Discorsi inutili – Il più bell’articolo di Ferruccio Vecchi
11. DISCORSI INUTILI
Stabilire tra la riunione di piazza san Sepolcro e l’incendio dell’Avanti un rapporto diretto di causa ed effetto, non è possibile e sarebbe errato; la lettura dei resoconti fatti dai principali protagonisti di questa prima clamorosa azione antisovversiva del dopoguerra, la ricostruzione che dell’episodio si può ricavare dalle cronache giornalistiche e poliziesche, la considerazione soprattutto dello stato d’animo dei controdimostranti riuniti in Galleria, tutto conferma la spontaneità dell’azione ed il suo sostanziale travalicare, almeno nelle conclusioni, le intenzioni degli stessi organizzatori del raduno antisocialista, Marinetti, Vecchi e Mario Chiesa.
La tesi della spontaneità dell’azione sarà da essi unanimemente sostenuta: scriveranno Vecchi e Marinetti, nel manifesto stilato dopo il fatto, congiuntamente da futuristi, Arditi e Fasci di combattimento:
“Nella giornata del 15 aprile avevamo assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna controdimostrazione, perché prevedevamo il conflitto e abbiamo orrore di versare il sangue italiano. La nostra controdimostrazione si formò spontanea per invincibile volontà popolare. Fummo costretti a reagire contro la provocazione premeditata degli imboscati…Col nostro intervento intendiamo di affermare il diritto assoluto dei quattro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono dirigere e dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia. Non provocheremo, ma se saremo provocati aggiungeremo qualche mese ai nostri quattro anni di guerra…Risponderemo senza Carabinieri, né questurini né pompieri, e senza il concorso delle truppe…”
Dichiarerà anche Mussolini, in un’intervista concessa il 17 aprile al Giornale d’Italia, dalla sede del Popolo d’Italia che: “…non è un giornale, ma una fortezza che nessuno potrà espugnare”:
“Conoscete la cronaca della giornata di martedì. Quello che avvenne fu spontaneo e fu provocato dall’elemento estremista del sovversivismo milanese. Guardate la lista dei morti e dei feriti. Si tratta di ragazzi dai 16 ai 18 anni : gli operai di una certa età e di una certa esperienza non partecipano a dimostrazioni senza scopo. E questi operai sono la maggioranza enorme anche a Milano. Tutto quello che avvenne all’Avanti fu spontaneo, assolutamente spontaneo. Movimento di folla, movimento di combattenti e di popolo stufi del ricatto leninista. Si era fatta un’atmosfera irrespirabile, Milano vuole lavorare. Vuole vivere…Noi dei Fasci non abbiamo preparato l’attacco al giornale socialista, ma accettiamo tutta la responsabilità morale dell’episodio. Se i socialisti avessero un tantino di fegato dovrebbero rivendicare la loro parte di responsabilità morale e forse materiale di tutto il resto.”
Il giorno successivo, sul Popolo d’Italia, Mussolini torna sull’argomento, per ribadire il carattere “popolare” dell’azione:
“Ma, diciamolo qui chiaro e forte, non erano reazionari, non erano borghesi, non erano capitalisti quelli che mossero in colonna verso via S. Damiano. Era popolo, schietto, autentico popolo! Erano soldati e operai stanchi di subire il ricatto sabotatore della pace, stanchi di subire le prepotenze, non più semplicemente verbali, dei leninisti. Qui il nostro giornale era stato presidiato da soldati e operai, autentici soldati, autentici operai! Nessun borghese, dal grosso portafoglio, ha cercato la soglia, ben vigilata, della nostra fortezza! E’ l’interventismo popolare, il vecchio buon interventismo del 1915 che in tutte le sue gradazioni si è raccolto intorno a noi!”
Milano aveva già conosciuto, il 16 febbraio, una giornata di paura, allorché un forte e combattivo corteo socialista aveva percorso le vie cittadine cantando canzoni sovversive, insultando e minacciando chiunque incontrasse per via, ed era sembrato incontenibile nella sua forza ed irruenza.
Ecco perché distruggere la sede del potente giornale del (pre)potente Partito socialista è impresa che deve sembrare troppo azzardata e pericolosa anche ai più arditi fra quanti Arditi, futuristi e studenti si raccolgono in Galleria quel pomeriggio del 15 aprile.
