11 Ottobre 2024
Appunti di Storia

1921: Primavera di Bellezza (nono capitolo)

 

17. Inestricabile groviglio

 

Tra aprile e luglio del ’21 si verificano tre episodi, che hanno per protagoniste le squadre toscane e, per motivi diversi, sono destinati ad essere considerati “paradigmatici” del clima dell’epoca, fino ad assumere una risonanza nazionale, destinata a protrarsi nel tempo.

Il primo si svolge a Foiano della Chiana, ed ha uno svolgimento scandito in due momenti distinti: il 12 aprile sul paese, che è stato in primo piano nelle agitazioni sovversive dell’anno precedente, si dirigono, nel quadro di un più vasto giro di propaganda, due camion squadristi, con una trentina di fascisti fiorentini, provenienti da Arezzo e guidati da Pirro Nenciolini e Giovan Battista Romboli, detto Bistino, originario proprio di Foiano, che è stato “bandito” dal paese e costretto a trasferirsi nel capoluogo.

Giunti a Foiano, gli squadristi devastano le sedi delle associazioni rosse e, “facendo vista di sbagliare”anche quella della lega bianca; a conferma dell’ingenuo populismo che li anima, si mettono, poi, in piazza, a distribuire alla gente le merci trovate all’interno della cooperativa socialista, seguendo un rituale già noto e più volte ripetuto.

Completano l’opera con il consueto imbandieramento del Municipio e l’affissione di un manifesto “dal tono robusto, ma dalla sintassi deplorevole”, di denuncia della fuga (puntuale anche questa) degli esponenti socialcomunisti, oltre che di minaccia in caso di ritorsioni contro i pochi simpatizzanti fascisti del luogo.

Partiti gli squadristi, che non hanno fatto nessuna violenza contro le persone, quindi, ma si sono rivolti solo contro le cose e le proprietà sovversive, si scatena la rappresaglia: in particolare, casa per casa vengono cercate le merci asportate dalla cooperativa, e chi le possiede viene duramente bastonato.

Diventa, perciò, un punto d’onore per i fascisti tornare, anche per tenere fede alla promessa-minaccia del loro manifesto: la ritorsione contro i simpatizzanti fascisti o presunti tali c’è stata, nonostante l’avvertimento, occorre “rimettere le cose a posto”.

Il 17, quattro squadristi fiorentini, rimasti ad Arezzo per dare manforte ai camerati locali, partono per il paese, con altri diciotto squadristi aretini: è una domenica, giornata tipicamente dedicata a questo tipo di azioni, perché l’unica libera da impegni lavorativi e di studio per la quasi totalità dei partecipanti.

Infatti, la squadra è piuttosto assortita: la comanda, in borghese, un Capitano di Fanteria, Giuseppe Fegino, in servizio ad Arezzo, e con lui ci sono, oltre ai quattro squadristi del capoluogo – tra cui uno, Dante Rossi, mutilato di guerra –, soprattutto studenti ed ex combattenti, i quali neppure si conoscono tutti fra di loro, ma si sono entusiasticamente imbarcati, alla sede del Fascio, in quella che considerano poco più che un’avventura salgariana.

In buona sostanza, come spesso accade, la spedizione è improvvisata: Fegino ha procurato due moschetti 91 con relative munizioni, gli altri sono armati di qualche revolver; tutti sono convinti si tratti della solita scampagnata e pensano di essere di ritorno dopo pranzo, tanto che il giovane Dal Piaz, che è già scappato di casa per partecipare alla spedizione su Perugia, si è impegnato a prendere parte ad un incontro di calcio al pomeriggio.

Giunti a Foiano, gli squadristi ripetono il modello dell’altra volta: irruzione nelle sedi sovversive ed in Municipio (al solito, deserti), imbandieramento ed affissione di manifesti; si dirigono poi in due frazioni vicine, Pozzo di Chiana e Marciano, dove scovano e schiaffeggiano il segretario della sezione comunista, senza che per il resto accada nulla di rilevante.

E’ a questo punto che si verifica un primo incidente: uno degli squadristi, Ettore Guidi, rimane ferito ad un braccio, per un colpo di pistola, probabilmente esploso per errore da un suo camerata, ed occorre ricoverarlo all’ospedale di Foiano, dove, con lui, restano di guardia sette fascisti, perché si è già verificato che medici intimoriti abbiano rifiutato le cure a feriti squadristi, ed è, inoltre, sempre possibile una ritorsione socialcomunista.

