9. MONELLI, DISCOLI E “FORCHE”
“Moltissimi squadristi che morirono per mano armata o cruenta, così si dice ancora in ogni caso, furono chiamati “monelli”, “discoli”, “forche”, come a Perugia, e, ancora, ragazzi, bevilatte, bambinetti, vagabondi appena nati, fanciulletti in fregola di botte e colpi, pagliaccetti con i calzoncini corti, pinocchi da burla, nati male, balilla sbagliati, studentelli, mangiapane a ufo, damerini guasti, bimbetti in vizio di morte, sputanaso, slargabocca, occhiettoli d’assassini, tarme schifazzate, puttanelle gentiluomini, signorini, duchini, brache sporche, e altre diciture in gergo di villania, o forse anche di rimorso. Tutti erano più grandi di loro, per età e per “esperienza”, sì che potevano apparire quasi a modo di nani o di pigmei che aspirassero a diventare normali di statura o di fisionomia passabile.
E, come in antico il padre aveva diritto assoluto sulla vita e sulla morte dei propri figli, così quei “grandi” cercavano di “punire” quei figli malandrini e scostumati. Questi maschietti ciondolanti nelle fasce alle gambe, ciuffi di capelli ribelli sulla fronte, per mancanza di rispetto verso i “maggiori”: sdruciti nelle vesti, a bracaloni i calzoni, le camicie nere messe a parapetto, perché talvolta non potevano mettere altro, stracci neri, nastri neri, larghe fettucce nere, lacci di segnale antico, fu tanta la loro azione che il supplizio dato dal padre romano, quello cioè di piegare il discolo fra due coppie di vacche e di farlo scosciare per indirizzi opposti, è cosa che rassomiglia al supplizio di quattro grandissimi fiori da spetalare insieme ai figli più piccoli.”
La presenza dei giovanissimi contribuisce a far sì che nella squadra, ogni differenza di cultura, ed anche di età viene superata. Il “borghese” Piazzesi ci dà una testimonianza sicura:
“Noi studenti eravamo nell’empireo. Trovammo gente che ci risultò simpatica, benché ci dividessero abissi di educazione e di cultura. Ci legammo a B. Frullini, P. e D. Nenciolini, O. Onori, P. Carnesecche, compagnie che provocavano rimproveri a non finire da parte delle famiglie bene di Firenze. Ma, ad onta di questo, non avevamo né la forza né la volontà di lasciare quell’atmosfera surriscaldata, tanto differente dalla vita di un tempo. In questo ambiente vivemmo la nostra prima giovinezza.”
Nella squadra convivono, senza difficoltà, gli elementi più diversi, con grande scandalo degli “uomini d’ordine” come Giuriati:
“…milizia che mi piace definire pittoresca. Composta nel modo più vario: da veterani sul cui petto splendevano i segni dell’eroismo, e da coscritti, occhi lampeggianti e capelli nerissimi sciolti al vento; da aristocratici borghesi sdegnosi di ogni mollezza, come da operai ribelli alla tirannide socialista; da impiegati, da professionisti, da sacerdoti, da artigiani, da uomini di ogni provenienza politica tenuti insieme più che da una disciplina uniforme, da una stupenda umanità di sentimenti e propositi, sprezzanti di ogni disagio come di ogni pericolo, sostanzialmente devoti al capo e all’idea.”
A fianco dei giovani ex combattenti ci sono i giovanissimi studenti ed operai che la guerra non hanno fatto, ma che alle cronache ed ai miti guerrieri si sono esaltati per quattro anni. Non esagera Lyttelton:
“…frotte di adolescenti inaudite, ragazzi tra i 15 e i 19 anni, inviperiti contro la mala sorte che ha fatto finire la guerra troppo presto…perché volevano andarci e vederla, e compiervi grandi gesta; cresciuti ad ammirare la polvere pirica e a menar le mani traverso cinque anni di menamenti esaltati dagli adulti; allievi dei cinematografi più sensazionali, e innamorati di ogni tramestio, incuranti della propria pelle.”
