9 Ottobre 2024
Appunti di Storia

1920: L’anno della minorità fascista (terzo capitolo)

 

 

  1. “FERITA D’ARMA DA FUOCO ALLA NUCA”

 

Il 30 agosto, la FIOM ordina l’occupazione delle fabbriche, che sarà destinata a protrarsi nel tempo, forse anche aldilà delle stesse aspettative degli organizzatori, senza che il governo Giolitti, subentrato a Nitti il 15 giugno, ritenga di intervenire in alcun modo per riportare la legalità nelle grandi città industriali d’Italia

All’interno delle fabbriche occupate si vive un clima insurrezionale, in vista della battaglia decisiva che si sente prossima; in qualche caso gli occupanti si industriano anche a fabbricare le proprie armi, soprattutto bombe a mano ed altri ordigni esplosivi, da utilizzare principalmente per la difesa degli edifici.

Armi, in verità, in specie nelle grandi fabbriche del Nord, ne circolano già abbastanza: lungo i muri perimetrali girano in continuazione picchetti armati di operai, e, all’ingresso fa minacciosamente spicco qualche nido di mitragliatrici; la vita, all’interno, è regolata in puro stile militare, a dimostrazione che l’esperienza della guerra, che tanto suggestiona le prime squadre fasciste, non lascia immuni i loro avversari; persino nei centri minori, come Pistoia, dove pure sarebbe logico aspettarsi un clima meno teso, l’atmosfera è “trinceristica”. Una corrispondenza apparsa sul giornale locale, “L’Avvenire”, dell’11 settembre la ricostruisce efficacemente:

“…mercoledì sera, circa le due di notte, insieme agli infaticabili amici della Commissione, facemmo un giro di ispezione alle linee di difesa delle officine S. Giorgio. Che dire della preparazione tecnica della difesa? Ad ogni cinquanta metri un robusto guardiano ci dà l’altolà, chiede se non una, almeno due volte la parola d’ordine; indi, scrutandoci da capo a piedi, ci fa lentamente cenno di avanzare. Ogni posto di guardia, segnalato con un numero progressivo, è guardato da un capoposto e tre o quattro e più uomini pronti e scelti, che non lasciano passare una mosca, ed è molto prudente che la Commissione abbia in mente di mettere in azione un potente riflettore, per illuminare i vari tratti dove deve avvenire l’ispezione.”

In un clima generale che tutto sommato si può definire tranquillo, senza che nessuno, Governo, avversari politici o industriali vittime del sopruso, si sogni di ostacolare l’azione degli occupanti, ancora più efferato appare il comportamento degli elementi più esagitati che, peraltro, godono della copertura della massa.

A Torino, il 22 settembre, all’interno dello stabilimento occupato Nebiolo, viene condotto, processato, condannato e giustiziato il ventenne nazionalista Mario Sonzini, aderente ai Fasci di combattimento; la sua morte è cinicamente commentata dall’Avanti:

“Mario Sonzini, impiegato della FIAT, è uno dei dirigenti dell’associazione crumiresca di quello stabilimento, è un fascista militante. E il militare porta con sé questo inconveniente: di andare a finire un giorno sull’orlo di una via con la tempia forata da un proiettile.”

 

Sorte simile tocca anche al ventenne Costantino Scimula, guardia carceraria, condannato e giustiziato dal tribunale operaio costituto all’interno dello stabilimento Bevilacqua, sempre a Torino; ecco come i due cadaveri vengono ritrovati qualche giorno dopo, nella ricostruzione del Corriere della Sera del 12 ottobre:

“Giacevano uccisi per una eguale ferita d’arma da fuoco alla nuca, in una stessa posizione, cioè bocconi e a braccia aperte, e non si esitò a capire che erano stati ambedue vittime di una sommaria e truce esecuzione. Si assodò che erano stati presi a mira da tergo, mentre altri complici li tenevano stretti ai polsi, che apparivano solcati da lividure per lo sforzo disperato che avevano opposto allo scopo di fuggire all’estremo supplizio.”

 

I fascisti, nonostante tutto, assumono un atteggiamento sostanzialmente cauto, di fronte alle occupazioni. Riconoscono la validità delle rivendicazioni operaie, ma dissentono sul metodo e, soprattutto, giudicano intollerabile il patrocinio offerto al movimento dal Partito socialista, l’odiato nemico antinazionale. La Commissione esecutiva, in data 6 settembre, emana un ordine del giorno che, esaminati i vari aspetti della vertenza in corso, dopo aver affermato di ritenere:

“…ciò nondimeno, che le condizioni dell’industria del metallo non siano ancora tali da condurre alla catastrofe in causa dell’accettazione, almeno parziale, dei miglioramenti richiesti dagli operai, specie se preceduta da assicurazioni concrete circa la durata del concordato, e, soprattutto, circa il ristabilimento assoluto della disciplina del lavoro nelle officine.”

