- Arpinati “a zoppo galletto”
“A chi l’ignoto? A noi!”, così D’Annunzio a Fiume conclude il suo ultimo discorso, “l’alalà funebre”,il 31 dicembre del 1920; e, veramente “ignoto” appare il destino dell’Italia in questo momento: il 1921, che passerà alla storia come “anno fascista per eccellenza”, inizia con l’episodio sanguinoso di Modena che, dopo i fatti di Bologna e Ferrara della fine dell’anno precedente, è destinato a procurare, per l’eco che avrà nel Paese, nuove simpatie e proseliti ai fascisti ed alla loro azione.
Che la tensione vada montando in maniera impressionante, lo dimostra anche il tragico epilogo di tutta una serie di episodi che, con frequenza quasi giornaliera, si susseguono in città e borghi di campagna, apparentemente al confine tra il politico e la bega paesana.
Il 31 dicembre, una squadra di fascisti modenesi si reca a Correggio, per distribuire un volantino, indirizzato ai partecipanti alla festa socialista per l’ultimo dell’anno, nel quale, dopo le consuete frasi di propaganda, è scritto: “Nel porgere un affettuoso saluto agli amici ed ai simpatizzanti, auguriamo buon divertimento ai bolscevichi che parteciperanno al veglionissimo rosso”:
L’augurio, però, non è gradito, e nascono incidenti, che si concludono con due morti socialisti, tre feriti fascisti e l’arresto del tenente Pappalardo, noto squadrista emiliano, che abbiamo già visto capeggiare l’attacco alla Camera dl lavoro bolognese il 4 novembre.
Negli stessi giorni, e ancora in occasione di una rissa scoppiata in coincidenza con una festa danzante, viene ucciso a Gavello il diciassettenne fascista Giuseppe Giannessini, mentre a Busseto, il 7 febbraio, le inevitabili provocazioni nate nel corso del contemporaneo svolgimento di due veglioni, l’uno fascista e l’altro sovversivo, sfociano in gravi incidenti, con inseguimenti e sparatorie per le strade coperte di neve, e con un bilancio finale di quattro morti (tra i quali il popolarissimo capo sqaudrista Vittorio Bergamaschi di 24 anni) e vari feriti.
Ma, il fatto più grave si svolge a Modena il 24 gennaio, durante i funerali di un fascista caduto due giorni prima, il diciannovenne legionario fiumano Mario Ruini: guardie rosse appostate nell’edificio della Posta centrale aprono improvvisamente il fuoco contro il corteo funebre; la fucileria colpisce la colonna, composta anche da donne e ragazzi, e fa due morti: il diciannovenne nazionalista Orlando Antonimi e il ventenne fascista bolognese Augusto Baccolini.
Ancora una volta inadeguata appare l’azione delle forze dell’ordine, incapaci di prevenire la delittuosa azione socialcomunista. Lo rileva una fonte competente, Umberto Baccolini, Tenente dei Carabinieri e fratello di uno dei caduti, in una lettera indirizza al Comando del Battaglione Mobile Carabinieri Reali di Bologna:
“Dopo l’assassinio politico vilmente compiuto nella persona di mio fratello Augusto, dopo che i Prefetti di Bologna e Modena hanno dimostrato, nel concedere il permesso di onorarne degnamente la salma, una titubanza che io reputo immorale, ho ripugnanza a servire, nel presente momento, il Governo d’Italia asservito…alla parte più turbolenta e incivile del nostro povero Paese
Rassegno, quindi, con la presente, le mie dimissioni, e prego di darvi sollecito corso essendo mio fermo proposito svolgere attivamente quella opera di cittadino per la quale mi occorre libertà di pensiero e di azione”
Contemporaneamente, l’ormai ex Tenente indirizza una missiva al fascio bolognese:
“Sul cadavere del mio povero fratello Augusto, del quale voglio raccogliere intera l’eredità morale, ho, senza teatralità, ma con animo fermo, incrollabilmente fermo, tacitamente giurato di prendere il posto di combattimento che non deve rimanere vuoto e che spero mi venga riservato di diritto