Gli altri si fermano, tranquilli ed indisturbati, a pranzo in paese, e, verso le 16,00 ripartono per Arezzo: lungo la strada incontrano gruppi di persone in attesa, senza che la cosa li insospettisca, perché è in corso di svolgimento una gara ciclistica.

Invece, all’improvviso, scatta l’imboscata: ad un chilometro da Foiano, da dietro una siepe, si apre un fuoco violento di fucileria contro il camion, che colpisce in pieno il mutilato Dante Rossi, che guida e fa sbandare il mezzo, che si inclina su un fianco.

Molti squadristi sono sbalzati fuori, intontiti dalla caduta; contro di loro, con roncole, accette e forconi, si scagliano gli aggressori, che uccidono due fascisti, il diciassettenne Aldo Rosselli e il ventenne Tolemaide Cinini, e ne feriscono una decina, mutilandoli orrendamente, finchè il fuoco a bruciapelo dei sopravvissuti, unito al timore che essi dispongano di bombe, disperde a fatica gli assalitori, che, infine, arretrano.

Nel frattempo, arriva in paese la notizia dello scontro, portata forse proprio da un corridore ciclista: i fascisti rimasti di guardia in ospedale, seguiti dai Carabinieri, si precipitano sul posto, in soccorso ai camerati, che così evitano danni maggiori.

Tra la sera ed il giorno dopo, scatta la mobilitazione fascista nell’intera regione: su Foiano convergono squadre, con centinaia di uomini armati, guidati da Perrone Compagni, Chiostri e Tamburini, che formano in piazza un tribunale rivoluzionario; alcuni degli aggressori vengono riconosciuti dagli scampati e sono condannati e giustiziati.

Le vittime, alla fine, saranno sette: tra di loro non vi sono dirigenti e amministratori socialisti, ai quali va fatta risalire la responsabilità prima dell’imboscata e che sono provvidenzialmente scomparsi.

E’ stata proprio l’imboscata, che in questo caso ha avuto un seguito particolarmente efferato, per le mutilazioni inferte alle vittime, l’elemento scatenante della ritorsione fascista, certamente calcolata da parte degli organizzatori dell’agguato, e forse voluta proprio per scavare un solco di odio sempre più profondo tra i fascisti e la popolazione.

Squadristi che, occupato un paese, non solo non si abbandonano a chissà quali nefandezze, ma anzi si mettono a distribuire viveri e derrate alla gente che ne ha tanto bisogno, non “fanno gioco”: il mito del terrore fascista, del quale spesso ingenuamente gli stessi squadristi si fanno portavoce, con atteggiamenti bulleschi e truculenti, non è certo rafforzato da questi diciottenni che, al più, distribuiscono qualche ceffone e, nel nervosismo, arrivano a ferirsi da soli.

Occorre scatenare la reazione, stimolare gli istinti peggiori di chi è colpito, far scendere in campo i più intransigenti, i violenti più incontrollabili.

E’ evidente, dalla lettura delle ricostruzioni dell’episodio, che la determinazione, al confine con la ferocia, dei protagonisti dell’imboscata è fuor di misura rispetto al danno subito, con un’efferatezza di comportamenti che, però, non è un esempio isolato, ma, nel luglio troverà a Sarzana un’altra terribile manifestazione.

Anche in questo caso, vi è un antefatto, rappresentato dal fatto che, il 17 luglio, in coincidenza con i funerali del cinquantaquattrenne muratore Pietro Procuranti, iscritto al Fascio di Carrara, ucciso il 15 luglio, a Teulada, è stato organizzato un concentramento di fascisti provenienti da varie zone limitrofe, tra cui 110 squadristi partiti da Carrara, con quattro camion.

Essi approfittano dell’occasione per fare anche un giro di propaganda nei paesi vicini; nascono, però, incidenti con vittime delle due parti e con l’arresto conseguente di undici fascisti, tra i quali Renato Ricci, capo degli squadristi del capoluogo, che viene incarcerato a Sarzana.

