21. Le armi al piede
Il 28 settembre si riunisce, per la prima volta, la Commissione, nominata dal Comitato centrale, per discutere la proposta di trasformazione dei Fasci di combattimento in Partito, da chiamare “Partito Fascista Italiano”.
Il Gruppo parlamentare si è già espresso in maniera favorevole, auspicando che il problema sia affrontato e risolto dal prossimo Congresso; l’auspicio è stato fatto proprio anche dalla Commissione esecutiva, finchè lo stesso Mussolini getta sul piatto della bilancia il peso della sua autorevolezza.
Il Partito è un gesto di coraggio, un segno di giovinezza e di vitalità, è un atto di fese. Dunque, facciamolo… La ragione fondamentale del Partito è questa: quando un movimento da contingente qual’era il fascismo del 1919 diventa Partito…
Si accendono, quindi, nelle file fasciste le discussioni e si susseguono le prese di posizione: non sempre chi è stato contro il patto è necessariamente anche contro la trasformazione, e così, tra gli intransigenti, sono, per esempio, a favore del Partito Farinacci, Calza Bini, Bastianini e De Stefani; contrari restano Grandi, Marsich, Bolzon, Giunta (che, però, era favorevole al patto).
Tira le somme Mussolini il 4 novembre: dalle dichiarazioni si può dedurre che circa l’80% dei Fasci è favorevole alla trasformazione, anche se tutti chiedono che l’organizzazione delle squadre rimanga; le idee restano confuse, e molti ritengono che l’adozione della forma Partito consenta di arrivare ad una spersonalizzazione del movimento:
…della qual cosa io in particolar modo mi compiacerò. Questo si voleva da taluni e questo deve accadere. E’ un’esperienza che bisogna fare.
Non più una testa, ma dieci e magari venti. Non più una responsabilità individuale – con relativi osanna e gloria e tradimenti – ma una responsabilità collettiva… Il Partito è soprattutto la “sistemazione interna” del movimento fascista.
Occorre anche definire il programma:
serio, concreto, fattibile, senza lasciarsi incantare dalle liriche utopie della Carta del Carnaro; finirà così lo spettacolo dei mille fascismi: liberale, nazionaldemocratico, e financo popolare; d’ora in poi ci dovranno essere solo dei fascisti.
Grandi ne fa anche una questione lessicale: su L’Assalto del 24 ottobre propone che la nuova organizzazione si chiami “Associazione Nazionale Fascista”, invece che “Partito”, termine svilito e compromesso; anch’egli, comunque, non esclude la permanenza dei Fasci di combattimento, visti come milizia cittadina e nazionale, organizzata e disciplinata, operante a fianco dei Sindacati nazionali, già potentemente attivi nella realtà del Paese.
Più modestamente Freddi, favorevole alla trasformazione, pensa, però, alla conservazione dell’organizzazione squadrista, sia pure con un ruolo subalterno:
Mantenere le nostre meravigliose squadre d’azione, in assetto di combattimento, con le armi al piede, e dirigerle verso un nuovo campo di attività: propaganda, sport, educazione, cultura; fare dei vivai, dove i nostri giovani possano coltivare i muscoli, il cuore e l’intelletto, per poi straripare in ogni ambiente.
Il dato mussoliniano dell’80% di Fasci favorevoli è, probabilmente, gonfiato, perché comprende tra i favorevoli anche quanti si sono dichiarati agnostici ed hanno preferito attenersi alle decisioni congressuali; infatti, tra settembre ed ottobre, molti Fasci fanno dichiarazioni in tal senso, confermando l’intenzione di rimanere “con le armi al piede”, disinteressandosi di tutto, anche di nuove eventuali intemperanze socialiste.
Questo perché, in attesa del Congresso, mentre continua la bufera poliziesca, si registra anche una sorta di freddezza, se non di vera ostilità, delle classi borghesi e dei moderati in genere verso il fascismo; il Fascio fiorentino fa affiggere, a fine settembre, un manifesto molto esplicito:
Pochissimi cittadini hanno sentito il dovere di esporre il tricolore per i tragici fatti di Modena, e nessun esercente ha chiuso il proprio magazzino, nemmeno per mezz’ora.
