A la guerre comme a la guerre – Arruolamenti e sfiascheggiamenti
13. A LA GUERRE COMME A LA GUERRE
Nelle settimane a venire, quei giovani “scalmanati” in camicia nera non mostrano alcun cenno di pentimento, non cercano scuse od attenuanti, anzi, lo dicono chiaramente: “a la guerre comme a la guerre”; per loro quella iniziata contro i socialisti è una battaglia decisiva. Il 15 aprile hanno agito di sorpresa e sono convinti di aver così anticipato l’azione dell’avversario; se fosse toccata a loro di avere la peggio, non si sarebbero lamentati e non avrebbero protestato; con il loro intervento hanno effettivamente sconvolto il panorama politico tradizionale della lotta politica che conosceva sì la pratica della violenza, ma era impreparato all’irruzione di una forza nuova, decisa e determinata, quale quella rappresentata da ex combattenti, futuristi ed Arditi.
L’assalto al giornale socialista ripropone più i modi di un’azione di guerra, con gli spari, le urla, il balenio di pugnali ed il fuoco finale “purificatore”, che non le precedenti consuetudini, pure non prive di episodi di intolleranza anche estrema.
Pochi, ma risoluti controdimostranti, riescono, il 15 aprile, ad avere la meglio su molte migliaia di scioperanti; non solo, ma la lezione data al giornale socialista rimane senza risposta efficace da parte dell’offeso.
Nel contempo, la decisione ed il coraggio dimostrati dai vincitori accreditano da subito la fama di combattenti temibili ed invincibili che fin dall’inizio accompagnerà gli squadristi e che tanta rilevanza avrà anche ai fini di un efficace proselitismo, mentre il suo carattere di violenza “a caldo” varrà a differenziare l’incendio dell’Avanti dalle imprese della stagione squadrista vera e propria, nella primavera del ’21, allorché nelle iniziative fasciste prevarranno un minimo di organizzazione ed una premeditata scelta e selezione degli obiettivi.
I radunati in Galleria invece, non sanno bene che cosa fare e che cosa li aspetta; stanno lì ad attendere gli eventi, rinnovando l’abitudine di ritrovarsi in quei luoghi, nelle lunghe giornate di attesa e di reambientamento da smobilitati.
Un’ulteriore prova della spontaneità dell’epilogo della giornata, e del fatto che gli avvenimenti prendono la mano agli stessi organizzatori della controdimostrazione, può essere data anche dal fatto che l’episodio rimane isolato, non provoca ricadute immediate né tentativi di imitazione per molti mesi.
Esagererà, al solito, Farinacci quando scriverà:
“Dopo 20 giorni dalla sua nascita, il fascismo s’era fatto adulto con l’azione. Quello che aveva promesso aveva mantenuto. Aveva imposto il combattimento. E, dopo lo “scandalo” della violenza, né si turba, né cerca pretesti, né invoca scusanti”
C’è molto “senno di poi” in queste parole: i tafferugli, che pure si hanno, a Milano soprattutto, ma anche in altri centri piccoli e grandi, vedono contrapposti agli anarco socialisti principalmente Ufficiali smobilitati, mutilati e decorati che, fatti oggetto di insulti ed aggressioni, si difendono come possono, e non di rado soccombono di fronte al numero degli avversari.
Certo, è troppo presto e troppo poco per parlare di risveglio delle coscienze “nazionali” e di volontà di aggregazione e iniziativa attivistica costante in funzione antisocialista; bisognerà, infatti, aspettare fino all’estate dell’anno successivo per veder altre manifestazioni di piazza sul tipo di quella milanese.
E, ancora una volta, nel luglio del ’20 sarà il giornale socialista, propagandista di odio e di violenza, a fare le spese dell’azione avversaria, questa volta a Roma.
I tafferugli, che pure si hanno, a Milano soprattutto, ma anche in altri centri piccoli e grandi, vedono contrapposti agli anarco socialisti principalmente Ufficiali smobilitati, mutilati e decorati che, fatti oggetto di insulti ed aggressioni, si difendono come possono, e non di rado soccombono di fronte al numero degli avversari.
Certo, è troppo presto e troppo poco per parlare di risveglio delle coscienze “nazionali” e di volontà di aggregazione e iniziativa attivistica costante in funzione antisocialista; bisognerà, infatti, aspettare fino all’estate dell’anno successivo per veder altre manifestazioni di piazza sul tipo di quella milanese.
