corona perdette ogni autorità, riconoscendo quella illegale di Giolitti e Cagoia. Come i liberali, sono schiavi delle tradizioni più balorde.

D’altra parte, un Partito che pretendeva il nostro intervento accanto agli Imperi Centrali, e che non vide il posto logico dell’Italia, è per sempre esautorato.”

 

Nella maggioranza dei casi, questi reazionari – vecchi e giovani – in pantofole e papalina sono ostili alle classi lavoratrici, anche quando, come spesso accade, non hanno concreti interessi economici da difendere; vecchi arnesi del vecchio mondo, con i quali difficilmente possono legare futuristi ed Arditi.

I primi sono guidati dal capo e fondatore del movimento, Filippo Tommaso Marinetti:

 

 

“Dopo Vittorio Veneto, io predicai la necessità per ogni combattente, di diventare un cittadino eroico. Infatti, nel famoso 1919 fascista, ci trasformammo tutti in cittadini eroici, per difendere la nostra integrità di interventisti colle bombe e il revolver.”

 

Agli Arditi si è rivolto il 10 novembre, pochi giorni dopo la fine della guerra, cioè, con intenzioni altrettanto chiare Mussolini, confermando gli stretti legami che lo legano a quei combattenti d’elite:

“Arditi, commilitoni! Io vi ho difeso quando il vigliacco filisteo vi diffamava. Sento qualche cosa di me in voi, e forse voi vi riconoscete in me. Rappresentate la mirabile giovinezza guerriera dell’Italia. Il balenio dei vostri pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe farà giustizia di tutti i miserabili che volessero impedire la marcia della più grande Italia. Essa è vostra! Voi la difenderete! La difenderemo insieme!”

 

All’oratore gli Arditi hanno regalato, in segno di simpatia, un loro nero vessillo, a testimonianza che il suo è un discorso molto ben accetto da quei valorosi combattenti che, sotto la guida di Mario Carli e Ferruccio Vecchi si vanno raccogliendo, a partire da gennaio, nella neonata Associazione Nazionale Arditi, inquieta filiazione dell’Associazione Nazionale Combattenti, a sua volta in via di costituzione in tutta Italia.

L’associazione si propone innanzitutto di conservare i vincoli solidaristici fra i suoi aderenti, glorificare i meriti combattentistici dei reparti d’assalto, educare, anche in pace, ad uno stile di vita “ardito”; il “decalogo dell’Ardito in congedo” esorta a conservare nella vita civile quell’inclinazione cavalleresca e per la guerra senz’odio” già mostrata al fronte:

“Difendi i deboli ovunque. Ritieni altissimo onore questo compito arduo… vale più una vita breve e gloriosa che una vita lunga ed imbelle… Alle offese di chiunque reagisci prontamente, ma non serbare astio nel cuore. Il forte non odia perché non ha paura di insidie. L’odio è sinonimo di debolezza… Aiuta i tuoi compagni di guerra dovunque abbiano bisogno di te. V’è, fra noialtri, un passato comune che non bisogna dimenticare. La nostra fratellanza spirituale l’ha sanzionata il pericolo, l’ha cementata la gloria”.

 

 

4. SVENTRARE, SPAZZARE, RIPULIRE

Mario Carli, nel suo manifesto del novembre ’19, fonderà insieme le categorie dell’Ardito e del futurista, creando una nuova “sintesi”:

“L’Ardito futurista si proietta nell’avvenire come un acrobatico razzo illuminante, lasciandosi indietro, negli organizzati bivacchi, le moltitudini pesanti che solcheranno fatalmente la sua traccia di luce… Scugnizzo vestito di sole, che s’arrampica sul palcoscenico del mondo, squarcia il velario del futuro, fa crollare a carambolo le scene di cartapesta, insolentisce gli aristocratici delle barcacce, prende a pernacchi i palchi dorati, e torna a squarciare la notte con lo schianto dei suoi canti guerrieri.”

