8 Ottobre 2024
Appunti di Storia

1921: Primavera di Bellezza (sesto capitolo)

 

11. Fughe socialiste

La contromisura più frequente alla quale ricorrono le vittime dell’azione squadrista è l’imboscata al camion; raramente la resistenza attiva si sviluppa in paese, mentre gli squadristi, come amano dire, “fanno una dimostrazione di forza”, sparecchiando in aria e andando su e giù per strade deserte.

Non di rado avviene, piuttosto, che l’iniziativa squadrista si sviluppi tra il plauso, sia pure timorosamente manifestato, della gente, stanca di un biennio di prepotenze socialiste, per concludersi con l’esposizione del tricolore dal balcone del Municipio.

Quando, invece, obiettivo della spedizione è quello di “dare una lezione” a qualche capolega particolarmente prepotente ed inviso, si rende necessaria la ricerca casa per casa del tapino al quale “dare l’olio”, non senza essersi prima fatte restituire –quando è possibile- le “taglie” precedentemente estorte con la violenza.

 Le “esorbitanze” dei fascisti di norma: “…si andavano svolgendo contro coloro che, alla loro volta, avevano ecceduto in atti di violenza contro i propri avversari, e, quel che era più grave, contro i rappresentanti della forza pubblica”; non era esclusa, in taluni casi, la possibilità di arrivare alla firma di un “concordato” con gli avversari, come a Rolo, nel giugno del ’21, dove le due parti sottoscrivono un documento che prevede, sia pure con qualche concessione ai vincitori, il ristabilimento di condizioni minime di convivenza civile, e, per l’esattezza:

a)    dimissioni immediate del Consiglio comunale;

b)    allontanamento immediato del Segretario della cooperativa;

c)    dimissioni da qualsiasi carica (compresa quella di gerente della cooperativa di consumo) del vecchio socialista Vincenzo Cimurri;

d)    libertà di pensiero, di lavoro, di azione e di organizzazione;

e)    sconfessione dell’ufficio di collocamento;

f)     istituzione di un nuovo ufficio di collocamento apolitico;

g)    rispetto reciproco fra qualsiasi persona, qualunque sia la propria opinione;

h)    esposizione in Municipio della bandiera nazionale nelle feste civili e divieto di esposizione di qualunque altra bandiera.

Nella maggior parte dei casi, però, non è possibile firmare nessun documento congiunto, perchè, allertati dal rumoroso arrivo dei fascisti, coloro che hanno qualcosa da temere hanno tutto il tempo per darsi alla fuga; quelle poche volte che il capolega è trovato, magari a letto, “ammalato”, gli si impone l’adesione ad ironici “atti di abiura”, come quello firmato dal Segretario della Camera del lavoro di Prato, il 17 aprile del ’21:

Dichiaro ai fascisti che d’ora in avanti non disgiungerò mai più il sentimento della Patria da me stesso, e ciò, per un alto e spontaneo risveglio del sentimento di Patria.

Alla prova dei fatti, i dirigenti locali della sovversione dimostrano, quasi ovunque, la loro incapacità ad affrontare le conseguenze dello scontro; Arpinati lo aveva previsto fin dall’inizio, quando, raccontando a Pasella come la mobilitazione fascista a Bologna per il 1° maggio del ’20, a base di pattuglie che attraversano le vie cittadine al canto di “Giovinezza” non abbia trovato alcun ostacolo, così conclude ottimisticamente: “Mi sono convinto che essi (i socialisti) non faranno mai la rivoluzione”

La tendenza alla fuga è direttamente proporzionale al massimalismo verbale dei tempi normali, come si rinfacciano i protagonisti; l’organo ufficiale della Confederazione Generale del Lavoro, trattando a fine gennaio dei conflitti di Modena e Bologna, così si esprime:

…Poi, spettacolo triste ed umiliante! Si hanno le fughe, che veruna giustificazione sottrae alla riprovazione ed alla attestazione di un contegno onde ormai vanno famosi troppi teorizzatori della violenza…

E più avanti, attaccando, in particolare l’Onorevole Ferrari, segretario della Camera del lavoro di Modena, lo colloca tra coloro:

…i quali non hanno coscienza del loro dovere nei momenti più difficili, e sono i primi a scappare, quando maggiormente è richiesta l’opera loro e la loro presenza…l’incoscienza di coloro che determinano situazioni insostenibili è tanto più dannosa in quanto alle conseguenze di esse essi si sottraggono, affibbiandole a quelli che devono restare e soffrire.