La presente valga quindi come domanda di ammissione al fascio di combattimento, del quale condivido la fede ed approvo il programma, e fra le cui fila mi parrà di ritrovare interamente la personalità del povero morto”
La domanda viene accolta e Baccolini diventa uno dei più attivi dirigenti del fascio bolognese, fino ad assumere la carica di segretario federale e di Comandante della colonna bolognese alla Marcia
A Modena, alla testa del corteo fascista c’è Arpinati, accompagnato dalla futura moglie e dalla cognata; la ricostruzione fatta dalla figlia, nell’affettuosa biografia dedicata al padre, ci aiuta a capire lo spirito e i modi della presenza fascista a quella che era solo una cerimonia funebre:
Non pensavano dovesse accadere niente, tanto è vero che erano accompagnati dalle mogli, dalle fidanzate, dalle madri… il papà aveva con sé la nonna e la zia Dalia. Dall’edificio della Posta centrale si aprì il fuoco contro il corteo e caddero due fascisti, Antonimi e Baccolini, e mio padre fu ferito ad una caviglia. Affidò la fidanzata e la cognatina ad un conoscente, e con i suoi si gettò avanti, correndo “a zoppo galletto”, ma ormai il palazzo della Posta era deserto e, anche per tutto il tragitto fino all’Ospedale, non gli riuscì di incontrare anima viva. La ricerca della mamma fu molto laboriosa: mi raccontano che il papà girò per tutta Modena, dicendo: “Ma dove saranno andate a finire quelle due ragazze? Che cosa dico stasera al padre?
Il futuro ras bolognese, tra arresti e denunce, va consolidando la sua fama di capo squadrista, figura di primo piano del forte fascismo emiliano; arrestato il 14 gennaio, e poi rilasciato, sarà di nuovo incarcerato, nel quadro delle misure normalizzatrici disposte da Giolitti, una prima volta a fine gennaio, con Grandi e Barboncini, e poi ancora il 13 marzo.
E’, indubbiamente, lui la figura di spicco del fascismo bolognese – più dello stesso Grandi – di questo primo periodo: ex anarchico, di ingegno vivace ed intelligente, non ha partecipato alla guerra, perché ferroviere “militarizzato”, ma, già interventista nel ’15, è da subito fra i più accesi difensori dei diritti della vittoria, sempre in primo piano, con forte carisma personali, come riconosciuto da Missiroli che gli fu prima avversario e poi amico:
Egli era uno di quegli uomini che appartengono per natura alla categoria dei dominatori. Si tratta di qualità che non hanno nulla a che fare con l’intelligenza e con la cultura, e che sono proprie della volontà, del carattere, del temperamento, della “stoffa umana”. Uomini di altissimo sapere, messi in una riunione, non esercitano nessuna “autorità”, anche se sono, giustamente, rispettatissimi, mentre altri, prescindere dal livello mentale e da ogni dote di cultura, dopo dieci minuti sono già ala tavolo della presidenza, e si impongono e sono accettai ed acclamati come tali. Arpinati era di costoro.
Esuberante fisicamente, con un aspetto vagamente bohemienne, accentuato dalla folta capigliatura (che, però, si fa tagliare “alla Umberto”, dopo che nelle zuffe è diventato l’appiglio preferito dei cazzottatori avversari), sempre pronto ad accorrere in difesa del più debole, sostanzialmente alieno da ogni violenza gratuita, che, anzi, perseguirà sempre con fermezza, è presto popolarissimo in tutta la sua regione, e non solo.
Non ad altri che a lui può toccare, perciò, il compito di organizzare la reazione all’eccidio modenese; vengono distrutte le Camere del lavoro di Modena, Carpi e Bologna, ritenute imprendibili santuari della rivoluzione bolscevica; quella bolognese, in particolare, ha fama di essere una polveriera: i nazionalisti hanno cercato vanamente di espugnarla il 15 giugno del ’19; miglior fortuna non ha avuto l’attacco squadrista del 4 novembre 19209, l’impresa non sembra facile nemmeno questa volta.