 

Per ora, Carli si limita a lanciare, già alla vigilia della fine del conflitto, il 20 settembre, un “primo appello alle fiamme”, per indicare i futuri obiettivi:

“C’è da fare moltissimo quaggiù. C’è da sventrare, spazzare, ripulire in ogni senso… Questo nemico non è solo tedesco, non è solo costituito da spie autentiche e patentate; è anche italiano, e ostenta il più puro patriottismo, per nascondersi meglio. Individuarlo è, quindi, difficile e pericoloso. Ma noi riusciremo egualmente… Ormai noi abbiamo una missione. L’Italia ha creato gli Arditi perché la salvino da tutti i suoi nemici. Bisogna sperare tutto e chiedere tutto agli Arditi. Il nostro pugnale è fatto per uccidere i mostri esterni ed interni che insidiano la nostra Patria. Bisogna essere fieri di questo divino compito. Del resto, che cosa c’è di più italiano, di più vivo, di più futurista del Corpo degli Arditi?… Gli Arditi sono dunque la vera avanguardia della nazione. Avanguardia in guerra, per ora. Oggi si combatte contro l’austriaco. Domani, tornando alla vita, si costruirà con altre armi, ma con lo stesso coraggio antesignano, i valori della politica, dell’arte e della ricchezza nazionale.”

 

Figura di spicco, tra gli Arditi, è quella del romagnolo, trapiantato ora a Milano, Ferruccio Vecchi, la cui fama è particolarmente grande in tutto il Paese. Poco più che ventenne, proveniente dal XXX° Reparto d’assalto, già Capitano pluridecorato, con quattro medaglie d’argento, “nel modo di fare e nell’aspetto somigliava ad un moschettiere; continuava a credere che la vita fosse un campo di battaglia, nel quale per vincere bastassero l’entusiasmo e il coraggio”; di lui si raccontano cose straordinarie, D’Annunzio lo chiama “l’Ardito degli Arditi”, ed è, anche nell’aspetto fisico, un personaggio fuori dal comune, efficacemente reso da Luigi Freddi:

Il suo volto pallido e tagliente, incorniciato da una capigliatura nerissima da legionario garibaldino e da un pizzo nero da cospiratore mazziniano, che ne fanno più risaltare il pallore marmoreo, è solcato da due occhi che lo animano e lo irradiano di luce, luce fatta di bagliori, simile a quella proiettata dagli incendi delle polveriere.”

A futuristi ed Arditi si uniscono altri gruppi, diversi ed eterogenei: “politici”, come i repubblicani, i sindacalisti rivoluzionari e i “mussoliniani”, o, più semplicemente “combattentistici”, come i mutilati, i decorati, i volontari, i profughi dalmati; tutti sono accomunati, aldilà della diversa provenienza, dall’unica costante di cercare valori “nuovi”, non ben individuati e, forse, non uguali per tutti, ma sentiti come necessari per poter uscire dallo stato di impasse, quando si rischia che il dopoguerra “sciupi” la guerra.

Tutti si riconoscono, peraltro, nella maggior parte delle posizioni del Popolo d’Italia, il giornale di Mussolini, che da Milano ha condotto un’efficace e decisiva battaglia interventista, e non sembra ora disposto a smobilitare, come dimostra l’articolo del 18 marzo:

“Noi interventisti siamo i soli che, in Italia, hanno il diritto di parlare di rivoluzione. Forse, per questo, ne parliamo assai poco. Noi non abbiamo bisogno di attendere la rivoluzione russa, come fa il gregge tesserato, né la parola ci sgomenta, come succede al mediocre pauroso che è rimasto col cervello al 1914. Noi abbiamo già fatto la rivoluzione. Nel maggio del 1915. Noi prendiamo le mosse da quel maggio che fu squisitamente e divinamente rivoluzionario, perchè rovesciò una situazione di vergogna all’interno e decise – vedi intervista Ludendorff le sorti della guerra mondiale. Quello fu il primo episodio della rivoluzione. Fu l’inizio. La rivoluzione è continuata sotto il nome di guerra per quaranta mesi. Non è finita. Può avere o può non avere il decorso drammatico che impressiona. Può avere un ritmo più o meno affrettato. Ma continua.”

 

 

5. SERATA FUTURISTA

E’ proprio a Milano che, la sera dell’11 gennaio, questi gruppi portano a compimento la loro prima azione del dopoguerra, contestando e facendo praticamente fallire il comizio che Leonida Bissolati, invitato dalla “Famiglia italiana per la Società delle Nazioni” avrebbe dovuto tenere alla Scala.

Il popolare leader riformista, che è stato volontario in guerra nonostante l’età, si propone di spiegare in pubblico, dopo una tanto discussa intervista al “Morning Post”, i motivi delle sue dimissioni dal Governo, provocate da contrasti con Orlando e Sonnino sull’atteggiamento da assumere di fronte alla pace.