 

all’ultimo punto invita:

“tutti i fascisti a tenersi pronti per compiere, sino all’ultimo, il loro dovere, nel caso che il movimento degenerasse in un tentativo di aperta rivolta per instaurare la dittatura dei politicanti parassiti del Partito socialista ufficiale.”

 

Nello stesso tempo, però, il Popolo d’Italia smentisce con sdegno e definisce “idiota” la voce di un prossimo attacco alle fabbriche occupate.

Conclusasi l’occupazione, Mussolini, il 28 settembre, ne traccia un bilancio sul suo giornale:

“Quella che si è svolta in Italia, in questo settembre che muore, è stata una rivoluzione, o, se si vuole essere più esatti, una fase della rivoluzione cominciata da noi nel maggio 1915. L’accessorio più o meno quarantottesco che dovrebbe accompagnare la rivoluzione, secondo i piani e le romanticherie di certi ritardatari, non c’è stato. Non c’è stata, cioè, la lotta nelle strade, le barricate e tutto il resto della coreografia insurrezionista che ci ha commosso sulle pagine dei Miserabili. Ciò nonostante, una rivoluzione si è compiuta, e, si può aggiungere, una grande rivoluzione. Un rapporto giuridico plurisecolare è stato spezzato. Il rapporto giuridico di ieri era questo: merce lavoro da parte dell’operaio; salario da parte del datore dei lavoro. E basta. Su tutto il resto dell’attività industriale ed economica capitalistica c’era scritto: è severamente vietato l’ingresso agli estranei e precisamente agli operai. Da ieri questo rapporto è stato alterato. L’operaio, nella sua qualità di produttore, entra nel recesso che gli era conteso, e conquista il diritto a controllare tutta l’attività economica nella quale egli ha parte.”

Parole chiare, pienamente coerenti con le idee espresse a Dalmine un anno prima, e che appaiono poco conciliabili con la pretesa “conversione a destra” che il movimento fascista (e il suo capo in particolare) starebbero attuando in questi mesi. Non solo parole: da qualche mese ha aderito al fascismo marchigiano una singolare figura di industriale, Silvio Gai, destinata ad assumere rilevanza nell’ambito del movimento, che ha realizzato, nella sua azienda, una rivoluzionaria forma di collaborazione tra capitale e lavoro.

Egli, che ha iniziato da operaio, per diventare ingegnere, direttore ed amministratore delegato della “Società marchigiana di elettricità”, così ricostruirà la sua esperienza di questi tempi:

“I prestatori d’opera, educati per lunghi anni alla più intima e fattiva collaborazione, quando i tempi divennero torbidi, dopo la vittoria del 1918, ed i lavoratori venivano malvagiamente trascinati dai Partiti sovversivi…chiesero di dare un opposto esempio di italianità. Poi proposi loro la diretta partecipazione al capitale sociale, con un posto nel collegio sindacale.

 

Oggi possiamo affermare che la fine della vertenza e delle agitazioni coincide con la fine del periodo più acutamente rivoluzionario del primo dopoguerra. Si può ben dire che l’occupazione degli stabilimenti segna l’apice della tensione sovversiva e, nello stesso tempo, l’inizio del declino di questa tensione. La cosa, però, sul momento non è evidente a tutti. Molti anni dopo sarà ancora questo il ricordo di De Vecchi:

Giovanni Agnelli rientrò alla FIAT, ma il suo ingresso assomigliò ad una resa. Passò, infatti, a capo chino, sotto un arco di bandiere rosse e, quando arrivò nella sua stanza di lavoro, al posto del ritratto del Re trovò una immagine di Lenin. Sul momento rimase interdetto. Un operaio gli si avvicinò e gli disse:” Bacialo!” E Agnelli lo baciò.”

 

6. I SEGUACI DI SAN FILIPPO NERI

 

Per il 5 settembre viene indetto a Cremona il convegno regionale dei Fasci lombardi; è una manifestazione fortemente voluta da Roberto Farinacci, intransigente capo degli squadristi locali che, per organizzarla, si è recato di persona a Milano ad incontrare Mussolini, affrontando un viaggio, che, a dispetto della breve distanza, si rivela difficoltoso per gli scioperi in corso. La città, infatti, è fitta di presidi operai che il futuro ras cremonese, ancora sconosciuto ai più, beffa utilizzando la sua vecchia tessera di ferroviere e spacciandosi per staffetta degli scioperanti.