 

12. “Mamma non piangere…”

Non è, quindi, in paese che i sovversivi preparano la resistenza ai fascisti, ma è altrove che essi scelgono la contrapposizione agli avversari:

L’azione fascista è, quasi sempre, azione di rappresaglia. Alle sedi dei Fasci, dove c’è sempre chi veglia, giungono improvvisi gli allarmi, le notizie degli agguati sovversivi, di aggressioni, di imboscate. La maggior parte hanno tutte la stessa linea. Le vittime sono, di solito, i fascisti isolati o a piccoli gruppi, che vengono d’un tratto assaliti a tradimento, sorpresi durante la notte mentre rincasano, o quando si aggirano nelle zone sovversive.

Subito l’allarme è dato, e staffette corrono ad avvisare i camerati, la squadra è adunata e pronta in pochi minuti, balza su camion rombanti e accorre verso il luogo dell’incidente. Più spesso è tragedia e non incidente; giunta sul posto trova talora i cadaveri dilaniati dei compagni, dietro le siepi dove è stata compiuta l’aggressione, o nei campi deserti.

Allora, si corre alla sede socialista, alla Camera del lavoro, le porte sono abbattute, i mobili accatastati, il locale incendiato. I sovversivi quasi sempre fuggono, ma qualche volta attendono armati, per colpire anche i soccorritori; la lotta diventa battaglia accanita, non più di bastoni, ma di rivoltelle, bombe, fucili: sparatorie sanguinose che lasciano sempre dei caduti.

 

Il sistema di avvistamento organizzato dai sovversivi assume caratteri quasi militari: ancora nel maggio ’22, in un manifesto, il Partito socialista di Cremona darà precise direttive:

Poiché la guerra d’oggi è una guerra di insidia, è guerra di tradimento, occorre che, in ogni cascina, siano disposte le vedette per dare l’allarme, nel momento in cui stanno per giungere i briganti chiamati dai filibustieri schiavisti. E’ pure necessario assicurare ai contadini assaliti l’aiuto dei contadini delle cascine vicine, e, perciò, si deve stabilire un perfetto collegamento tra cascina e cascina.

Avviene così che, all’uscita dal centro abitato, dopo lo svolgimento dell’azione, quando gli spiriti e i sensi degli squadristi sono più tranquilli e rilassati, all’improvviso, di fronte al camion, si para un ostacolo di vario tipo (in genere, un albero tagliato o un carretto posto di traverso), mentre dai fossati laterali o dai tetti di qualche edificio vicino si apre il fuoco contro l’automezzo.

Una variante di questa tecnica può essere talora rappresentata dall’improvviso fuoco di fucileria che si apre sul camion squadrista in trasferimento, durante l’attraversamento di un centro abitato, con utilizzo dei tetti e delle finestre delle case.

In alternativa, infine, il fuoco può essere anche aperto in piena campagna, ad opera di tiratori appostati sugli alberi o nei campi, che costringono il camion ad accelerare, per attraversare il terreno battuto dal fuoco alla massima velocità, mentre dal cassone si risponde alla bell’e meglio alla fucileria.

In situazioni di così evidente disparità, contro un nemico che non si vede, l’obiettivo principe è quello di uscirne con il minor danno. Di solito, però, le imboscate sono tremendamente efficaci, e provocano vittime tra gli occupanti del camion.

“Mamma non piangere, se c’è l’imboscata” cantano i giovani squadristi, sull’aria della nota canzone di guerra, e di imboscate è veramente ricca la cronaca di questi mesi. Appunto la consapevolezza del rischio sempre presente e dell’ostilità della popolazione, sobillata dalla propaganda d’odio, è la giustificazione e la premessa di certa ostentazione, talvolta eccessiva, di decisione e fermezza, di “terribilità” che i fascisti fanno, nel corso della loro azione.