Pomeriggio quasi festivo, per lo sciopero generale indetto dalla Camera del lavoro cittadina, a seguito dei gravi incidenti occorsi il 13 sera, tra polizia e socialisti, a largo Garigliano, al termine di un comizio.
Alle 14,00 si tiene all’Arena la manifestazione di protesta, durante la quale, peraltro, gli anarchici impediscono a Claudio Treves di parlare; al termine, un lungo corteo, infiammato dalla parole accese degli oratori, si dirige verso il centro, tradizionale punto di ritrovo, con i suoi caffè, della piccola e media borghesia, oltre che degli Ufficiali smobilitati in attesa di sistemazione.
La direzione presa dal corteo e il suo procedere minaccioso, sembrano avvalorare i timori di chi prevede in questa “marcia” i prodromi di un’occupazione di uffici pubblici e, quindi, di una vera e propria insurrezione generale; è’ per questo che un buon numero di futuristi ed Arditi si ritrova in Galleria, in coincidenza con il raduno socialista, per ascoltare le parole di Vecchi, Marinetti ed altri oratori; ad essi si unisce un gruppo di Ufficiali studenti, guidati da Mario Chiesa e provenienti dal Politecnico: essi, due giorni dopo, formeranno la squadra del Politecnico “pronti ad ogni cimento per la vita e per la morte”.
Per ora sono lì in piazza, con gli altri: in verità, se dobbiamo credere a Marinetti, stanno ad ascoltare “discorsi inutili rivolti alla facciata del Duomo, mentre tutte le facce erano rivolte all’imboccatura di piazza Mercanti e relativo cordone di Carabinieri e fanteria”.
12. IL PIÙ BELL’ARTICOLO DI FERRUCCIO VECCHI
I convenuti, in effetti, sono lì non per il solito comizio, ma perché piuttosto vogliono testimoniare, con la loro presenza, la volontà di non cedere alla “bestia ritornante” il possesso quasi fisico di quelle strade, anche contro l’indifferenza e la pura dei borghesi e l’ostilità dei quartieri popolari, dove chi si avventura in divisa rischia spesso insulti ed aggressioni.
La situazione in città è a tal punto deteriorata che, per esempio, ha voluto assumere un carattere di provocazione verso gli anarco socialisti il fatto che il 18 gennaio, in occasione dell’appello per la costituzione dell’Associazione Arditi, i sottoscrittori abbiano fatto seguire ai loro nomi l’indirizzo delle proprie abitazioni, ubicate non di rado in quartieri ostili.
Quando, perciò, quel pomeriggio del 15 aprile verso le 16,00, l’eco del canto di “Bandiera rossa” mischiata alle grida di “viva la rivoluzione” e “viva la Russia”, “a morte gli interventisti” arriva in piazza Duomo, per i giovani equivale ad una frustata in pieno viso; le staffette inviate incontro al corteo annunciano che esso, travolgendo ogni resistenza della forza pubblica, si avvicina, con in testa le foto di Lenin e Malatesta.
Al suo apparire, le finestre si chiudono e i rari passanti svicolano timorosi: appena i manifestanti arrivano in piazza, un randello sorvola il cordone di soldati e vola ai piedi di Marinetti; basta allora un rapido cenno di intesa e tutti si mettono a correre; in testa a tutti Vecchi, Marinetti, Mazzuccato, Luigi Freddi, Chiesa, Mazza e Pinna.
All’altezza del bar Mercanti c’è il primo scontro, e l’immediata esplosione di qualche revolverata da ambedue le parti, che provoca tre giovanissimi (un sedicenne e due diciannovenni) morti, forse addirittura estranei ai fatti. La maggiore esperienza degli attaccanti, tra i quali molti sono i reduci di imprese arditesche del tempo di guerra, il loro maggiore ardore, la spregiudicatezza dimostrata nell’attaccare in qualche centinaio una colonna di parecchie migliaia di dimostranti, che nella sua marcia verso il centro ha travolto come fuscelli i cordoni di truppa ed impaurito tranquilli e timidi bottegai, hanno presto ragione di ogni resistenza.