Anche a Cremona, in coincidenza con il raduno fascista, arriva puntuale la mobilitazione avversaria, sotto forma di una manifestazione pro Russia sovietica. Qualche inizio di zuffa si verifica mentre i congressisti si avviano al salone di via Feltrami, dove si svolgono i lavori, con la partecipazione dei rappresentanti di una quindicina di Fasci, davanti ai quali Mussolini fa la voce grossa con i suoi avversari:

“Io sono reazionario e rivoluzionario, a seconda delle circostanze. Farei meglio a dire, se mi permettete questo termine chimico, che sono un reagente. Se il carro precipita, credo di fare bene se cerco di fermarlo; se il popolo corre verso un abisso, non sono reazionario se lo fermo, anche colla violenza. Ma, sono certamente rivoluzionario quando vado contro ad ogni superata rigidezza conservatrice e contro ogni sopraffazione libertaria…Noi non siamo per la guerra, ma a chi ci aggredisce, spareremo sempre sul grugno. Poiché non siamo seguaci di San Filippo Neri, che insegnava di tendere, dopo la prima percossa, l’altra guancia d un nuovo schiaffo…Questa è l’ora del fascismo antidemagogico; l’ora di una sana attività politica, non avvilita da tessere e da statuti, che riporti la vita nazionale nel suo giusto ritmo. Perché l’unico nostro ideale è la massima grandezza dell’Italia.”

In effetti, tutta una serie di episodi sembrano dimostrare una ritrovata effervescenza dell’ambiente fascista: a Pola vengono distrutte le sedi delle Associazioni croate e della Camera del lavoro; a Trieste, nel popolare quartiere San Giacomo, nascono incidenti tra fascisti e sovversivi, ma è proprio a Cremona che avvengono i fatti più gravi.

In città la tensione si mantiene alta, perché i socialisti non hanno digerito la “provocazione” del raduno del 5 settembre; circolano voci di rappresaglie e vendette sugli elementi fascisti locali, pochi e ben conosciuti dai loro avversari. Farinacci, che “naturalmente” non può far credere di avere paura, continua a mostrarsi in giro, e così, la sera del 6, con altri tre suoi camerati viene aggredito nei pressi del bar Aquarium.

Due fascisti rimangono sul terreno, morti; Farinacci è ferito e viene successivamente arrestato, mentre la moglie e la figlia prudenzialmente abbandonano il loro domicilio per trasferirsi altrove. Dopo quattro giorni arriva la scarcerazione, previa firma di una diffida a non farsi più vedere per le vie cittadine, per non ”provocare”.

Egli firma, ma sa già che non manterrà l’impegno estortogli, ed anzi riprende immediatamente, con rinnovata lena, la sua attività. Se questo primo scontro con gli avversari non ha avuto un esito favorevole per i fascisti, esso è comunque servito a dimostrare di che pasta è fatto il leader squadrista, e a mettere sull’avviso i socialisti cremonesi.

I due morti di Cremona restano, per il momento, un’eccezione. Generalmente prevalgono beffe e guasconate, contraccambiate, in qualche caso, dai rivoluzionari dell’altra parte che, per esempio, a Vicenza, nell’ottobre così commentano la costituzione del Fascio:

“Tremate, o cittadini! Si è costituito a Vicenza un Fascio, un fascio non di legno o di erbe. Ossia, si è fatto di ogni erba un fascio: ma ogni erba è rappresentata da un baldo giovane, quasi sempre studente, qualche volta professore, sempre macaco. Alcuni studenti delle nostre scuole, guidati da due o tre insegnanti e dal loro bidello, hanno formato a Vicenza il Fascio di combattimento. Combattimento contro chi? Eh, caspita! Contro i socialisti. Poveri noi! Staremo freschi adesso…Essi per ora vogliono dappertutto il bianco-rosso-verde. Si vestiranno di tre colori. Vorranno orinare in pitali colorati bianco-rosso-verde, indosseranno mutande bianco-rosso-verde, con lo stemma dei Savoia nel mezzo. Ma via, sono simpatici questi ragazzi bianco-rosso-verdi (bianchi di paura, rossi di vergogna, verdi di scarsello)… State buoni, e andate a fare la nanna, bambini.”  nostre scuole, guidati da 2 o 3 insegnanti e dal loro bidello, hanno formato a Vicenza il fascio di combatt

All’11 ottobre poi, data una delle prime avventure di quello squadrismo fiorentino destinato a crescere nei mesi a venire, fino a diventare uno dei più vivaci e rappresentativi del panorama nazionale. Protagonisti sono cinque fascisti del capoluogo toscano, di cui due almeno destinati a diventare figure di primo piano: Amerigo Dumini e Bruno Frullini.