Di fronte all’ostilità palese e nascosta della cittadinanza, ed in special modo della borghesia ricca e gaudente che, fatte piccole ed ammirevoli eccezioni, fra tanti meschini pretesti rivela solo l’ingenuo egoismo della borsa, e che ha applaudito l’azione fascista, fino a quando essa coincideva con i propri materiali interessi, i fascisti dichiarano, formalmente, di ritirarsi fin d’oggi dalla lotta contro le forze disgregatrici della Nazione, dovunque si accentua il movimento rivoluzionario con tentativi di occupare le fabbriche e per portare a sacco i beni… La disconoscenza dell’opera nostra e la continua denigrazione a nostro carico, ci hanno decisi a rimanere con le armi al piede, ed a cedere completamente il campo ai partiti di ogni colore, i quali possono essere sicuri che, per parte mostra, non vi sarà alcuna rappresaglia.
Il Fascio interverrà unicamente alla difesa delle persone e degli interessi dei singoli fascisti e delle loro famiglie.
Fa eco il Fascio di Padova, in occasione di uno sciopero generale ai primi di ottobre:
Cittadini, i fascisti padovani, constatata l’apatia borghese, si appartano dalla lotta.
Bolscevichi, iniziando gli scioperi, ricordate di non toccare un gomito ad un fascista, altrimenti conoscerete più che mai il nostro bastone!
Concetti simili esprime il Fascio di Venezia e molti altri ancora: pronte ed asciutte le polveri, ma tutti fermi: se coloro che ieri hanno implorato l’aiuto fascista credono oggi di poterne fare a meno e riprendere le tresche con i vecchi nemici “ammorbiditi” dal manganello squadrista, facciano pure, ma si preparino ad assaggiare, a loro volta, le carezze di quel manganello.
In questo quadro di generale rimescolamento delle carte, tutto è rinviato al Congresso: gli squadristi comunque, sia pure con qualche scetticismo, si dicono in genere disposti ad accettare disciplinatamente le decisioni dell’Assemblea.
Si può, quindi, approfittare della pausa per dare un po’ d’ordine all’organizzazione; ci prova, per esempio, il Comando generale delle squadre d’azione per le province di Siena e Grosseto, che, in una circolare datata 20 settembre, dispone:
- il divieto di adesione per i minori di diciotto anni e per quanti giudicati inadatti per requisiti di fede e serietà;
- la fissazione in tredici del numero degli aderenti a ciascuna squadra, con l’eccezione dei capoluoghi di provincia, dove si può arrivare al numero di ventidue;
- la regola che, nel caso ci siano più squadre per ciascun Fascio, sarà una sola, la “Disperata” quella da impiegare nelle azioni più rischiose, mentre le altre avranno compiti di appoggio;
- l’individuazione di “zone di aiuto” tra i diversi Fasci.
Viene inoltre deciso che, in caso di richiesta di aiuto, le spese della spedizione saranno a carico del Fascio richiedente, per regolare in qualche modo la gestione delle scarse disponibilità finanziarie che impediscono spesso anche le stesse spedizioni, sostituite, in questo periodo di tregua, da pacifiche “passeggiate domenicali” le quali, senza alcun intento punitivo verso chicchessia, possono servire a far mantenere un’accettabile forma fisica agli squadristi.
Disposizioni vengono date anche per quanto riguarda l’uso dell’uniforme: è ormai quasi univoca la preferenza per la camicia nera, derivata dalla divisa ardita, ma forse anche dall’abbigliamento consueto dei contadini polesani, e che, nella fantasia futurista di Depero sarà:
…a prova superchimica e superguerriera, elastica nella casa, rigida nella cerimonia, imperforabile dalla mitraglia, cucita con i pugnali, abbottonata con i bulloni
22. “Voi dovete guarire del mio male”
Il congresso inizia a Roma, il 7 novembre, al teatro Augusteo; Mussolini ha scritto il 6 settembre alla Commissione esecutiva proponendo il Congresso a Milano e non a Roma, sostenendo che nella Capitale il clima è meno favorevole al fascismo, ma ben consapevole anche che da nessuna parte l’ambiente fascista è tutto schierato dalla sua parte come nel capoluogo lombardo; la proposta, però, non è passata.