Sono questi giovanissimi che, spesso con l’incoscienza della loro età, si rendono protagonisti di azioni scapicollate e temerarie, in una continua gara di emulazione con i camerati più grandi: la loro adesione al Fascio è, quasi sempre, malvista dai genitori, sia per il rischio che essa comporta, sia per la promiscuità e le cattive frequentazioni alle quali espone Ciò, talvolta, anche, paradossalmente nel caso di genitori “fascisti” (e non degli ultimi): Costanzo Ciano, per esempio, si oppone strenuamente a che l’adolescente Galeazzo frequenti la sede e gli ambienti squadristi, salvo inventare, dieci anni dopo, una sua iscrizione “antemarcia” e, addirittura, la sua appartenenza alla “Disperata” fiorentina.
Spaventa il clima antiborghese e “bordellista” che domina tra gli squadristi e che fa, di quei ribelli in camicia nera, che vanno spesso in giro con il revolver in tasca, degli isolati anche nel mondo di provenienza, tra conoscenti ed amici di ieri.
Anche quando l’impatto non è brusco, però, sempre chiaro rimane l’abisso che separa i giovani in camicia nera e il mondo “borghese”. A dare la linea, come sempre più spesso avviene, “L’Assalto”, che il 12 aprile del ’21 scriverà:
“Abbiamo, al nostro fianco, una caterva di buona gente che ci batte le mani e ci incoraggia e ci dice: “Bravi, picchiate più forte”. Osserviamo bene e più da vicino questa brava gente timorata e benpensante. E ci accorgeremo che tra i nostri amici abbiamo i nostri più veri nemici. E sono i candidi pescecani di guerra e di pace, i vigliacchi, i pacifondai, i falsificatori, i burocrati della Roma parlamentare e dinastica, e sono i veri sabotatori della guerra e della vittoria. A quelli noi dobbiamo rivolgere la nostra azione liberatrice. Senza reticenze e senza mezzi termini. Dobbiamo liberarci dalle loro blandizie e scuoterci di dosso il loro sudiciume. Dobbiamo assurgere con tutta la nostra giovinezza infrenabile al di sopra del pantano, e schiacciare i rospi che vi brulicano. E poi cantare la canzone della nostra primavera.”
Giorno per giorno, nel succedersi dell’azione, i giovani squadristi, inconsapevolmente, creano il loro “mito”, al quale guarderà la successiva generazione fascista:
“Giovane è chi è sempre pronto a sacrificare agi, posizione, amicizie, la vita, se occorre, alla difesa della propria idea, senza concedere tregua ai suoi avversari, senza alcun “rispetto umano”, senza esitare a compromettere la sua posizione di “giovane serio” e “di buona famiglia”, come deploravano i borghesi del ’21, quando ci vedevano inseguire qualche avversario col manganello in pugno, o, più prosaicamente, con una bottiglia di olio di ricino. Giovane è, insomma, chi per la nostra idea si farebbe anche bandire, amando – secondo il detto di Gino Capponi – più la Patria che la salute dell’anima.”
Le fantasie e i desideri di avventura sono, però, destinati a cedere il passo alla violenza di un confronto che, sanguinoso, non sempre rispetta le norme di una cavalleresca lealtà da libro: chi vi arriva con un bagaglio nel qualche c’è anche Salgari, “troppo Salgari per fare le cose sul serio”, si deve ben presto adeguare, pena la morte. Ma, la morte non fa paura: morire sul camion della spedizione, tra i camerati che cantano le canzoni della giovinezza, non è certo la peggiore delle morti, come si vanno ripetendo i giovani avventurosi; ed è per questo che, finita una spedizione, ne pensano subito un’altra.
Mussolini, nell’introduzione a “Pattuglia eroica”, un libro sui caduti fascisti nel Parmense, nel 1931, lo scriverà chiaramente:
“E’ triste, ma quale idea trionfò mai nel mondo senza che i suoi confessori fossero pronti a donarle la vita? E non è forse preferibile morire di schianto in un assalto, piuttosto che soggiacere al disfacimento di una banale malattia qualunque?”