Essi si recano, nella giornata postelettorale, a Montespertoli, probabilmente chiamati da qualche camerata del luogo, con lo scopo di togliere dal Comune la bandiera rossa testè esposta per festeggiare la vittoria socialista, ed imporre l’esposizione del tricolore.

Arrivati sul posto, si limitano a fare un po’ di chiasso in giro, senza sospettare che, contro la loro presenza, sta montando una reazione assolutamente sproporzionata. A mezzanotte si convocano i responsabili delle leghe, che proclamano lo sciopero generale, mentre centinaia di contadini armati in maniera più o meno rudimentale circondano il Palazzo comunale e iniziano la caccia ai fascisti.

I cinque, vista la mala parata, riparano nella caserma dei Carabinieri, da dove riesce a tirarli fuori solo un rinforzo di truppa giunto da Firenze.

Certo, essi non si aspettavano, quando avevano deciso l’avventura, un esito così poco felice: probabilmente l’avevano concepita come una gita e, giunti a Montespertoli con la corriera, se ne erano andati in giro per il paese provando qualche ingenua provocazione, al grido di “viva gli Arditi! viva Fiume Italiana!”, per finire poi nel caffè del paese.

La reazione avversaria li coglie assolutamente impreparati: non hanno nemmeno predisposto un mezzo per il ritorno, perchè contano di trattenersi in paese per la notte, lungi dall’immaginare che la loro sola presenza possa provocare tanta mobilitazione. Non sanno, o meglio, non vogliono credere, che ovunque la propaganda avversaria li dipinge già come quelli che “vengono ad ammazzare” e che, quindi, devono essere ammazzati prima che possano fare del male.

Quella che doveva essere una via di mezzo tra la guasconata ardita e la burla audace, in cinque contro un intero paese “rosso”, stava per avere un epilogo tragico ed imprevisto. D’ora in poi, pur non perdendo il suo carattere scapigliato e beffardo, lo squadrismo toscano non potrà dimenticare questa prima lezione.

Al primo stormir di fronde fasciste si diffonde, però, molta agitazione in campo antifascista. Quei giovanotti che, sempre più frequentemente si mostrano in giro con intenzioni bellicose, cominciano turbare i sogni degli avversari, soprattutto perché dimostrano di saperci fare, di non avere paura dell’inferiorità numerica, di essere pronti anche al sacrificio supremo per la difesa della loro idea.

L’Avanti lancia subito l’allarme, preoccupato dalla vivacità fascista, ma anche dai primi segnali di scarsa tenuta socialista:

“…e possiamo egualmente riconoscere che, nell’uso della violenza e della prepotenza, sono meglio preparati e più fortemente muniti i nemici nostri. Sì, a Milano, a Roma, a Pola, a Trieste, a Fiume l’arditismo ha dato largo esempio della propria capacità all’azione –infinitamente superiore alla nostra- e noi saremmo davvero ridicoli, più che a quelli degli altri, ai nostri stessi occhi, se non ci accorgessimo che, mentre taluni dei nostri fanno la voce grossa, i nostri nemici ingrossano il pugno e colpiscono forte e inesorabilmente.”

In campo fascista, non c’è, comunque, solo l’azione: a “far politica” ci pensa il centro di Milano; il 10 ottobre si riunisce il Consiglio nazionale dei Fasci, che affronta principalmente tre problemi: le elezioni amministrative prossime, in vista delle quali viene deciso di lasciar decidere ai singoli Fasci “caso per caso” l’alleanza più conveniente; la costituzione di sindacati nazionali, per la quale viene assicurato il massimo impegno di tutto il movimento; la questione di Fiume, oggetto di preoccupazione particolare, per le insistenti voci su un progetto giolittiano di liquidare definitivamente la faccenda.

E’ significativo, peraltro, che, per ciò che concerne l’atteggiamento da tenere in occasione delle elezioni amministrative, venga rifiutata la possibilità di scendere in campo da soli, in considerazione del fatto che l’oggettiva debolezza del movimento e la speciale natura di un confronto elettorale amministrativo, giocato su fattori locali e clientelari, condannerebbero ad una nuova sconfitta la schiera mussoliniana.

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