Nella seconda metà di maggio, il mese che segna in 316 la punta massima degli scioperi mai registrata in Italia, i fascisti si muovono con una serie di manifestazioni pro Fiume italiana, sulla scia degli entusiasmi provocati dai comizi romani di D’Annunzio che, il 4 maggio, all’Augusteo, ha chiamato alla mobilitazione contro le manovre governative:
“Ardisco, non ordisco” è il motto italiano da opporre inaspettatamente agli orditori. L’ho trovato scritto intorno all’elsa di una daga. L’ho preso per me e per i miei. Ma oggi è di tutti. Oggi è nell’aria, oggi fischia nei quattro venti d’Italia. E lo vogliamo fermare, lo vogliamo incidere in una pietra del Campidoglio. E’ gemello di quell’altro che fu da me scritto nella tavoletta dietro la ruota del timone, sul mio guscio di Buccari, penetrando nel Carnaro, quando la scia temeraria trasferiva molto più a Levante i termini danteschi e giustamente riempiva la lacuna del patto di Londra: “Memento audere semper”.
All’appello rispondono i fascisti, che si affiancano così agli irredenti, ai repubblicani, ad esponenti dell’USI e dell’UIL, al Comitato per le rivendicazioni nazionali; le manifestazioni si fanno particolarmente vive dopo che, il 22 giugno, Nitti è chiamato a formare il Governo; lo statista lucano, infatti, è visto come espressione del rinunciatarismo in politica estera e di un risorgente giolittismo in politica interna.
L’agitazione dei fascisti deve raggiungere una certa consistenza e pericolosità, se il 28 maggio il Prefetto di Milano telegrafa preoccupato a Roma la notizia del progetto, deliberato in un’assemblea del 25, di inviare a Fiume 500 volontari.
Si diffondono anche voci di un prossimo colpo di Stato: è il Generale Giardino, in un’intervista al Giornale d’Italia, poi ripresa da tutta la stampa, a smentire, sia pure con qualche ambiguità, la voce che vede in Mussolini, D’Annunzio, Federzoni e lo stesso Giardino i responsabili di un progetto insurrezionale a favore del Duca d’Aosta.
Il Ministro della Guerra, Albricci, si spaventa e, con due “riservatissime” a tutti i Comandi militari, diffida gli Ufficiali dall’iscriversi ai Fasci, giudicati pericolosamente “rivoluzionari” ed antisistema.
Il Comitato centrale dei Fasci di combattimento, a sua volta, il 14 giugno, deve ufficialmente smentire ogni proposito insurrezionale, con un comunicato con il quale attribuisce la notizia a manovre ministeriali, con lo scopo di disorientare la pubblica opinione e screditare l’azione fascista.
Peraltro, la mobilitazione pro Fiume prosegue e si estende a tutto il territorio nazionale: il Prefetto di Roma il 7 luglio torna sull’argomento dei volontari, con l’informazione che Mussolini ha chiesto al Fascio della capitale l’organizzazione di squadre armate di 20/25 elementi e l’intensificazione degli arruolamenti. Di arruolamenti parla anche l’Associazione “Trento e Trieste”, che diffonde in tutto il Paese circolari per chiedere volontari: i sottoscrittori firmano una scheda di adesione,
in cui è detto, fra l’altro:
“Dichiaro di voler far parte, in qualità di volontario, dell’Esercito nazionale fiumano e di tenermi da oggi a disposizione dell’Associazione nazionale Trento e Trieste, impegnandomi sul mio onore a raggiungere nel tempo e nel modo che verrà indicato, la località che sarà scelta per il concentramento. Dichiaro, inoltre, che accetterò senza obiezioni il grado e l’Arma a cui sarò assegnato, secondo i servizi precedentemente prestati.”
L’impegno per Fiume non fa, però, passare in secondo piano gli altri argomenti di politica interna; le posizioni fasciste, di fronte ai problemi principali sul tappeto, sono riportate dal Popolo d’Italia del 9 giugno: esse si articolano in quattro punti: politico, sociale, militare e finanziario, e rispecchiano, in sostanza, istanze e proposte comuni a tutto l’ambiente interventista in questi mesi. Hanno, quindi, un tono “rivoluzionario perché antidogmatico e antidemagogico, fortemente innovatore perché antipregiudizievole”.
Lo stesso giorno, De Ambris e Mussolini tengono un comizio, nel cortile delle scuole di Porta Romana, per illustrare il programma: è la prima vera manifestazione pubblica fascista, che invano gli avversari cercano di ostacolare con un controraduno nelle strade adiacenti.