Il numero dei caduti fascisti, nel quadriennio 1919/1922, con un’età inferiore ai vent’anni è calcolato intorno al 50% del totale, ma non va trascurato che l’età media dei caduti è fra i 22 e i 23 anni; vi sono, poi, molti “casi limite”: a Soave, nel maggio del ’21 vengono uccisi il quattordicenne Arrigo Califfi ed il diciassettenne Giuseppe Morandino; a sorte analoga scampa fortunosamente a Fiesole il 24 aprile dello stesso anno il sedicenne Gino Perna che, aggredito dai sovversivi, si difende sparando; a fine febbraio cade a Piacenza il sedicenne Edmo Squarzanti.
A Firenze, il 14 luglio, viene ucciso, da un calzolaio comunista, l’adolescente Annibale Foscari, che: “…dodicenne voleva partire per la guerra, che sedicenne fu Granatiere e legionario a Fiume, che, diciottenne, dopo aver preso parte a 42 spedizioni audacissime, cadde sopraffatto da un assassino senza legge e senza Patria”
Foscari è, quindi un evidente esempio di quei “giovinetti dai grandi occhi avidi e pensosi che la guerra non vissero, pur sentendone il fascino potente ed eroico”che popolano l’universo fascista; con lui sono tanti, in tutta Italia.
Sempre a Firenze c’è pure Alessandro Pavolini, un ragazzetto destinato a fare molta strada nel fascismo, che per ora partecipa, con i suoi camerati dell’inquieto squadrismo del capoluogo toscano, alla grande avventura. Fa a revolverate, a legnate, incendia tipografie, Case del popolo, viene condannato a morte da un tribunale rosso, tiene comizi, comanda una legione di balilla ed un manipoli di militi, in quello che costituisce “il fatto più importante”della sua vita e che rievocherà con sincera nostalgia:
“Certi giorni di marciapiede e di attesa, di gite e di risse, i quali, nonostante il loro aspetto secondario e svagato, furono tra quelli che più hanno contato nella nostra vita, più a fondo ci sono impressi dentro. Sede di via Cavour, sede di piazza Ottavini… Acri mesi del ’20, del ’21. Bastonature che nascevano in piazza improvvise, come i mulinelli della polvere nelle sere di vento. Canti irosi nei rioni ostili. Revolverate; vie deserte con tutte le porte e le persiane serrate come per un temporale. I camion, i morti (gli occhi stravolti nel viso dell’amico, quel sangue sulla pietra). E gli indimenticabili vivi, i “vecchi”, rivelazione dei temperamenti straordinari, colti nell’istante dello scatenamento, nell’istante lirico: crogiuolo di ceti, “corto circuito” di precocie, di inquietudini, di entusiastiche dedizioni. Vita di capannello e di spedizione, combattimento alle cantonate, alle siepi. Disperati litigi. Armi spaiate. Berretti da ciclisti, elmi, baveri alzati. I gagliardetti. Il Fascio”
E’ proprio per cercare di contenere il numero di caduti minorenni che, dalla seconda metà del ’21, prende piede – senza essere però, mai pienamente rispettata – la pratica di non accogliere nelle squadre giovani con età inferiore ai 18 anni: essi rischiano troppo, sono sempre in prima linea, quasi mai hanno una sufficiente esperienza guerresca e, perciò, stanno pagando un prezzo troppo alto.
10. GIOVANI CAPI
Giovinezza di gregari, quindi, ma anche di capi: Farinacci, Bottai, Balbo, Muti, Grandi, Giunta, Arpinati e mille altri come loro, sono alla testa di questo esercito di giovanissimi. Sono, quasi tutti, “vergini” di politica e Partiti; per loro, Bianchi, Pasella, Rossi, in qualche caso lo stesso Mussolini, sono “quei rammolliti di Milano”, non solo vecchi anagraficamente, ma, soprattutto, segnati dalle precedenti esperienze.
Il fatto di non essere riusciti a troncare completamente un rapporto di sudditanza psicologica verso i settori politico-sindacali di provenienza fa del vertice milanese un fascismo “zoppo”, che non riesce a pensare aldilà delle vecchie categorie di sinistra e destra, e che resta vincolato ad una contrapposizione che appare superata per quanti non hanno rinnegato la loro esperienza bellica e su di essa intendono basare la loro azione.