Essi vogliono dimostrare senza esitazioni, di essere animati dal dannunziano “demone della risolutezza” che inutilmente Pasella, con la circolare nr.102 del marzo, cerca di frenare: “la rappresaglia deve compiersi senza teatralità, senza appariscenti preparativi, ma con risolutezza e sorpresa”.

 In verità, la propensione all’esibizionismo deriva direttamente dalla tradizione guerriera dei Reparti d’Assalto:

Gli Arditi della Seconda Armata partivano ogni volta per l’azione non con la calma rassegnata di chi compie un dovere, non con il sorriso forzato di chi vuole imporsi un contegno, ma con esplosioni di gioia barbarica, che spargevano odore di orgia carnevalesca, anziché di battaglia imminente. Era uno scatenamento di musiche, di canti e di danze semi negre, con copioso intervento di putipù, scatavaiasse e triccaballacche.

Il tramite più diretto, è stato poi il periodo fiumano, dove la fantasia coreografica aveva raggiunto il culmine:

Ogni uomo, qui, sembrava indossare una divisa disegnata espressamente per lui: alcuni avevano la barba e si rapavano a zero la testa, in modo da somigliare al comandante… altri si erano lasciati crescere enormi ciuffi di capelli, lunghi mezzo piede, che ondeggiavano dinanzi alla fronte, e indossavano, in equilibrio, esattamente dietro la testa, un fez nero. Mantelli svolazzanti e sovrabbondanti cravatte nere erano universali, e tutti –non escluse alcune donne- avevano con sé il “pugnale romano”

 

Fra tutti, gli Arditi, anche in questo caso, in primo piano:

Gli Arditi sono una minoranza: ma, a mano a mano che la vita fiumana si viene organizzando, gli altri Corpi subiscono l’influenza di questo stile spavaldo. Cavalleggeri e Fanti, Colonnelli e Caporali, Artiglieri ed Aviatori, e perfino il buon poeta americano Henry Furst, non c’è più nessuno che non voglia essere Ardito, che non voglia portare ricamata sulla manica sinistra la spada con la ghirlanda di quercia.

In poco volgere di tempo, i Legionari acquistano una sagoma che li individua; inafferrabili sfumature, da principio: i Bersaglieri abbandonano al vento le stesse piume e corrono alla maniera di prima; gli Ufficiali del “Piemonte Reale” conservano al loro grazia altera; I Granatieri l’eleganza sobria.. eppure c’è in tutti qualche cosa di cambiato: uno spirito nuovo li anima; e, un poco per volta, con quella delle anime, la metamorfosi delle uniformi si compie.

Un giorno, i Fanti spaccano la giubba, il colletto si apre, e ne sorge il collo nudo che, al vento del mare si farà di bronzo: tutti vorranno, in seguito, portare il pugnale alla cintura. In estate, il Comando di Fiume si impossesserà dei depositi abbandonati dagli Alleati: nelle tende fulve dell’Armee d’Orient, ci taglieranno fantasiose tenute da parata. Gli stessi Arditi varieranno il loro tema: parecchi Ufficiali semineranno di stelle argentee il fez spavaldo, e, a più riprese, cingeranno il petto di alamari neri: uno spirito nuovo li anima.

Volontari non se ne accettano più, ma i sottufficiali si moltiplicano, giacchè il Comando crea caporali, sergenti, aiutanti di battaglia. Bisogna pure riconoscerlo: è bizzarro l’aspetto di questi personaggi rabescati di galloni, con un arcobaleno di nastrini policromi sul petto: decorazioni di guerra, testimonianza di un valore messo alla prova, nastrino di Fiume azzurro giallo e amaranto, nastrino nero degli Arditi, scarlatto nastrino di Zara!.

E’ vero: andature, grida, canzoni, pugnali, capigliature, tutto è assai insolito. Davvero un colonnello inglese si scandalizzerebbe di soldati cosiffatti. Ma Gabriele D’annunzio non è un colonnello inglese, per fortuna!

 

Non molto diversamente si comporta, spesso, la pittoresca milizia che compone le prime squadre fasciste:

Ancora qualche tempo addietro si poteva sorridere al passaggio di una squadra di fascisti, qualche volta più umoristici che seri con i troppi distintivi e gli strani segni di cui erano ricoperti, dal capriccio personale più che dalla necessità di un simbolo.