Nei giorni del Congresso, si verificano incidenti in tutta la Capitale, a cominciare dalla stazione, dove, le squadre fasciste che arrivano, sono accolte con manifesta ostilità dai ferrovieri comunisti; viene proclamato lo sciopero generale, e solo la presenza tra i fascisti di gruppi di ferrovieri ferraresi, previdentemente precettati da Balbo, garantisce il regolare afflusso dei convegnisti.
Il “Comitato di difesa proletaria” coordina le iniziative socialcomuniste, e gli incidenti più gravi si hanno nel quartiere San Lorenzo, e nelle strade che circondano il teatro sede congressuale; all’interno, però, i lavori iniziano regolarmente, con il saluto di De Vecchi, eletto Presidente, a D’Annunzio, e con la relazione di Pasella, che si presenta dimissionario.
Il suo bilancio conclusivo è più che positivo: 2.200 Fasci costituiti, con 310.000 iscritti; di circa la metà di essi, Pasella fornisce anche un censimento: 13.878 i commercianti; 4.629 gli industriali; 9.981 i professionisti; 7.209 gli impiegati dello Stato, 14.989 gli impiegati privati; 1.680 i professori; 19.783 gli studenti; 1.506 i lavoratori del mare; 23.418 i lavoratori dell’industria; 36.847 i lavoratori della terra; 18.084 i proprietari terrieri ed i piccoli agricoltori.
Di comune accordo, l’argomento pacificazione viene accantonato, per evitare altre polemiche; Grandi e Marsich abbracciano Mussolini e sanciscono, così, la definitiva archiviazione dl problema, rasserenando il clima, già turbato dalle continue notizie di zuffe e aggressioni che arrivano in teatro.
Lo stesso Mussolini vi fa cenno, concedendosi una frecciatina agli intransigenti:
Il romano non è fascista né antifascista. E’ un uomo che non vuole essere scocciato o disturbato, ma se è scocciato il popolo e il popolino sono pugnacissimi. Non provochiamo, ma difendiamoci se attaccato. Se un romano porta un fazzoletto rosso, non c’è ragione di fare una spedizione punitiva… Coloro che dichiarano di essere pronti ad affrontare i moschetti delle Guardie Regie, si ricordino, nel caso, di essere i primi.
Inizia poi il suo intervento, nel quale liquida praticamente D’Annunzio, “uomo di genio”, ma inadatto alle cose della politica quotidiana; si conferma agnostico sul problema istituzionale, perchè è il regime “l’abito che deve adattarsi alla Nazione, e non già la Nazione che si deve adattare al regime”, e ribadisce la sua intenzione di defilarsi: “nella nuova organizzazione io voglio sparire, perché voi dovete guarire dal mio male e camminare da soli”.
L’avversario indicato dalle polemiche precongressuali è Dino Grandi: nel suo discorso ribadisce che la coscienza del Partito che nascerà deve essere “eminentemente rivoluzionaria”, contro le tentazioni parlamentaristiche, ed indica nella ”novità” del fascismo la chiave del successo:
Il fascismo è equidistante dal socialismo come dal liberalismo. Ambedue queste dottrine seguono oggi la loro fatale parabola, e stanno chiudendo il cerchio della loro non meno fatale storica decadenza
Seguono gli interventi di tutti i maggiori esponenti fascisti, mentre, dal giorno 9, i congressisti hanno l’ordine di non avventurarsi nella periferia cittadina a cercare incidenti, ma di restare all’interno dell’Augusteo, da dove muovono solo, la mattina del giorno seguente, per un grande corteo, che parte da piazza di Siena, con un concentramento di circa 30.000 fascisti.
Nell’insieme, è una manifestazione ordinata, turbata appena da qualche intemperanza degli squadristi toscani, che per questo, al loro rientro, saranno rimbrottati con una circolare da Perrone Compagni:
A Roma, l’iniziativa di alcuni squadristi di far togliere il cappello ai cittadini, senza tener conto né della stagione, né della lunga durata dello sfilamento, ha creato al PNF seri imbarazzi, per la qualità delle persone colpite, e per la reazione giustissima di cittadini che non intendono togliersi il cappello a dei gagliardetti sui quali è scritto “Me ne frego”.