Sarzana è città di forti tradizioni rosse: vi è, tra l’altro, anche un robusto nucleo di Arditi del popolo, e, già in occasione di una precedente incursione fascista, le ritorsioni contro i pochi simpatizzanti locali sono state particolarmente violente; completano il quadro un’influenza comunista incontrastata, e una faziosa predicazione che fa sì che: “ogni operaio doveva vedere nel fascista un odioso persecutore, ogni donna un assassino, ogni contadino una belva feroce, un brigante cui il meno che potesse farsi era l’ucciderlo, il distruggerlo, in qualunque modo, con qualunque mezzo”.

Si aggiunga che, tra i responsabili del locale presidio di Carabinieri e i fascisti della zona non corrono buoni rapporti, forse guastati anche da antipatie personali, per capire come sia prevedibile che gli squadristi vedano come un’offesa intollerabile l’arresto di Ricci, al quale, tra l’altro, si sentono particolarmente legati per la grande carica umana del personaggio.

Volontario a diciannove anni, due volte decorato sul campo, egli viene da una famiglia proletaria, in cui: “la penosa esperienza della cava aveva naturalmente creato… un’atmosfera di solidarietà con il mondo degli oppressi e di istintiva ostilità verso i grandi industriali che li sfruttavano”.

E’ grazie a lui che peculiarità del Fascio di Carrara è quella di riuscire a coinvolgere, in termini di consenso, aliquote consistenti di operai del marmo, strappate al tradizionale anarchismo che le contraddistingueva.

Le Autorità hanno, quindi, ragione di temere un’iniziativa fascista, ed è per questo che circa cinquecento uomini tra Carabinieri, Guardie Regie e militari, con una sezione di mitragliatrici, convergono su Sarzana, già mobilitata a sua volta.

Attivisti armati girano nervosamente per le strade, in attesa di un attacco che tutti si aspettano imminente e, che infatti, sembra scattare il giorno 19, quando una ventina di squadristi spezzini, guidati dal diciannovenne Guido Bosero, muovono con una marcia notturna verso la città.

Sono in anticipo rispetto al concentramento del grosso, che è programmato per la notte successiva: quando se ne rendono conto, si fermano nei boschi per aspettare gli altri, ma sono individuati ed affrontati da gruppi di sovversivi, che li costringono a farsi largo a pistolettate, per provare a riprendere, in qualche modo, la via del ritorno.

Due, che si sono precedentemente allontanati dal gruppo, per tornare a Spezia e chiedere aiuto, Amedeo Maioni sedicenne e Augusto Bisogno diciottenne, vengono catturati, portati in una grotta, torturati ed uccisi dai loro carnefici che vogliono sapere in quanti e quando arriveranno i fascisti.

Questi, la notte del 20, si riuniscono sulla spiaggia, a cinque chilometri da Carrara, ed iniziano la marcia notturna di sedici chilometri, verso Sarzana: sono circa cinquecento, guidati da Dumini, Santini e Corsi, ma, nell’insieme la spedizione è organizzata, anche in questo caso, in maniera approssimativa.

Uno degli errori, è quello di seguire la linea ferroviaria, così che la colonna è avvistata da un treno che passa e dà l’allarme in città, facendo svanire la sorpresa; quando, verso le 5,30 del mattino gli squadristi arrivano sul piazzale della Stazione, vengono baldanzosamente affrontati da un piccolo gruppo di Carabinieri, ai quali stanno per arrivare di rinforzo gli altri militari presenti in Sarzana.

I più lenti sono ancora indietro di qualche chilometro, già vittime delle prime imboscate, mentre si avvia tra Dumini e Santini da una parte e il Capitano Jurgens dall’altra un dialogo destinato a concludersi con un nulla di fatto.

I due gruppi si fronteggiano minacciosi, quando all’improvviso parte un colpo all’indirizzo del drappello di Carabinieri, che aprono in risposta subito il fuoco, micidiale e terribile, sulla massa fascista, facendo quattro morti e parecchi feriti.

Molti fascisti sbandano nella campagna circostante e qui, mentre cercano di ricomporre i manipoli, sono attaccati da turbe di socialcomunisti: la disparità numerica, l’aggressività degli assalitori, la dispersione in gruppetti dei fascisti, la loro stessa generale condizione di prostrazione, derivante dalla notte insonne, dalla lunga marcia, e dall’impatto violento ed inaspettato con i Carabinieri, tutto contribuisce al tragico epilogo della giornata.