E, in effetti, anche squadristi solitamente poco portati all’esibizionismo formale, come quelli della Disperata fiorentina, si fanno contagiare dal clima concorrenziale in fatto di simboli e divise; a novembre del 1921:

In questi ultimi giorni mettiamo a posto armi e divise. Sul petto ci sbattiamo un giglio rosso di Firenze, al collo della camicia nera inalberiamo due vistose fiamme bianche e, occupati come siamo in queste gravi occupazioni, non abbiamo posto troppa attenzione alle polemiche che imperversano sulla trasformazione del fascismo in Partito.

Va però detto che questo fascismo, anche se spesso adotta simboli tetri, ereditati dalla tradizione ardita e fiumana, ha sempre una carica vitalistica ed ottimistica. Così come per i canti, e a differenza di quanto accadrà nell’epilogo repubblicano, animato da una sorta di pessimismo fatalistico, gli squadristi del ‘19/22 si muovono in una prospettiva che, fra il consenso della pubblica opinione, lascia sempre più chiaramente intravedere la vittoria finale, prima nei ristretti ambiti delle singole province, poi su tutto il territorio nazionale.

I repubblicani del ‘43/45 sanno, invece, di avere poche o nessuna possibilità di successo; la loro è un tragica e coraggiosa testimonianza di fedeltà all’uomo, agli ideali, alla parola data all’alleato, fra la sostanziale indifferenza della gente, che spera solo nella fine, “comunque”, della guerra, anche se questa fine dovesse coincidere con la sconfitta.

Da qui certa cupa disperazione dei fascisti del ‘43, il loro aderire a miti e simboli funerei, cari ai “neri di tutt’Italia”, e la contemporanea mancanza, tra loro, di personalità emergenti, anche solo per doti combattentistiche – con l’eccezione di Borghese – , diversamente da quanto avviene durante il periodo squadrista, che è fucina di futuri dirigenti del Partito e del Paese.

Carica vitalistica, quindi, e avanti:

Le fotografie che ritraggono le squadre d’azione hanno una sorprendente analogia con quelle di squadre di calcio o gruppi sportivi in genere. La spedizione punitiva, anche se aveva come scopo quello di rompere la testa a qualcuno, per i partecipanti era spesso un’uscita con i compagni, un pretesto per fare del rumore, mangiare e bere senza pagare, e normalmente spassarsela. Lo spirito di queste riunioni è stato descritto in modo brillante (e non senza una certa simpatia) da Pratolini, nel suo romanzo “Lo Scialo”.

 

“Uscite con i compagni”  scanzonate ed allegre:

Ieri l’altra notte, tornando affamati dall’Aretino a notte alta, ho avuto la peregrina idea di portare a casa i compagni. I miei erano in campagna per qualche giorno; in casa erano rimaste solo le donne di servizio.

“Invece di andare al Fascio si va a casa mia, ci si riposa, si prende qualcosa e di lì si parte direttamente per il Mugello”.

Avevamo una gran fame… Ad Arezzo si era mangiato poco e male.

“Che ci hai qualcosa da darci?”

“Mah, un po’ di formaggio, della frutta secca e della marmellata”.

“Frutta secca ? Ma che, si coce un po’ di pastasciutta?”

Come potevo, padrone di casa, non assecondare il desiderio degli ospiti? Non trovando gli ingredienti, dovetti svegliare la cuoca. Dopo mezz’ora, ecco la pastasciutta.

“Manca il pane”

Bocca, premuroso, sale in camion, e dopo un po’ ritorna con una bracciata di pane bollente, levato allora allora dal suo forno. Ma, dopo la pastasciutta, tutti sentono necessità di un piatto forte, e quelle dodici bocche non si contentano del pecorino fresco, ma eccoli intenti ad aprire scatole di salmone, di tonno, di antipasti.

Due si bruciarono le dita perchè volevano cuocere delle patate sotto la cenere. Un salame fu visto e preso. Poi fu la volta del prosciutto, il celebre prosciutto di famiglia.