La vita di trincea ha dimostrato che le differenze e gli egoismi sociali possano essere superati nel nome della Patria. Ufficiali – soprattutto subalterni e provenienti dal volontariato – e soldati hanno conosciuto la stessa vita, hanno vissuto le stesse paure e gli stessi eroismi.
Proprio l’eroismo o, più frequentemente, il coraggio e il disprezzo della morte testimoniati da un brillante curriculum militare, costituiscono, in molti casi, il miglior viatico per una posizione “autorevole” nell’ambito delle prime squadre fasciste. I decorati, spesso i pluridecorati, sono “naturalmente” favoriti, se solo lo vogliono, ad assumere un ruolo di rilievo che, però, dovranno poi confermare nei fatti della battaglia civile.
Questo discorso vale per molti, ma non per tutti. Gli altri, quelli che la guerra hanno fatto senza particolari dimostrazioni di coraggio, o quanti non l’hanno proprio fatta, devono guadagnarsi il prestigio sul campo, con l’esempio; nelle prime squadre, più che la disciplina formale – che peraltro sarà sempre poca, perché poco adatta ad un ambiente che si sente e vuole essere “rivoluzionario” – conterà, come in tempo di guerra, l’affiatamento e la fiducia degli uomini nel capo.
D’altra parte, anche a Fiume, il “Disegno di un nuovo ordinamento dell’esercito liberatore” fonda l’autorità del capo su questo rapporto fiduciario, piuttosto che sul solo vincolo gerarchico; D’Annunzio, nel “proemio”, lo ha scritto:
“Io mi propongo di fare del mio esercito uno strumento di guerra sempre più vigoroso e spedito. Lungi dal reprimere quello spirito di autonomia che si va manifestando nei vari Reparti, io voglio, anzi, secondarlo.
Ogni Reparto deve essere una perfetta unità tattica, dotato di quei mezzi che gli consentano di svolgere efficacemente un’operazione, senza altro concorso.
Ogni Reparto deve sforzarsi di raggiungere l’estremo grado della elasticità e della prontezza.
Ogni Reparto deve essere preparato da una istruzione “ardita” a praticare il metodo offensivo in ogni caso, convinto che la migliore difesa è sempre l’offesa e che la vittoria è veloce amica degli assaltatori.
A ogni Reparto io voglio lasciare una larga autonomia nelle questioni interne, anche quando, per necessità tattiche, si convenisse formare aggruppamenti.
A ogni Reparto voglio lasciare una certa libertà nella foggia, ma non senza stile, così che l’uno si distingua nobilmente dall’altro e ciascuno rafforzi il suo rilievo e approfondisca il suo stampo. Tutto però, negli alloggi, deve risplendere nella più ordinata nitidezza.”
E, al punto XXXXIV, ha indicato i requisiti del legionario:
“Il legionario non può dirsi compiuto, se non sia esperto:
nel correre;
nello spiccar salti;
nello scagliar pietre;
nel levar pesi;
nel fare a pugni;
nel lottare;
nel remare;
nel nuotare;
nel cavalcare qualunque cavalcatura;
nel montare su qualunque albero o trave;
nel superare muri e cancelli;
nell’erpicarsi fino a una finestra, a una gronda, a un tetto, a un fumaiolo;
nel gettarsi giù dall’altezza più disperata;
nello spalancare una porta con un colpo di spalla;
nell’intraprendere con le mani e con i piedi la più ripida delle rocce;
nel salire e nel calarsi per una fune;
nel passare attraverso le fiamme, salvo;
nell’assottigliarsi per passare attraverso spiragli e fenditure;
nel raggomitolarsi per restar dentro al più stretto nascondiglio in agguato;
nel fischiare forte e nel variare il fischio per segnali;
nell’imitare la voce degli uomini e delle bestie;
nel cantare;
nel sonare;
nel ballare.”
Con queste premesse, quindi, il coraggio fisico, lo sprezzo ostentato per il pericolo, la capacità di essere di esempio, la disponibilità a sacrificare la vita, l’indifferenza al carcere ed alle persecuzioni poliziesche ed avversarie, sono componenti essenziali del carisma di un capo.