- Un fucile da guerra, il cavallo ed il cane
Allorché, però, i reduci modenesi, il 24 gennaio, muovo all’assalto della sede sindacale, non c’è niente da fare: la distruzione è inevitabile, senza che ad essa seguano apprezzabili reazioni socialiste, se non il minaccioso commento di Antonio Gramsci su “Ordine Nuovo” del 31 gennaio:
Al primo tentativo fascista deve seguire rapida, spietata, la risposta degli operai, e deve, questa risposta, essere tale che il ricordo ne sia tramandato fino ai pronipoti dei signori capitalisti. Alla guerra come alla guerra, e in guerra i colpi non si danno a patti…pericolo di morte per chi tocca la Camera del lavoro, pericolo di morte per chi favorisce e promuove l’opera di distruzione. Cento per uno. Tutte le case degli industriali. La guerra è la guerra: chi tenta l’avventura deve provare il duro morso della belva che ha scatenato. La guerra è la guerra. Guai a chi la scatena. Un militante della classe operaia che debba passare all’altro mondo, deve avere, nel suo viaggio, un accompagnamento di prima classe. Se l’incendio arrossa il pezzo di cielo di una strada, la città deve essere provvista di molti bracieri, per riscaldare le donne e i figli degli operai andati in guerra.
A seguito di questa escalation di violenza, Giolitti, Ministro dell’Interno, ordina, in applicazione dell’art. 18 della Legge di Pubblica Sicurezza, la revoca del porto d’armi e dispone l’immediata consegna ai Prefetti delle armi detenute da privati nelle province di Modena, Bologna e Ferrara.
I fascisti dichiarano subito che essi non consegneranno le armi a nessuno, e, di fatto, il provvedimento, per il momento nel quale è preso, dopo tanti mesi di assenteismo delle Autorità, dopo che intere fabbriche sono state occupate e presidiate per settimane da uomini armati, appare anche ai non fascisti unilaterale e repressivo solo di un primo tentativo di reazione antisocialista.
E’ per questo che una delegazione di cittadini delle tre province si reca a Roma, il 29 gennaio, a protestare contro l’iniquità e l’intempestività della decisione governativa; d’altra parte, lo stesso Giolitti non può seriamente credere di riuscire a normalizzare la situazione con la semplice adozione di un provvedimento di polizia che, peraltro, sa bene di non avere la forza e la possibilità di far rispettare nei modi dovuti.
La serrata di attività commerciali e negozi, richiesta ed ottenuta dai fascisti nelle tre province, e la volontà dichiarata impunemente di non consegnare le armi, sono così le uniche vere conseguenze dell’iniziativa governativa.
Il 25, a Cecina, gli squadristi lamentano un altro morto, il livornese Dino Leoni, caduto durante gli incidenti che vedono coinvolti fascisti provenienti da Pisa e Livorno, intenzionati a rimettere a posto una lapide commemorativa della Vittoria, tolta dall’Amministrazione socialista.
Lo stillicidio di violenze e caduti, da una parte e dall’altra, avviato con questo inizio d’anno, sembra così destinato a prolungarsi all’infinito, e ad estendersi ad ogni parte d’Italia, a Nord come a Sud.
Il 22 febbraio, nel corso di violenti scontri, viene distrutta la Camera del Lavoro di Minervino, in provincia di Bari; il giorno successivo, proclamato lo sciopero generale, ad accrescere la tensione, nel capoluogo pugliese convergono squadre fasciste da tutta la provincia.
Il clima in città è già rovente, perché quattro giorni prima i fascisti hanno inizialmente impedito a Bombacci l’accesso a Bari, e lo hanno poi costretto a rifugiarsi nella città vecchia, tradizionale roccaforte sovversiva, dove ha sede la Camera del Lavoro; questa nuova mobilitazione squadrista è giustificata dalla coincidenza del Congresso socialista dei lavoratori della terra.
I fascisti, ai quali è stato ordinato dal Fascio di Bari di. “…intervenire numerosi, ben disciplinati, organizzati e provvisti, per dare l’evidente sensazione della nostra forza”, con la precisazione che: “gli Arditi e i legionari sono pregati di venire in divisa”, cercano anche di penetrare nella città vecchia, per dare battaglia ai sovversivi, provocando così mischie, con morti e feriti.