“Mi raccomando, va tagliato sottile” diceva sempre mio padre “e non va adoperato per condire; questo è di San Daniele, è una vera rarità”

Che questa fosse una rarità, lo capirono a volo anche i compagni, a giudicare dalla velocità con cui fecero sparire il mezzo prosciutto rimasto. Allora cominciai ad allarmarmi: “Dove si va a finire ?” pensavo tra me.

Ma furono ancora loro ad orientarsi magnificamente. E le provviste della frutta secca e della marmellata, sempre custodite gelosamente da mia madre, subirono una fiera devastazione. Poi si attaccarono al vino ed ai liquori.

“Queste bottiglie si devono durante il viaggio”.

Irma, la cuoca, li guardava spaventata e stupefatta. Poi, tutto il casamento fu messo sottosopra da un colpo di moschetto scappato al Nano, il vociare continuo che si alzava dalla sala da pranzo provocò altre inutili proteste.

Cucina e sala sembravano locali di una Cooperativa rossa devastata. Risalimmo in camion. Era l’alba quando ci dirigemmo verso Dicomano. Il freddo li indusse a stappare le bottiglie.

“Buono questo ! Senti ! Buono quest’altro”

Arrivai per un pelo ad afferrare il braccio di Renzaccio. Aveva portato alla bocca la bottiglia dell’acido muriatico.

Molte le testimonianze di queste scanzonate avventure, che non trovano esempio tra i racconti della sofferta “resistenza” che ci offrono gli avversari; Turati che è comunque piuttosto “atipico” come squadrista, darà, anni dopo, una descrizione “controcorrente”, anche se francamente esagerata e non pienamente rispondente al vero:

Quello che fin dall’inizio mi ha più colpito nel fascismo, è stata la mancanza del sorriso. Non so chi sia stato il regista delle prime manifestazioni, se cioè Mussolini o altri, ma è certo che quell’abbondanza di teschi ricamati sui fez e sulla camicie, quel prevalere di nero nelle divise, ha concorso a creare la parodia del tragico. Se si guardano le fotografie di venti anni fa, si trovano istantanee di gruppi fascisti che brandiscono pugnali e bombe, che agitano fiamme e gagliardetti, con motti di ardire e di violenza; nessuno sorride, quasi tutti hanno la faccia feroce.

Faccia feroce a bella posta per la foto, potremmo dire, che però non significa incapacità di ridere e di prendere la vita allegramente, anche se la lotta è dura e pericolosa; dirà Bonomi alla camera il 6 dicembre, riferendosi al periodo intercorso dalla fine della guerra ed al prepotente sviluppo del fascismo:

Quasi impaurito dalla violenza, esso si armò di violenza. In tutto questo periodo lo Stato è rimasto pressocchè assente, quasi soverchiato. La società italiana non potendo riprendere la sua forza vitale intorno allo Stato, la trovò intorno al Fascismo.

Oltre al dato della violenza avversaria, ammesso dallo statista, c’è quello dell’inferiorità numerica –almeno fino al “patto di pacificazione” che giustifica “facce feroci” e bellicosità di intenti, proclamata spesso in articoli e deliberati ferocissimi, intrisi di un linguaggio intransigente il cui leit motiv è sempre quello: “meglio una fine con violenza che una violenza senza fine”.

Aiuta, anche, il mito dell’invincibilità, come dimostra l’esempio degli Arditi in guerra; qui è lo stesso Stato Maggiore ad alimentare la leggenda, che ha trovato nell’ingenuo guasconismo degli interessati terreno fertile, con arricchimenti e coloriture talora discutibili.