All’inizio, è il comportamento in guerra a fare da discriminante. A Firenze, per esempio, è Amerigo Dumini, decorato, ad accusare Zamboni, suo rivale, di non avere un passato combattentistico degno; Arpinati a Bologna “interventista non intervenuto”, sul cui coraggio fisico pure nessuno può avere dei dubbi, deve subire qualche malizioso riferimento al suo passato; “vigliacco ed imboscato” sarà definito pure Settimelli, il futuro direttore de “L’Impero”, che non ha partecipato, per insufficienza mitralica, al conflitto; di “abuso di medaglie” sarà accusato, a Piacenza, Barbiellini Amidei.
Ma è soprattutto contro Farinacci che gli avversari, interni ed esterni, appuntano la loro ironica attenzione: egli è accusato di essere “intervenuto” con ritardo, e la cosa è attribuita a congenita viltà. Accusa assolutamente ingiusta, smentita dai rischi giornalmente affrontati – e, quasi cercati – da Farinacci, ma che sarà dura a morire.
Contro il futuro “ras” cremonese, anche gli ambienti antifascisti, che pure sembrano sdegnare e considerare marginale un valore individualista e superoministico come quello del coraggio e dello sprezzo del pericolo, ricorreranno all’insultante soprannome di “tettoia”, raffigurandolo caricaturalmente “decorato” con le medaglie della prima Comunione e del cioccolato Talmone.
La disponibilità a scendere in piazza, a “uccidere ed essere uccisi”, se necessario, si impone da subito come la prova migliore dell’enorme diversità che intercorre tra il giovane movimento mussoliniano e i vecchi dirigenti liberaldemocratici e bolscevichi di ogni tendenza. Se i primi sono, per comune, radicato convincimento, vili e rinunciatari, privi di un vero riferimento ideale in nome del quale valga la pena di sacrificarsi oltre il normale, i secondi, aldilà dell’estremismo parolaio, e dell’attesa messianica della rivoluzione, dimostrano, già di fronte alle prime avvisaglie dell’offensiva squadrista, di mancare completamente di ogni volontà di affrontare rischi troppo grossi.
Va infine detto che la nuova leva di capi non mancherà di dimostrare, all’occasione, anche una certa scaltrezza politica. Alle elezioni della primavera del ’21, con un accorto gioco di preferenze, i candidati delle squadre riusciranno a prevalere, in molti casi, sui santoni della vecchia politica, loro alleati nel “listone”.
E’ così che Farinacci, Bottai, Grandi, candidati eletti benché ineleggibili per motivi anagrafici, con gli altri Deputati fascisti, andranno a portare una ventata di aria nuova a Montecitorio. Il loro inserimento, per la verità, non sarà sempre facile: qualche perplessità, qualche dubbio, qualche malcelata ostilità continuerà a permanere anche in campo fascista.
In occasione del convegno milanese del neo eletto gruppo parlamentare, nel giugno del ’21, un giovanissimo Bottai farà scintille: quando, di fronte alla sua presa di posizione favorevole alla non partecipazione alla Seduta Reale, Valentino Coda, unico Deputato fascista eletto già nel ’19, di estrazione monarchica, gli grida “Asilo infantile”, egli : “…scatta con un balzo d’ardito; è sopra Coda con i pugni tesi e urla: “L’asilo infantile ha salvato il Grappa!”
Più o meno, nello stesso periodo, un gruppo di fascisti udinesi scrive a Mussolini, attribuendo il deludente risultato elettorale in quella provincia alle” intemperanze” giovanili;
“Le elezioni che dovevano dimostrare le simpatie di tutto il Friuli per il movimento fascista, che era sotto i migliori auspici, diedero ragione agli avversari. La propaganda si è svolta a base di scorrerie di squadre di fascisti armati, di comizi a base di petardi, rivoltelle, incendi, minacce…in città la simpatia viene a mancare in seguito ad alcune azioni inconsulte ordinate dal Segretario politico Covre e dal vice presidente Castelletti…detti individui, profittando dell’elemento giovanile che, purtroppo, domina nel nostro fascismo, e di altri uomini in buona fede, sfruttando il loro entusiasmo, continuano ad imporsi.”