Aldilà di questi episodi, il corteo vuole essere una prova di forza e di compostezza, nel tentativo – fallito – di sbloccare la situazione: a causa dello sciopero generale, la partenza degli squadristi procede a rilento, per completarsi solo nelle giornate del 14 e 15, con altri incidenti e vittime.
I fascisti oppongono al “Comitato di difesa proletaria” un loro “Comitato d’azione” composto, tra gli altri, da De Vecchi, Giunta, Marsich, Starace, Grandi e Bottai, che rivolge un indirizzo di saluto alla città, per smentire ogni preconcetta ostilità ma, nello stesso tempo, denuncia le provocazioni avversarie e la pretestuosità di uno sciopero generale, voluto solo con l’evidente scopo di provocare nuove violenze.
I dati ufficiali parlano di sei morti, quattordici feriti gravi e un centinaio di feriti leggeri, ma la Segreteria dei Fasci denuncia anche la “sparizione” di alcuni squadristi, che la voce popolare vuole vittime dei “fornaciari”.
Da un punto di vista politico, com’era prevedibile, il Congresso si risolve con una personale affermazione di Mussolini; se, all’inizio, egli aveva dichiaratamente dalla sua parte solo il 30% circa dei congressisti, nel corso delle infuocate giornate romane conferma di essere l’unico capace di guidare il movimento, avvantaggiandosi dei chiari limiti degli avversari interni.
La prospettiva squadrista e sindacalista esce battuta dall’assise; nelle giornate romane c’è addirittura chi pensa che con 30.000 fascisti presenti nella Capitale, sia possibile anche tentare un fulmineo colpo di mano, ma è lo stesso Mussolini a fugare ogni velleità, incanalando ogni ardore nella dialettica dei discorsi dal palco.
Gli incidenti fuori del teatro contribuiscono all’accantonamento di una vera discussione, e veramente l’abbraccio che chiude le polemiche dell’estate è “emblematico di una certa situazione e di un certo ambiente”.
I grossi problemi messi sul tappeto alla vigilia consono stati risolti; è, piuttosto, prevalso un clima di compromesso e di sostanziale ambiguità, nel quale ognuno dice la sua, convinto di avere maggior credito nella base, che influenzerà i successivi sviluppi del movimento e ne costituirà il primo, vero, elemento di debolezza.
Il fascismo rimane il “Partito degli eretici”, ma, nell’elenco che fa Missiroli per giustificare questa qualifica, c’è qualche “eretico” di troppo:
Nei quadri del fascismo, si raccolgono gli eretici di tutti i gruppi che si contendono la posta del potere: nazionalisti, cui il dogmatismo del Partito nazionalista toglierebbe il respiro; democratici ai quali pare una sistematica rinuncia la coscienza dei limiti, e un segno di vecchiaia la serena e pacata visione dei destini dell’umanità degli imperativi della giustizia contro i quali la Patria non può essere mai felice; liberali, che non sanno scegliere tra il conservatorismo che chiama Patria l’interesse di classe, e il superiore scetticismo dello Stato, che attua l’idea liberale nell’incessante superamento del provvisorio e dell’individuale, mercè un’opera di mediazione, che compone le antitesi delle classi e degli interessi; repubblicani, che l’ultima vittoria monarchica obbliga a tenere l’ideale mazziniano mortificato e sepolto nell’anima socialista che con si rassegnano a rinnegare la Patria; e poi la schiera innumerevole dei giovani, che ardono dal desiderio di agire, di operare cose grandi, in ragione diretta della loro immaturità, della loro incapacità di pensare.
Per evitare ogni accusa di ipocrisia e doppiogiochismo, il Popolo d’Italia del 15 novembre dichiara decaduto ufficialmente il patto di pacificazione; è, però, soprattutto un atto formale, perchè indietro non si torna, e la strada intrapresa dal movimento è quella della normalizzazione mussolinina.