Allo scontro vero e proprio, che è brevissimo e dura solo qualche minuto, segue un lungo inseguimento della massa socialista, “dinamizzato” da mille piccole zuffe, lungo via Dante, fino a piazza Cairoli, di fronte al teatro Eden; qui è necessaria agli inseguitori una breve sosta, per ricomporre il gruppo e prendere fiato. Poi, i controdimostranti si tolgono la soddisfazione di assaporare la vittoria testè conseguita, con una sfilata a passo bersaglieresco per le vie del centro, via S. Margherita, via Manzoni, via Montenapoleone, largo S. Babila, sino a via S. Damiano, dov’è la sede dell’Avanti.
Sotto il giornale basta un cordone di soldati, disposto all’altezza del ponte sul Naviglio, a frenare l’impeto di questi primi squadristi; con ogni probabilità, tutto si risolverebbe con una solenne fischiata, del tipo di quelle che sono toccate al Secolo ed al Corriere della Sera qualche settimana prima, se un colpo di pistola, esploso dall’interno dell’edificio, non colpisse un giovane mitragliere di guardia allo stabile, Martino Speroni.
E’ a questo punto che il presidio di sorveglianza si dissolve; i militari hanno ben visto da dove si è sparato; il fatto che un po’ sotto la spinta degli assalitori e un po’ spontaneamente si facciano da parte sembra dimostrare inequivocabilmente che il colpo è partito dalla sede del giornale.
Il Popolo d’Italia, il giorno dopo accentuerà i toni di questa che, in fondo è stata solo una blanda forma di resistenza passiva, e nel suo sottotitolo scriverà: “I fascisti e l’Esercito assaltano l’Avanti”
L’attacco al giornale, in verità, si realizza secondo lo stile arditesco, con grandi urla, fuoco alle porte, pugnali balenanti e pistolettate, senza che vi sia alcuna consistente reazione da parte dei socialisti provvidenzialmente e tempestivamente fuggiti da un ingresso opposto a via S. Damiano.
Arrampicandosi sulle basse inferriate del piano terra, un manipolo di assalitori raggiunge il primo piano e, dopo aver gettato nel Naviglio mobili, caratteri di stampa e altro materiale, dà fuoco ai macchinari, servendosi dei molti opuscoli di propaganda e delle foto di Lenin pronte per la spedizione.
In prima fila, ancora Ferruccio Vecchi e i suoi uomini:
“Giunti davanti alla redazione designata, molte revolverate vennero sparate da dietro le persiane chiuse del primo piano. L’indignazione dei vendicatori non ebbe più freno: centinaia di rivoltelle furono estratte, centinaia di colpi risposero a quelli nemici: l’intonaco intorno alle finestre, investito dalle pallottole, cadeva spezzato, polverizzato. Poiché non fu possibile forzare la porta che dava sulla strada, un giovane si arrampicò, sospinto dagli incitamenti, fino alla finestra del balcone del primo piano e, mentre da dietro i regoli delle persiane partivano le revolverate e le maledizioni dei difensori, egli, a colpi tenaci di pugnale l’aprì! Un urlo di tripudio eruppe dai sottostanti: la battaglia era ormai vinta! S’arrampicò un secondo, un terzo, un quarto. Alcuni che vollero contemporaneamente dare la scalata al balcone, accavallandosi l’uno sull’altro, non ancora giuntici precipitarono a grappoli. Gli entrati dalla prima breccia, discese le scale, tolsero lo sbarramento di corde e travicelli al portone della strada: la gigantesca spalla della moltitudine lo sfondò, benché affidato ancora ad un grosso catenaccio. Il gigante infuriato si lanciò all’interno. Scansie, libri, ritratti, tavoli, annate del giornale e ogni altra sorte di materiale redazionale venivano calati dalle finestre superiori nella strada, e da questa gettati nel Naviglio, che le correva accanto…Un’immensa colonna di fumo, lingueggiante di fiamme e stellata di faville, salì nel cielo d’aprile.”
L’azione nel complesso dura circa mezz’ora e si conclude prima che possano arrivare altre forze di polizia; segue un corteo che, ritmando: “l’Avanti non c’è più, l’Avanti non c’è più!”, va a deporre ai piedi del monumento a Vittorio Emanuele l’insegna divelta dal portone del giornale; Vecchi, al termine, manda un ardito da Mussolini al Popolo d’Italia, con un biglietto che, anticipando il titolo dell’Ardito del 18 aprile, dice: “Dal balcone dell’Avanti sventola il vessillo nero!”.