Impegnato nell’affermazione di ideali umanitari ed internazionalistici, Bissolati arriva infatti a teorizzare la rinuncia all’Alto Adige, al Dodecaneso ed alla Dalmazia, senza considerare quanto ancora sia troppo vivo nella memoria e nel cuore di tutti l’alto costo in vite umane e sacrifici della guerra, per poter rendere praticamente accettabile il suo discorso.

Per di più, già si profila all’orizzonte il tentativo degli alleati di ieri di fare della nostra vittoria una “vittoria mutilata” come annota a Capodanno D’Annunzio nel suo Diario: “1919, anno terribile nel quale gli italiani dovranno superare una prova più dura di quella di Caporetto. Tutti i buoni italiani devono dire “vittoria nostra non sarai mutilata”.

E’ evidente, quindi, che le posizioni bissolatiane non possono trovare alcun consenso nella pubblica opinione già interventista ed oggi “non rinunciataria”. Lo testimonia l’imbarazzo e lo sbandamento degli stessi sostenitori del leader riformista, messi in difficoltà e rintuzzati dall’offensiva di tutti i settori dell’interventismo, sia democratico di sinistra che nazionalista di destra.

Per questi settori, il comizio di Bissolati appare come una provocazione: impedire a Bissolati di parlare, o, perlomeno, contestarne il discorso ed imporre il contraddittorio, nel quale, eventualmente toccherebbe a Mussolini il compito di contrastare le tesi dell’avversario, diviene quindi l’imperativo categorico dei “non rinunciatari”.

Tra Mussolini e Bissolati intercorre un vecchio rapporto di conoscenza, che ha avuto fasi alterne: al Congresso socialista di Reggio Emilia, nel 1912, il primo è stato il presentatore di una “lista di proscrizione” che chiedeva l’espulsione dal PSI del leader riformista, per “gravissima offesa allo spirito della dottrina e alla tradizione socialista”; l’ostilità tra i due è continuata durante il periodo della direzione mussoliniana dell’Avanti, per poi attenuarsi nel corso della campagna interventista, allorché si sono trovati schierati sulle stesse posizioni.

Finita la guerra, di fronte all’atteggiamento rinunciatario di Bissolati, Mussolini non può non manifestare il suo dissenso, pur facendo salva una certa personale considerazione del vecchio leader, che, ancora alle lezioni di novembre, sarà appoggiato dai fascisti cremonesi.

Per ora, comunque, il divario tra i due appare incolmabile. E’ quindi con intenzioni bellicose che futuristi, Arditi ed interventisti, con in testa Martinetti, Vecchi e Mussolini si presentano in folto gruppo al teatro, decisi a contrastare in ogni modo l’oratore.

Le difficoltà pratiche per realizzare un simile intendimento, che derivano dalle precauzioni messe in atto dagli organizzatori della serata, sono superate con un po’ di buona volontà ed un pizzico di fantasia: Marinetti, che è riuscito a procurarsi un biglietto, entra nel teatro e “prende possesso” di un palco, dopo di che, con lo stesso biglietto, riciclato parecchie volte, riescono ad entrare anche altri arditi e futuristi: Ernesto Daquanno, Armando Mazza, i fratelli Besozzi, etc.

Alla prima occasione, non appena l’oratore prende la parola, i contestatori provocano l’incidente: grida, fischi e conseguente cazzottatura con i poliziotti che cercano di espellerli e con qualche bissolatiano che, dal basso, prova a dare la scalata al palco; alla porta del palco si mette allora il poeta “parolibero” Armando Mazza, “eccellente declamatore di versi, tonante dicitore di manifesti tecnici futuristi”, ma anche erculeo, con un fisico da lottatore greco-romano, che garantisce contro ogni tentativo di defenestrazione.

La serata assume così toni vagamente goliardici, per i potenti “amen” –sul tipo di quelli intercalanti certe filastrocche universitarie- che Marinetti lancia ad ogni pausa del mezzo discorso che Bissolati riesce a tenere, mentre parte del pubblico in sala chiede a gran voce l’intervento di Mussolini.