Il giorno 19, Miche Bianchi viene eletto primo Segretario del PNF, e il Comitato centrale approva un ordine del giorno che:
…in seguito alla denuncia formale del trattato di pacificazione, invita tutti i Fasci a controllare le azioni dei singoli iscritti, e ad impedire gesta di violenza che non rappresentino un caso di legittima difesa, o la necessità di rintuzzare, con la massima energia, attacchi degli avversari o attentati alla vita della Nazione.
Contemporaneamente, viene deliberato di procedere alla costituzione di un Ispettorato generale delle squadre di combattimento, con il fine pratico di istituzionalizzarle e regolamentarle, per prevenire, per quanto possibile, ogni iniziativa autonoma ed estemporanea; il manifesto al paese lanciato nei giorni successivi dirà, infatti:
Noi siamo una milizia volontaria posta al servizio della Nazione. Siamo con lo Stato e per lo Stato tutte le volte che essi si dimostrerà geloso custode e difensore e propagatore della tradizione nazionale, del sentimento nazionale, della volontà nazionale, capace di imporre a tutti i costi la sua volontà.
Ci sostituiremo allo Stato tutte le volte che esso si manifesterà incapace di fronteggiare e combattere, senza indulgenza funesta, le cause e gli elementi di disgregazione interna dei principi di solidarietà nazionale. Ci schiereremo contro lo Stato qualora esso dovesse cadere nelle mani di coloro che minacciano e attentano alla vita del Paese. L’Italia innanzitutto, l’Italia soprattutto.
Mussolini intende andare diritto, e lo dimostra subito, in occasione di due episodi che, se solo accaduti qualche settimana prima, sarebbero probabilmente passati sotto silenzio, senza provocare alcuna particolare reazione.
A Trieste, il 24, viene ucciso un tipografo sovversivo, e a Cremona, tre settimane dopo, muore il vicepresidente della Deputazione, il socialista Bodoni, colpito in una zuffa con due bastonate da uno squadrista sedicenne.
Ebbene, la reazione mussoliniana è furibonda: con un telegramma perentorio, riconoscendo alla categoria professionale alla quale apparteneva il caduto particolari doti di serietà ed equilibrio,chiede spiegazioni al Fascio triestino, che è invitato a scindere le sue responsabilità da quelle dell’autore materiale dell’atto, e ad “accedere al criterio di quelle eventuali riparazioni che fossero chieste dai tipografi”.
Giunta non può che aderire alla volontà di Milano:
C’è un morto disteso a traverso la strada. Non è nostro, non è degli “altri”, non è di nessuno, è di sua madre soltanto… Ora soltanto che la tempesta è passata, e gli animi hanno deposto la passione, noi ci fermiamo a riguardare il morto. Ora soltanto che la battaglia è conclusa, il nostro rimpianto ci sembra sincero. E vestiamole gramaglie e andiamo a capo chino in cospetto della madre a chiedere il suo perdono, per coloro che furono vittima del fato e dell’errore.
A Cremona, invece, si precipita il Vicesegretario nazionale del PNF, Teruzzi, con l’incarico di accertare e punire eventuali responsabilità dei dirigenti fascisti locali, dando, così, un altro colpo alla credibilità di Farinacci, che è uscito piuttosto ridimensionato dal Congresso di Roma, escluso da ogni carica nazionale, e sostanzialmente costretto all’emarginazione nella sua provincia.
Nell’aria circola, inoltre, la voce di una prossima iniziativa repressiva del Governo nei confronti dei Fasci; Mussolini si diverte, il 1° dicembre, a fare della fantapolitica in un discorso alla Camera:
Un quotidiano martellamento di polizia contro fascisti e comunisti potrebbe condurre ad un’intesa fra loro… salvo poi a lottare per la divisione del bottino. Del resto, fra noi e i comunisti ci sono affinità intellettuali, non politiche! Voi giungete all’autorità dello Stato attraverso il concetto di classe, noi attraverso quello di nazione!