Quattordici squadristi sono finiti lì, tra gli alberi e i campi; molti sono impiccati agli alberi, tanti torturati e mutilati; alcune decine i feriti, che faticosamente riescono a scampare alla morte.

I fascisti che, invece, sono rimasti nella piazza della stazione, ottengono finalmente un colloquio con il Procuratore del Re, il quale dispone la scarcerazione di Ricci e di tutti gli altri arrestati, che insieme, ripartono per Carrara, probabilmente senza essere pienamente consapevoli delle dimensioni della strage .

Il viaggio di ritorno avviene in treno, accompagnato da un fuoco di fucileria che provoca un’ ultima vittima tra i fascisti.

In definitiva, una giornata tragica per il fascismo toscano e non solo: dire che la spedizione è stata mal organizzata aiuta a capire, ma non giustifica; per chi guardi con attenzione le cronache di questi mesi, è fondata la convinzione che le azioni squadriste sono sempre un po’ “approssimative” nell’organizzazione: esse contano più sulla sorpresa e sull’impeto dei partecipanti che su un metodico calcolo di imprevisti, di pro e contro.

Anarchici per temperamento, indisciplinati per natura, individualisti per convinzione, e uomini d’ordine solo per convenienza politica o per convincimento di quanti a loro guardano con simpatia, gli squadristi quasi mai perdono “prima” tempo a tavolino: quando si decide, o è necessario, si parte, e poi si vedrà…

Sarà solo in un secondo momento, per merito soprattutto di Balbo, organizzatore nato, che un po’ di disciplina metterà ordine nelle file, imposta, peraltro, anche dal massiccio numero di aderenti, non tutti “fegatacci”, ma che consentono lo svolgimento di vere e proprie operazioni militari, come le occupazioni di città o la marcia su Ravenna dell’estate del ’22.

Per ora i fascisti, che sono ancora pochi, vanno alla ventura: decidono la spedizione e vanno, in diciotto-venti, senza troppe preoccupazioni su chi e che cosa li aspetta; con questa mentalità affrontano anche l’azione su Sarzana che pure dalla sua ha, fatto abbastanza inconsueto, una così grande mobilitazione preventiva.

Lo dimostra la sostanziale incapacità dei responsabili della spedizione a gestire la massa squadrista che si sono trovati a guidare: le disfunzioni sui tempi, la inidoneità della località di concentramento, la difficoltà del viaggio di trasferimento, la mancanza di automezzi sufficienti a portare tutti quegli uomini, tutto prova che le squadre non sono ancora pronte al salto di qualità.

Anche dire che la reazione dei Carabinieri contribuisce all’infelice esito della giornata aiuta a capire, ma non è sufficiente: gli squadristi sono, nella grande maggioranza, ex combattenti, Arditi, Legionari, studenti comunque già provati da precedenti esperienze di guerra civile, che non possono essere spaventati da uno scontro a fuoco.

Psicologicamente può turbarli – ma non più di tanto – il fatto che a sparare siano i tutori dell’ordine, con i quali vogliono avere buoni rapporti, ma che non amano in maniera esagerata; non è forse vero che essi stanno giornalmente a tallonarli con diffide, interrogatori, minacce, arresti o, ciò che è ancora peggio per i giovani rivoluzionari, con atteggiamenti paternalistici che li vorrebbero ridurre al ruolo di ragazzini un po’ discoli?

Nemmeno convince l’opinione che a fugare i fascisti sia stata l’organizzazione messa in piedi dai rossi di Sarzana e la prontezza della razione; cinquecento squadristi ben guidati, armati ed organizzati avrebbero avuto ragione di qualunque avversario e, nella peggiore delle ipotesi, sarebbero arrivati ad una soluzione finale di compromesso, elegantemente presentata come senza né vinti né vincitori, del tipo di quella che si profilerà, sia pure in un diverso contesto, a Parma in occasione dello sciopero legalitario.