L’impresa, nel complesso, riesce alla perfezione: Bissolati raccoglie le sue carte e lascia il palcoscenico; i suoi fischiatori, minacciosamente tallonati dai “maddaleni pentiti” seguaci dell’oratore, escono dal teatro e si riversano sulla piazza, dove trovano radunata una folla di Arditi e futuristi che, per la mancanza di biglietti non sono riusciti ad entrare. Con loro si forma un corteo che si dirige, per una rumorosa fischiata, alle sedi del Secolo e del Corriere della Sera, giornali che hanno fin qui appoggiato le tesi bissolatiane.

Una delegazione raggiunge il Popolo d’Italia e chiama a gran voce Mussolini, che si affaccia ad un balcone per dire alcune parole di circostanza.

Da un punto di vista politico, egli è il trionfatore della serata: l’episodio dell’11 gennaio, infatti, se favorisce il suo rilancio, dà in pratica il via, nel capoluogo lombardo, ad una serie di manifestazioni e raduni, più o meno importanti, che lo vedranno sempre in posizione di primo piano.

Al primo di questi raduni, i bissolatiani rendono pan per focaccia ai loro avversari: infatti, in occasione del programmato comizio antirinunciatario del giorno 14 alla Scala, oratore proprio Mussolini, fanno stampare migliaia di biglietti di invito falsi, che diffondono negli ambienti neutralisti. La cosa preoccupa il Prefetto, che rinvia la manifestazione: all’annuncio del rinvio, che viene dato da Mussolini stesso alla folla raccolta nelle vicinanze del caffè Biffi, in Galleria, si ripetono le manifestazioni di protesta (con relative fischiate) al Secolo ed al Corriere della Sera.

Tutto contribuisce a far crescere l’attesa: alla fine il comizio si tiene la sera del 17, con grande, entusiastica partecipazione di tutti i settori dell’interventismo milanese. Mussolini non parla, anzi non è neppure presente in teatro, forse per evitare che la sua presenza possa scaldare troppo gli animi; è, però, certo che il direttore del Popolo d’Italia ripropone sempre più efficacemente, giorno dopo giorno, il suo ruolo di leader di tutto l’interventismo non rinunciatario e non allineato ai nazionalisti.

Chi esce sconfitto, più di quanto non lasci intravedere la semplice mancata riuscita di una manifestazione di propaganda, è Bissolati e quel filone interventista “democratico”, sia pure ridotto di numero, che a lui guarda con fiducia, ma che è destinato a liquefarsi nei mesi a venire.

Esagerato, comunque, parlare, per la serata alla Scala, di “prima spedizione punitiva del dopoguerra”, certo più realistica la definizione defeliciana di “serata futurista”, considerato il carattere assolutamente incruento e “burlesco” dell’intervento “protofascista”.

La risonanza dell’episodio non è però solo milanese, ma si estende a tutta l’Italia, e chiarisce agli ultimi incerti l’utopia di atteggiamenti come quello del leader socialista riformista; è’ chiaro che è altrove che va cercata la possibilità di realizzare le aspirazioni che hanno mosso l’interventismo di sinistra nel maggio 1915: chi vuole ora rivendicare l’intervento, esaltare la vittoria , e nello stesso tempo, rifiutare le degenerazioni del socialismo marxista, deve indirizzarsi altrove, magari dando vita ad una nuova forza politica.

In parte proprio dall’insuccesso bissolatiano sarà favorita la presenza massiccia di tanti interventisti “democratici” nei primi Fasci, che di qui a qualche mese darà ai medesimi quegli indiscussi caratteri “di sinistra”, a Milano, ma anche altrove, che faranno parlare a Tamaro e, in genere, a tutti i commentatori più “moderati” di “errore iniziale”del fascismo; quale rilevanza avranno questi caratteri sarà ben sintetizzato da Piero Bolzon, uno dei protagonisti di quelle giornate:

“Ben noto era da che filone provenivano duci e gregari: erano globuli rossi, rossissimi che circolavano nella rivolta degli eresiarchi, senza infezioni linfatiche di nessuna tendenza. Le vampe di quel fuoco facevano vermigli i volti e i cuori. Le bandiere del futurismo, del sindacalismo interventista e dell’irridentista repubblicanesimo erano inondare addirittura dal fiammeo colore. Ed anche quando si ripiegarono nei mirabili “Statuti della reggenza del Carnaro” crearono, nella sintesi dannunziana, una valorizzazione e non un annullamento.”

 

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