E’ solo una boutade; contro le iniziative del Governo che, a quanto si dice, mireranno principalmente allo scioglimento delle squadre, sono più utili provvedimenti concreti, come quello preso da Bianchi:
Sezioni del Partito e squadre di combattimento formano un insieme inscindibile. A datare dal giorno 15 dicembre 1921, tutti gli iscritti alle Sezioni fanno parte delle squadre di combattimento, le quali, come da Statuto del Partito, sono costituite all’unico scopo di arginare le violenze degli avversari, e di essere in grado di accorrere, a richiesta dei dirigenti,in difesa dei supremi interessi della Nazione. Lo scioglimento delle squadre di combattimento risulterà pertanto praticamente impossibile, se prima il Governo non avrà dichiarato fuori legge il PNF in blocco.
Il 24 dicembre, puntuale, arriva la prevista circolare di Bonomi, che dovrebbe definitivamente liquidare il fenomeno squadrista: dopo aver constatato che l’attività criminosa delle fazioni è grandemente diminuita in moltissime regioni, essa prescrive il generale disarmo, da realizzarsi con il ritiro dei porto d’armi concessi in passato, soprattutto per chi è impegnato in politica, e con il sequestro delle armi proprie ed improprie; viene, inoltre, stabilito un premio in danaro agli agenti sequestratori, ed è ribadita la proibizione di Corpi armati, ai quali vanno sequestrati sedi ed armi, ed i cui componenti devono essere denunciati all’Autorità giudiziaria.
E’ un’indicazione precisa di una volontà politica, determinata come forse mai fino ad ora; gli squadristi si sentono presi in una morsa: da una parte la repressione di Bonomi, dall’altra la volontà normalizzatrice di Mussolini.
Il 20 dicembre, il Consiglio nazionale, riunito a Firenze, dà un altro colpo allo spontaneismo squadrista: i Segretari politici non saranno più eletti dai Congressi provinciali, ma dal direttorio di Federazione, con un “filtro” moderato agli umori diretti della base squadrista.
Non basta: occorre anche ricondurre nei giusti limiti certe intemperanze squadriste che hanno ripreso a manifestarsi qua e là, non più in funzione antisocialista, ma antistatale, con mai sopite venature anarco-rivoluzionarie; nella bassa Parmense, per esempio, a novembre, per protestare contro gli arresti e le persecuzioni sbirresche, gli squadristi occupano le piazze, interrompono le vie di comunicazione, tagliano le linee telegrafiche, abbattono le spallette di alcuni ponti.
E’, nelle intenzioni degli organizzatori, lo “sciopero fascista”, senza limiti di tempo; ci pensa Teruzzi, inviato anche qui dal Comitato centrale in veste di normalizzatore, a trasformare lo “sciopero” in una più tranquillizzante e consueta “mobilitazione”, forte anche dell’ “aspro richiamo” del capo di Milano:
Questo, cari signori, significa fare del pussismo a rovescio: questo dimostra che le parole tonanti di patriottismo sono ventose espressioni vaniloquenti e nulla più.
Finisce il 1921, anno “bifronte” che, nel primo semestre mette le premesse della vittoria del fascismo, ma nel secondo pone le fondamenta della sconfitta squadrista:
Fin dal 1921, quando il Partito soffocò il movimento, si crebbe in brutale forza e si decadde in nobiltà di sentimento. La folla entrò in gioco colla sua devozione cieca, la sua buona fede fanatica, preparando così l’avvento di qualche dittatura autoritaria e di molti pretorianismi arbitrari. La necessità dell’azione serviva di copertura ai maneggi di alcuni fascisti di secondo bando… L’opera fraterna rivoluzionaria cominciò, fin d’allora, a essere contrariata di disaccordi, di rivalità, di eccessività, di accaparramenti e di privilegi personali, di satrapismi provinciali. Il pompierismo degli Onorevoli cominciò allora, e il piccolo gruppo medagliettato si considerò d’amblè un vero Stato Maggiore, e il Partito genuino dovette subire tutti gli umori dell’ingiusto monopolio, accapparrato ormai da un regime non fascista.
Legalismo ed illegalismo si accapigliarono spesso, con grave danno dell’unità spirituale e del metodo: legittimisti vollero più volte consegnare alla Benemerita gli scamiciati, salvo rivestirsi della loro gloria, quando qualcheduno di questi irregolari combinava qualche buon colpo.