Gli oratori, in particolare, ribadiscono la richiesta di convocazione di un’Assemblea nazionale che stabilisca la forma di Costituzione dello Stato: monarchia o repubblica; la formazione di Consigli nazionali tecnici del lavoro, che “corporativamente” diano voce ai tecnici; la riduzione della giornata lavorativa a 8 ore; la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori alla direzione dell’azienda; l’istituzione di una milizia nazionale a carattere difensivo; il sequestro dei beni di tutte le congregazioni religiose e dell’85% dei profitti di guerra.
Alle parole seguono le accuse e le denunce, e non si salva nessuno: il 29 giugno, sul Popolo d’Italia Mario Gioda, attivo fascista torinese di matrice anarchica e operaia, centra il tiro, e se la prende con Agnelli e tutta la FIAT, accusata di speculazione e profitti di guerra.
14. ARRUOLAMENTI E SFIASCHEGGIAMENTI
Contemporaneamente, i fascisti si inseriscono nelle agitazioni contro il caroviveri, assumendo, in qualche zona, come la Liguria, un ruolo particolarmente attivo nell’azione di protesta; chiedono, in particolare, il calmieramento all’origine dei prodotti di grande consumo e di prima necessità, e lo svuotamento dei magazzini militari, dove le merci approvvigionate per le esigenze di guerra si vanno ora deteriorando.
Il Comitato centrale dei Fasci di combattimento, il 5 luglio proclama la sua “illimitata solidarietà con il popolo delle varie province d’Italia contro gli affamatori” e, nel contempo, plaude alle iniziative di requisizione popolare in atto qua e là, invitando i fascisti a fiancheggiare risolutamente le manifestazioni delle masse in rivolta.
De Ambris, lo stesso giorno, si spinge più in là, e parla di “giustizia di popolo”:
“…qualche incettatore penzolante dal lampione vicino al covo dei suoi misfatti, qualche trafugatore di alimenti schiacciato sotto delle patate o sotto i lardi nascosti per produrre il rialzo artificiale, servirebbero di esempio.”
Posizioni, come si vede, molto rigide nella difesa dei diritti della popolazione allo stremo, contro gli arricchimenti e le speculazioni del grosso capitale –ma anche dei piccoli profittatori- che dalla guerra –o, oggi dal dopoguerra- ha tratto –e cerca di trarre- solo profitto. In particolare, trovano eco negli ambienti fascisti le rivendicazioni delle masse contadine, che hanno sostenuto il peso maggiore della guerra e che al fronte hanno costituito la “solida fanteria contadina” populismo “palingenetico”, come ha detto qualcuno, ma che non verrà mai meno, nemmeno quando la lotta si farà più dura: il bastone che servirà per il capolega, tiranno e taglieggiatore, è lo stesso che, nelle intenzioni fasciste, dovrà servire per l’agrario profittatore e canaglia.
La situazione nel paese diventa ben presto incandescente: decine di morti, centinaia di feriti e tanti arresti (500 a Genova, 1.000 a Firenze, 1.200 a Milano) che rivelano chiaramente il livello di contrapposizione e la violenza dello scontro.
Ovunque si devono lamentare saccheggi di alimentari, requisizioni di merci e imposizioni di calmieri “proletari”; alle violenze, però, non di rado si abbandonano, confusi tra le masse di popolo, delinquenti comuni e borghesi “profittatori”.
La smania di svuotare i negozi, pagando a “prezzo politico”, contagia tutti: l’impunità per i più furbi e svelti sembra facilmente assicurata con un po’ di destrezza; questa ansia di consumo, in pratica, rischia di acuire la crisi: in poche ore viene dato fondo a scorte di materiali che, saggiamente amministrati, potrebbero durare per mesi. Particolarmente presi di mira sono anche i generi “di lusso” e voluttuari: profumi, abbigliamento di pregio, liquori e vini; gli alcolici scorrono a fiumi tra le masse eccitate; le città, oltre che saccheggiate, sono anche “sfiascheggiate”; il disordine è tale che Nitti ammette pubblicamente di considerare “perse” ai fini dell’ordine pubblico, Torino città e la provincia di Bologna.
Il 20 e il 21 luglio si svolge in tutta Europa, uno sciopero di protesta , in segno di solidarietà con la Russia sovietica: quello che viene definito “lo scioperissimo”, si tramuterà in effetti in un “fiaschissimo”, ma, alla vigilia, la paura è tanta.
L’Avanti pubblica una minacciosa vignetta di Scalarini, con un operaio che indica ad un borghese una bara aperta, sulla quale è scritto: “20-21 luglio 1919”: si parla di prova generale di inizio della rivoluzione rossa in Italia e forse in tutto il continente.