L’agitazione si svolge anche in tutto il circondario, ed è particolarmente a Cerignola, paese natale del capo squadrista Peppino Caradonna, che si scatena la violenza leghista; in assenza di fascisti “riconosciuti”, essa si indirizza contro piccoli proprietari e massari, facendo molte vittime; è una rappresaglia di tale intensità e estensione da apparire sproporzionata rispetto alle provocazioni fasciste che pure ci sono state; è piuttosto, il sintomo di un malessere antico, che vede protagonista chi la terra non ha, ma vive offrendo giornalmente il suo lavoro al mercato delle braccia paesano, con la inquinante presenza di pregiudicati comuni, iscritti alle locali Camere del lavoro.
A Minervino, tra gli altri, viene ucciso il massaro Riccardo Barbera, con modalità che suscitano il comune sdegno, per l’efferatezza dei particolari; infatti l’uomo, assediato solo in casa, con “per compagni…un fucile da guerra, il cavallo ed il cane”, cerca, con la fuga a cavallo, di rompere il cerchio degli assedianti, che vogliono incendiare la fattoria, per snidarlo; ferito e raggiunto, viene però crudelmente finito con venti pugnalate.
Nel giro di qualche giorno, la situazione in Puglia si avvia alla normalità; i fascisti, organizzati in squadre a cavallo, lasciano il capoluogo e battono la campagna, per spegnere gli ultimi fuochi di rivolta.
Anche in questo caso, ciò che è apparso evidente è l’impotenza delle forze dell’ordine a fronteggiare efficacemente situazioni impreviste e rivoluzionarie, anche se di breve durata; tale impotenza, in regioni e città organicamente più turbolente della Puglia, come la Toscana e Firenze in particolare, diventa una delle cause che facilitano il ripetersi e protrarsi della turbolenza stessa.
Proprio a Firenze, la sera del 26 gennaio, gli squadristi, per reazione ai fatti di Modena e Cecina, incendiano il giornale socialista “La Difesa”, e, nei giorni successivi, nel corso del conseguente sciopero generale di protesta, sostengono vari scontri in diverse zone della città, con molti feriti e arrestati.
Ben ventiquattro squadristi sono arrestati solo il giorno 30, in occasione di una spedizione nel quartiere di Ponte Rosso, mentre la tensione in città continua a salire: i fascisti individualmente sono ben noti agli avversari, che rendono loro la vita difficile; essi sono costretti ad adottare speciali misure di autodifesa: alla sera tornano a casa a gruppetti, secondo i quartieri, e il rischio maggiore lo corre sempre l’ultimo a rincasare. Talvolta, tocca a Dumini:
Quante volte sono stato bastonato! Vi fu un periodo in cui io e il mio redattore capo, Giuseppe Fonterossi, dovevamo consultare una carta della città, per controllare le vie che ci erano precluse, e, qualche volta, neppure quella accortezza era sufficiente.
E’ per questo che “La Riscossa”, organo del Fascio fiorentino, nel rivendicare la responsabilità dell’incendio de “La Difesa”, ammonisce gli avversari a non approfittare della loro superiorità numerica:
Abbiamo assaltato La Difesa perché sapevamo che in essa esistevano documenti che “volevamo” conoscere. Assalteremo a qualunque costo quando lo crederemo utile, qualsiasi posto ove la viltà comunista trami i suoi ignobili progetti…Vi diffidiamo dal bastonare in cinquanta uno di noi, solo e inerme, come è accaduto in questi giorni. I capi risponderanno di persona.
Quello della “responsabilità oggettiva” dei capi appare il sistema di dissuasione più efficace: sarà ripreso in altre occasioni dai fascisti, e si rivelerà utile, in effetti, per evitare danni maggiori in situazioni che sono normalmente squilibrate numericamente a sfavore degli uomini di Mussolini.
Non basta, però, qualche difficoltà a mettere di cattivo umore gli spiritacci fiorentini: il racconto di un episodio che circola negli ambienti squadristi lo dimostra: protagonista è Pirro Nenciolini che, relazionando alla sede fascista di un atto di valore compiuto da un giovanissimo camerata in queste movimentate giornate, si lascia andare alle solite esagerazioni, fino ad indicare all’ammirazione dei presenti la figura del “fulgido eroe sedicenne”. E, alle proteste di quello, che gli dice di avere non sedici, ma diciotto anni, brusco controbatte: “Chetati, bischero, che tu ci fai più bella figura!”