9-1921

E allora? Probabilmente la spiegazione dell’epilogo sarzanese è da ricercare nella congiunzione di tutti e tre i fattori: cattiva organizzazione squadrista, imprevista reazione dei Carabinieri, resistenza opposta dall’avversario. Congiunzione difficile da realizzare, tant’è che mai si è verificata fino adesso e mai più si verificherà per l’avvenire, dando all’eccidio della cittadina ligure i caratteri di un unicum irripetibile ed irripetuto.

Resta il fatto che menar vanto dell’episodio non fa onore a nessuno, nemmeno a chi, come i comunisti, arriva a scrivere che quanto avvenuto deve essere di esempio per tutti i proletari; infatti, additare ad esempio Sarzana vuol dire giustificare evirazioni, decapitazioni ed arrostimenti nell’acqua bollente, cioè, le manifestazioni peggiori del peggiore scatenamento di istinti belluini.

Come accade a Roccastrada, tre giorni dopo: qui il 24, alle 5 di mattina, si presentano una sessantina circa di squadristi grossetani e fiorentini, guidato da Dino Castellani: distruggono un negozio di proprietà di un sovversivo, devastano un bar, dal quale asportano la macchina del caffè e si mettono a fare caffè in piazza per tutti; cercano invano il Sindaco che è scappato, e, dopo un paio d’ore, alle 7 del mattino, ripartono.

Ma, appena usciti dal paese, subiscono un ‘imboscata, che fa una vittima, il giovane squadrista Ivo Saletti. Allora, ritornano indietro e si abbandonano ad atti di violenza inaudita: alla fine della giornata si contano tredici morti, in gran parte estranei all’accaduto.

Non basta a giustificare l’accaduto il fatto che gli animi degli squadristi sono particolarmente eccitati per le notizie e i particolari nefandi che i quotidiani riportano ogni giorno sulla strage di Sarzana.

Sarzana e Roccastrada, in realtà, sono le due facce peggiori di una stessa medaglia, fatta di intolleranza esasperata e di crudeltà che nessuno alibi ideologico può giustificare.

18. “Chi non usa le verghe non ama suo figlio”

 

L’effetto immediato di scoppi di violenza come quelli verificatisi a Sarzana e Roccastrada, è di accelerare, a livello politico, la conclusione del “patto di pacificazione”; quando, però, il Popolo d’Italia e l’Avanti del 5 luglio danno le prime notizie sulle trattative in corso, si scatena l’opposizione squadrista.

I Fasci di tutta l’Emilia si riuniscono in assemblea a Bologna, ed esprimono la loro contrarietà, deliberando di ritenersi estranei alla trattative, in atteggiamento di vigile difesa: “La pace viene dal cuore, non dai trattati insidiosi” titola L’Assalto, e il 12 e 13 luglio, in occasione del Consiglio nazionale, si arriva alla contrapposizione dura: Marsich, a nome degli intransigenti, presenta un suo ordine del giorno, contro quello “moderato” di Pasella.

Avversi alla pacificazione sono i diciannovisti, gli squadristi delle province, i più giovani: essi con la loro azione sono riusciti ad annullare il pericolo sovversivo, vogliono ora continuare la battaglia fino alla vittoria completa, ma soprattutto, vogliono ora rivolgersi contro i neutrali di oggi e gli infidi alleati di ieri.

Bisogna, se del caso, e finalmente, “legnare a destra”, scrollarsi di dosso ogni sudditanza verso chi fin qui ha creduto di poter trarre dalla generosa azione fascista vantaggi egoistici e materiali; non è, quindi, senza significato che proprio mentre a Milano si svolge il Consiglio nazionale, tremila squadristi occupano Treviso, dove il nemico non sono i socialcomunisti, ma repubblicani e popolari.

Nella città si accendono mischie e scontri con questi elementi, soprattutto repubblicani, guidati da Guido Bergamo; il tentativo di assalto alla sede del loro giornale, “La Riscossa” si risolve con morti e feriti da una parte e dall’altra, mentre la permanenza in città degli squadristi, provenienti principalmente da Rovigo, Padova, Vicenza e Trieste, si protrae per più giorni.