Per esempio, non è affatto vero che tra essi molti siano gli avanzi di galera, feroci accoltellatori di professione, ma la voce circola, accolta con menefreghismo dagli stessi Arditi, che cantano:

Se giri tutta Italia, non trovi un lazzarone

Li ha requisiti tutti il Colonnel Pavone

Nelle patrie galere non ci son più banditi

Perché andaron tutti col Battaglione Arditi

Se volete far la guerra con dei bravi soldati

Andate al cellulare, prendete i carcerati

Se ha più di sei anni puoi farlo Caporale

Se è condannato a vita puoi farlo Generale

E, per calcare la mano, sui camion che li portano in prima linea, gli Arditi se ne vanno urlando, cantando e sparando in aria, quasi “ebri di gioia”, divertendosi a provocare l’irritato sgomento dei combattenti tradizionali

Lo stesso faranno, nel dopoguerra, gli squadristi:

Balbo e i suoi squadristi, molti dei quali erano reduci induriti dalla guerra, sapevano essere sanguinari e violenti. Erano convinti di essere impegnati in una guerra civile. Tuttavia, la loro reputazione è stata forse alquanto esagerata. Le spedizioni che finivano nel sangue e nel fuoco erano probabilmente più l’eccezione che la regola… Come sostenevano molti amici di Balbo, egli aveva un talento da “regista”; le sue spedizioni erano più spesso capolavori di bluff e di teatro che non operazioni militari. Quando i suoi uomini, ammassati su grossi camion BL 18, irrompevano in una piccola città per una missione, Balbo ordinava ai conducenti di fare scoppiettare il motore per simulare colpi di pistola. A volte, una prova di forza ben organizzata –la breve occupazione di una piazza o l’assedio notturno ad una Camera del lavoro- era sufficiente a terrorizzare e demoralizzare gli avversari.

Realtà e mito, quindi, si intersecano e sono destinati a durare nei racconti, nelle voci e nelle dicerie; quello del coraggio è uno dei motivi del successo fascista; dinanzi alla Commissione parlamentare per i fatti di Bologna, il Senatore Malvezzi “neutrale” tra le parti in causa, riconosce che le squadre fasciste:

…sono diventate popolarissime nelle città e nelle campagne, soprattutto perché sono state considerate come una valida difesa alle sopraffazioni. E’ piaciuto il coraggio di questi giovani, in una regione in cui si ha il culto del coraggio, come sono diminuiti nell’opinione pubblica alcuni capi socialisti che si sono dimostrati pavidi e paurosi.

Certo, temerari gli squadristi lo sono davvero; in genere, con la paura hanno poca familiarità, e la stessa inferiorità numerica non li impressiona più di tanto; qualche volta esagerano, come Farinacci che, arrivato a Grotta d’Adda, dopo il ferimento del segretario del Fascio locale, con altri due fascisti, viene circondato da una massa minacciosa:

Non ci preoccupiamo di essere solo in tre; fermiamo l’automobile, discendiamo e ci scaraventiamo contro la folla, menando nerbate all’impazzata. Ci prendono più per tre pazzi che per tre fascisti, ma il risultato è miracoloso; avviene il fuggi fuggi generale.

 

Gli squadristi non devono mai dimenticare di andare all’assalto di vere roccaforti avversarie; essi si cimentano in un’impresa che a tutti sembra impossibile: smantellare il colosso socialista e riportare il tricolore e l’idealità nazionale in paesi dove da mesi il rosso è il colore dominante, e nei quali essi sono descritti come barbari assassini.

Può anche capitare che queste munite roccaforti diventino per loro prigioni, come accade al Tenente degli Arditi, mutilato, Baroncelli, che viene fatto “prigioniero” nel corso di un’ azione nel Piacentino, e trattenuto nei locali della Cooperativa socialista, finchè sopraggiungono i suoi camerati a liberarlo.

Stessa sorte tocca a Giovanni Dell’Orto, comandante le squadre di Reggio Emilia, che è rimasto a Parma, con compiti informativi, dopo lo sgombero fascista: egli, munito di un’autentica tessera di Ardito del popolo, e vestito con abiti dimessi, si inoltra nell’Oltretorrente, ma viene fermato e rinchiuso in una cantina, per essere sottoposto a confronto con alcuni comunisti reggini.

Solo con un’audace fuga, alle prime luci dell’alba, riesce a cavarsi d’impaccio ed a riguadagnare la libertà.

Episodi simili confermano, ove ce ne fosse ancora bisogno, l’assoluta impotenza dello Stato, che nel primo biennio del dopoguerra aveva ceduto le armi, di fronte ad un sistema di contropotere basato sulla violenza, contro il quale ha sapore di sfida la sola presenza fisica di squadre di avversari decisi al contrasto.

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