L’eccitazione è grande: Vecchi è convinto di aver scritto, con la distruzione del giornale socialista, “il più bell’articolo” della sua vita; tutti i partecipanti ancora non riescono a convincersi di essere riusciti in un’impresa fino ad allora ritenuta inosabile.
Una manifestazione di simpatia a Mussolini viene improvvisata da parte dei vincitori del confronto di piazza anche sotto la sede del Popolo d’Italia; alla sede del giornale ed a quella dell’Associazione Arditi viene organizzato, in serata, un rinforzo di guardia, nel timore di possibili rappresaglie che avrebbero nei due “covi” gli obiettivi più probabili.
Ma la legge del taglione non viene applicata; Costantino Lazzari, al Congresso di Livorno, dirà che le ritorsioni “non si erano volute”; sta di fatto che bellicosi propositi di vendetta, che non arrivano ad escludere, tra l’altro, la soppressione dello stesso Mussolini, svaniscono come neve al sole, per fare posto alla più tradizionale dichiarazione di sciopero generale ed al lancio di una sottoscrizione nazionale per il riattamento del giornale che, nel frattempo, viene stampato a Torino.
Da parte governativa viene promossa un’inchiesta che, però, non conclude nulla; Ivanoe Bonomi ed Enrico Caviglia arrivano a Milano, interrogano i partecipanti all’azione e raccolgono testimonianze, senza dare corso ad alcun provvedimento, ed anzi, il secondo non è avaro di complimenti con i protagonisti dell’impresa.
La risonanza dell’episodio in tutto il Paese è vastissima, e grande è l’impressione che il fuoco milanese suscita nella pubblica opinione, come si può dedurre dal commento di Pietro Nenni, fervente repubblicano ed aderente al Fascio bolognese:
Noi deploriamo sinceramente che sangue fraterno sia corso per le vie di Milano, noi abbiamo sofferto più di quel sangue che di una battaglia persa; ma chi non ha diritto di lamentarsi chi non ha il diritto di protestare, è proprio l’Avanti, esaltatore del “terrore rosso”, esaltatore della guerra civile. Credevano forse in via S. Damiano che si potesse seminare a piene mani l’odio contro gli interventisti ed i patrioti, credevano che si potessero fare le liste di proscrizione, credevano che si potesse esaltare la dittatura del proletariato come redde rationem per chi aveva amato il proprio Paese, senza che la reazione fosse immediata ed imperiosa?
La gente è molto colpita dal fatto che, per la prima volta, in questo inizio di dopoguerra, il dominio della piazza, monopolizzato fin qui dai sovversivi, sia stato posto in discussione e rovesciato.
Molto impressionati sono anche i socialisti, e ne traggono le conseguenze del caso, almeno secondo l’opinione di Silvio Maurano:
“Ebbero paura. Ci videro più grossi di quel che eravamo…Si può dire che le stragi degli anni successivi ebbero la loro origine nella battaglia di via Mercanti. Infatti, da allora i bolscevichi rinunciarono a scendere apertamente a battaglia in piazza, e si rifugiarono nell’imboscata”
Tutti, a Milano, hanno ben chiaro in mente i ricordo della manifestazione del 16 febbraio, con centomila persone in piazza, dodici corpi musicali e quattrocento vessilli rossi, che avevano dato corpo alla minaccia di serrati di qualche giorno prima:
“…le piccole conventicole sono spazzate per sempre, che il PSI e le organizzazioni proletarie hanno un tale esercito a Milano, da far comprendere agli altri che è giunta l’ora di ritirarsi per sempre”
Parole in libertà, come ha dimostrato l’azione proprio gli ultimi arrivati sulla scena politica nazionale, mentre nessuno dei vecchi Partiti osa scendere in campo; sul Popolo d’Italia del 2 luglio Mussolini sottolineerà questo aspetto:
All’infuori del Partito socialista, che pretende di possedere il monopolio esclusivo della piazza, non ci sono altri gruppi Partiti, di quelli segnati nei vecchi cataloghi, che osino scendere in piazza. I Fasci di combattimento contendono al PUS questo privilegio.
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