E’ significativo, sul versante del fascismo “moderato”, che favorevole senz’altro al patto si dica il Gruppo parlamentare, ormai dominato dagli elementi più cauti e possibilisti, così che, infine, il 23 si riunisce nuovamente, questa volta a Roma, il Consiglio nazionale, che delibera l’invio di una circolare a tutti i Fasci che, di fatto, prelude alla firma del patto, e dispone:

–        cessazione di ogni forma di violenza, se non per ragioni di legittima difesa, e soprattutto nei casi di sproporzione numerica;

–        cessazione delle spedizioni punitive contro le organizzazioni economiche;

–        revisione delle iscrizioni ai Fasci;

–        stretto controllo degli organi dirigenziali su ogni azione;

–        comando di squadre solo a militanti con almeno sei mesi di anzianità;

–        abolizione delle cariche onorarie

Procedono, nel frattempo, le trattative per la pacificazione; nel tentativo di dare una sterzata al timone, Farinacci e Marsich decidono di dimettersi contemporaneamente dal Comitato centrale, anche se diversa è la prospettiva nelle quale i due popolari capi squadristi si muovono.

Il secondo subordina, con chiarezza, la pace alla distruzione dello Stato liberaldemocratico, governato da una plutocrazia bancaria antinazionale, ed alla contemporanea conquista del potere da parte delle forze nazionali, magari guidate da D’annunzio; il primo invece, nella sua lettera di dimissioni, sembra prospettare un’ipotesi di fascismo “a termine” che qualche settimana dopo sarà ripresa dallo stesso Mussolini:

Sorgemmo per opporci alle provocazioni dei nostri avversari, e per combattere coloro che volevano gettare nell’abisso il nostro Paese vittorioso. Quando i socialisti disarmeranno e diventeranno italiani, quando cesseranno gli agguati, quando dagli edifici pubblici non sventoleranno più bandiere rosse, quando tutte le nostre organizzazioni verranno rispettate, quando la stampa avversaria cesserà di diffamare i nostri capi e il nostro movimento, la pace sarà conclusa. I fascisti avranno raggiunto allora lo scopo.

 

La battaglia contro il patto di pacificazione, nelle settimane a venire, non troverà – com’era prevedibile – il consenso dei settori più conservatori del fascismo: essa parte e si muove piuttosto su un terreno “di sinistra”, con le indicazioni dannunziane di Marsich da un canto, e quelle sindacaliste di Grandi dall’altro.

Il problema vero non è quello di continuare a bastonare i socialisti, è piuttosto capire che fermarsi ora vorrebbe dire dare libero corso alle manovre parlamentari, forse non sgradite a Mussolini ed al suo entourage, lasciando “monca” la rivoluzione, e dando così conferma alla convinzione avversaria che il fascismo altro non è (stato) che la guardia bianca del padronato e degli agrari.

E’ L’Assalto a dirlo con chiarezza, il 30 luglio: “La battaglia comincia ora, vedremo chi la vincerà”.

Ma non basta: il 2 agosto il patto è firmato da fascisti, socialisti e Confederazione Generale del lavoro; non firmano i comunisti, che lo giudicano “mercato di sciocchi”.

E’ Mussolini a volere fortemente la firma, contro le prese di posizioni squadriste che gli giungono da più parti; il giorno dopo la firma, sul Popolo d’Italia, scrive:

…difenderò con tutte le mie forze questo trattato di pace, il quale, a mio avviso, assurge all’importanza di un avvenimento storico, anche per la sua singolarità, senza precedenti…metterò in pratica un vecchio saggio proverbio, che dice: “chi non usa le verghe non ama suo figlio”. Ora, se il fascismo è mio figlio – come è stato fin qui universalmente riconosciuto in migliaia di manifestazioni che devo, fino a prova contraria, ritenere sincere – io, con le verghe della mia fede, del mio coraggio, della mia passione, o lo correggerò, o gli renderò impossibile la vita… Anzi, qui si “parrà la nobilitade” del fascismo, il quale, dopo aver esercitato i muscoli, dovrà esercitare i cervelli e muoversi nel campo della idea e delle competizioni civili con quella stupenda elasticità con la quale si è mosso durante la nostra guerra all’interno, nelle strade e nelle piazze…

Dal mio punto di vista personale, la situazione è di una semplicità lapalissiana: se il fascismo non mi segue, nessuno potrà obbligarmi a seguire il fascismo.

Io comprendo, e compiango un poco, quei fascisti delle molte Peretole italiane, i quali non sanno estrarre dai loro ambienti, vi si inchiodano e non vedono altro, e non credono all’esistenza di un più vasto e complesso e formidabile mondo.