I fascisti decidono allora di mobilitarsi: un deliberato del Comitato centrale dei Fasci di combattimento del 17 luglio dispone che il Comitato centrale stesso sieda in permanenza a Milano, e prevede lo stato di allerta per tutti i fascisti, che si manifesterà con “risoluti atteggiamenti” da decidersi a seconda delle diverse circostanze e realtà locali. Succede così che, in un contesto nazionale abbastanza tranquillo, a Brescia i fascisti, guidati dallo studente diciottenne Alessandro Melchiori, provino a dare l’assalto alla Camera del lavoro.
A Milano, Bianchi, in assenza di Mussolini, arriva ad assicurare al Prefetto la disponibilità dei fascisti per il mantenimento dell’ordine in casi di bisogno. La decisione è, però, sofferta e partorita non senza traumi dalla dirigenza milanese, nonostante venga presa soprattutto in odio al carattere internazionalista e quindi antitaliano dello sciopero.
Marinetti e Vecchi sono contrari alla presa di posizione “per l’ordine”; Vecchi, in un primo tempo addirittura comunica al Segretario della Camera del Lavoro – che, prudentemente ne informa subito la Questura – la propria disponibilità ad offrire in aiuto alcuni Arditi “per la rivoluzione”. Ufficialmente l’Associazione nazionale arditi, riunitasi il 18 luglio, dirama un resoconto della riunione che, pubblicato dal Popolo d’Italia del 19, dice:
“…Ferruccio Vecchi aprì la seduta esponendo agli intervenuti le caratteristiche del momento attuale e, riguardo al contegno degli Arditi in relazione al medesimo, annunciò che l’Ardito non deve essere lo sgherro della borghesia, ma deve essere il fautore di una rivoluzione di combattenti contro il regime attuale. Durante le giornate del 20 e 21, il contegno degli Arditi dovrà essere puramente difensivo, ed in ogni caso, questi non interverranno certo a difesa dei poliziotti, o a difesa dei pescecani, pure impedendo, però, qualsiasi sopraffazione leninista.”
Anche in questa occasione, come si vede, gli Arditi sono un passo avanti rispetto al resto del movimento; già in maggio, sempre sul loro giornale, Carli si è opposto duramente alle voci governative di impiego in ordine pubblico delle “Fiamme”, con un articolo significativamente intitolato: “Arditi, non gendarmi!”, nel quale, rivolgendosi a Caviglia, che sembra essere l’ispiratore del progetto, lo rampogna severamente, accusandolo di voler infliggere a loro, che sono “volontari che vogliamo intervenire se e quando vogliamo, e nella forma che più ci piace” una immeritata punizione “la peggiore umiliazione, trasformandoli in poliziotti e sgherri governativi”.
Si sentono, gli Arditi, impegnati in una personalissima lotta contro i socialisti e i sovversivi di ogni risma; desiderano combatterla a modo loro, senza interferenze di alcun tipo, anche se con metodi poco tradizionali ed “ortodossi”, come quando, a Milano, infiltrano due dei loro “audacissimi”, tra le file socialiste, con il compito di aderire alle guardie rosse.
La manovra riesce perfettamente; i due doppiogiochisti di notte, tra le tre e le quattro, riferiscono a Mazzuccato le notizie apprese e le informazioni ricevute che ritengono importanti, soprattutto in relazione ai movimenti di armi ed alla costituzione di squadre di attivisti. Ci pensano poi Vecchi e qualche altro ad impartire solenni “lezioncine” che tolgono ogni velleità rivoluzionaria alle più turbolente fra le aspiranti guardie rosse.
E’ essenziale che fuori dal confronto rimangano poliziotti e Carabinieri, con i quali, in particolare, i rapporti sono pessimi, fin dal tempo di guerra. Il rigido autoritarismo, l’obbedienza “cieca e assoluta”, il lealismo fidato dei Carabinieri non possono andare d’accordo con la scanzonata indisciplina anarchicheggiante degli Arditi.
Intorno a questa ostilità sono fiorite storielle che non hanno favorito certo una riappacificazione: famosa è quella della beffa giocata ad un gruppo di Carabinieri da alcuni Arditi che, sorpassandoli con un camion, gli puntano contro un moschetto scarico e fanno finta di sparare, mentre in effetti, uno, nascosto, spara in aria. Lo scherzo riesce così bene che i Carabinieri si buttano a terra, come fossero feriti, fra le grandi risate degli Arditi, che subito provvedono a dare all’episodio la dovuta pubblicità negli ambienti trinceristi.