 

E’ un ricatto, oltre che un attacco diretto agli avversari interni; tocca a Grandi rispondere, il 6 agosto, con un articolo dall’allusivo titolo: “I pensieri di Peretola”, nel quale è soprattutto rilevante l’affermazione orgogliosa dei meriti del fascismo emiliano, che ha dato al movimento milanese, in maniera potente, i caratteri vincenti che esso ha ora.

Mussolini ribatte alle critiche con durezza, personalizza lo scontro, con un maligno accenno al fatto che nel 1919, quando cioè il fascismo nasceva a Milano, l’unico fascista che vi fosse a Bologna era Arpinati, che “sudò sette camicie prima di arrivare a combinare un Fascio che fosse degno di questo nome”, e torna alla carica:

Per me il fascismo non è fine a se stesso. Era un mezzo per ristabilire un equilibrio nazionale… Gran parte di ciò è stato raggiunto. Il fascismo può dividersi, scomporsi, rammentarsi, decadere, tramontare. Se sarà necessario vibrare martellate potenti per affrettare la sua rovina, mi adatterò all’ingrata bisogna… Il fascismo può fare a meno di me? Certo, ma anch’io posso fare a meno del fascismo. C’è posto per tutti in Italia, anche per trenta fascismi, il che poi significa per nessun fascismo.

 

La crisi non è solo di crescenza, ma rivela piuttosto il fronteggiarsi di due mentalità che appaiono veramente inconciliabili: sulla stampa c’è già chi parla di scissioni nel movimento, come fa Gramsci, anche se la sua analisi – strumentalmente – è in parte menzognera:

Dalla crisi il fascismo uscirà scindendosi. La parte parlamentare, capeggiata da Mussolini, appoggiandosi sui ceti medi, impiegati e piccoli esercenti e industriali, tenterà la loro organizzazione politica, orientandosi necessariamente verso la collaborazione con i socialisti e con i popolari. La parte intransigente, che esprime la necessità della difesa diretta e armata degli interessi capitalistici e agrari, proseguirà nella sua azione caratteristica antiproletaria… La crisi segnerà soltanto l’uscita dal movimento dei fascisti di una frazione di piccoli borghesi che hanno invano tentato di giustificare con un programma politico generale di “Partito” il fascismo.

Che si tratti, soprattutto nella parte che definisce gli intransigenti “antiproletari” tout court, di un’analisi strumentale, buona per il grosso pubblico, lo dimostra il tentativo – fallito – fatto da alcuni comunisti (compreso, forse, lo stesso Bombacci) di contattare i fascisti antipacificazionisti, riuniti a Bologna, per combinare insieme un’azione comune.

Alla scissione non si arriverà, ma è destinato a prolungarsi il contrasto tra le due anime fasciste: quella parlamentare e “politica”, propensa a cercare di dare uno sbocco legalitario all’affermazione squadrista, e quella rivoluzionaria e “ideologica”, che punta alla conquista del potere con la forza, rivolgendo, ora, la sua azione contro lo Stato liberale, le sue istituzioni – compresa quella della monarchia – i suoi uomini e le sue strutture.

La prospettiva del nuovo confronto non spaventa gli squadristi intransigenti: essi si muovono in nome della Nazione per realizzare un nuovo Stato di democrazia autoritaria e nazionale, nel quale finalmente le masse riescano a riconoscersi e diventare protagoniste, così come oggi, sconfitto l’apparato socialista, si riconoscono e sono protagoniste nelle organizzazioni fasciste.

Non intendono abbandonare “l’empirismo democratico” che, secondo le accuse nazionaliste, ha caratterizzato fino a questo momento il loro movimento, né, tanto meno, li attira la prospettiva di arrivare “per via induttiva al punto stesso a cui, per via deduttiva, era giunto il nazionalismo italiano”.

Preferiscono restare fedeli ai principi iniziali del movimento, forse un po’ confusi nei dettagli, ma chiari, chiarissimi nella prospettiva generale: squadrismo e sindacalismo diventano così i due elementi trainanti di questa battaglia ideale: ecco, perché, squadristi e sindacalisti sono concordemente contrari al patto di pacificazione.

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