9. L’esercito degli scalzi
La prima città ad essere occupata militarmente dalle squadre, è Ferrara, dove, il 12 maggio, convergono circa 60.000 uomini, provenienti da tutta la provincia, che isolano il capoluogo dal resto del Paese, tagliano i cavi telefonici, presidiano gli ingressi.
Balbo ha organizzato le cose con meticolosità e precisione, prevedendo tutto, dai luoghi di deposito delle biciclette degli squadristi provenienti dal contado, alle tessere speciali di riconoscimento per staffette e portaordini; ha anche disposto che i convenuti portino con sé pane e viveri a sacco, con una tazza ogni tre o quattro persone.
Alla vigilia dell’azione viene sciolto il Direttorio del Fascio cittadino e della Federazione provinciale, tutti i poteri passano a Balbo, comandante delle squadre d’azione, così che la mattina del giorno fissato si presenta alle porte della città l’“esercito fascista”:
Spettacolo pittoresco. Il bracciante ferrarese incolonnato e col suo mantello, qualcuno con la coperta sulle spalle. A tracolla un tascapane con fette di polenta e pezzi di formaggio. Aspetti emaciati dalle privazioni, visi anneriti dal sole ed induriti dalla polvere, ma fiduciosi ed entusiasti. Effetto straordinario della marcia all’alba: piedi mal calzati. Spettacolo commovente: l’esercito degli scalzi.
I rurali sfilano per la città, con il loro passo lento e pesante di campagnoli, spesso con gli abiti a brandelli “come un vecchio Corpo d’Armata di territoriali in raccoglimento”, e al pomeriggio assistono ad un grande comizio, stretti in quadrati, con quattro diversi oratori che parlano da quattro punti diversi della stessa piazza.
Lo scopo della mobilitazione è quello di ottenere dal Governo, e quindi dal Prefetto, assicurazioni non vaghe ed impegni precisi sulla realizzazione di lavori pubblici nella provincia, che sembrano essere, di fronte alla grave crisi occupazionale in atto, l’unica strada da seguire per garantire la sopravvivenza ai disoccupati.
A capo del movimento ci sono anche Gattelli e Rossoni, ma è Balbo a tirare le fila: si dice pronto ad occupare la Prefettura ed a protrarre a tempo indeterminato lo sciopero fascista proclamato in città, se entro quarantotto ore non avrà soddisfazione.
Solo dopo che il 14, a seguito di colloqui romani tra esponenti fascisti e rappresentanti del Governo, sono state ottenute precise garanzie sull’inizio dei lavori, la massa fascista smobilita: l’occupazione ed il positivo risultato raggiunto in sede politica confermano, agli occhi delle classi lavoratrici, la grande capacità di pressione ormai raggiunta dai Sindacati fascisti.
Il fatto poi che si sia puntato sulla carta dei lavori pubblici e non sui consueti pannicelli caldi dei provvedimenti assistenziali, è in piena coerenza col motto fatto proprio dai dimostranti: “Chi ha fatto la guerra ha diritto alla vita! Vogliamo lavoro e non sussidi umilianti!”
Diversi sono i motivi che determinano l’occupazione di Bologna, iniziata il 27 maggio: bersaglio della protesta squadrista è qui il “superprefetto” Mori, che, da un canto non è capace di porre un freno alle violenze cittadine (nella notte tra il 25 e il 26 viene ucciso lo squadrista Celestino Cavedoni, segretario del Fascio di S. Viola, pluridecorato al valore), e dall’altro ha disposto, iniquamente, il divieto di libera circolazione di manodopera bracciantile nella provincia.
La battaglia contro il monopolio leghista della manodopera è stata una dei punti di forza della propaganda e della battaglia fascista: un provvedimento come quello adottato da Mori che, di fatto, ricrea i presupposti per riportare le cose allo stato in cui erano nel biennio rosso, appare più che una gratuita provocazione.
La reazione è quindi decisa e assolutamente giustificata, come sottolineerà Rossoni al Congresso delle Corporazioni che si terrà da qui a qualche settimana a Milano:
Perché si è occupata Bologna? Per un dispetto al prefetto socialistoide? Amici miei, poliziotto più, poliziotto meno, in Italia la questione non cambia. Siamo andati a Bologna con tutte le nostre forze non per difendere il Fascio dagli attacchi del fronte unico, ma per difendere la libertà di organizzazione, perché, mentre le forze maggiori della provincia di Bologna sono nostre, come altrove, non più tardi di due settimane fa i socialisti hanno avuto il coraggio di mettere fuori un patto del lavoro col quale non solo volevano il monopolio del collocamento della manodopera, ma addirittura ipotecavano la proprietà con una specie di collocamento ereditario.
Contro l’appoggio dato da Mori a queste manovre, il Fascio bolognese ha reagito da tempo, appoggiato dalla maggior parte della popolazione, praticamente tagliando i ponti con la Prefettura, della quale non riconosce più l’autorità e che, isolata dal contesto cittadino, vive così un momenti difficile.
Quando poi si decide di passare all’azione diretta, il 26 maggio, il Direttorio cittadino e quello provinciale si dimettono, dopo aver ceduto i poteri ad un “Comitato d’azione”: le giornate in città passano nervose, alcune sedi sovversive sono devastate, si lamenta un gran numero di arresti tra gli squadristi, che giornalmente di scontrano con la forza pubblica.
In città arriva Balbo, ormai riconosciuto capo militare del fascismo, che, forte dell’esperienza ferrarese, organizza anche qui al meglio le cose: sciopero fascista nel capoluogo, blocco di tutte le attività, forte presidio squadrista a palazzo D’Accursio, allo scopo di bloccare fisicamente il Prefetto nei suoi uffici.
Gli squadristi di fuori provincia si alternano in turni di trenta ore, dormono all’aperto, sulla paglia, e consumano il consueto rancio militaresco; nei bivacchi a mezzanotte suona il silenzio, all’alba la sveglia, mentre durante la notte circolano in città delle pattuglie armate che mantengono l’ordine pubblico.
Rispetto a Ferrara, dove l’occupazione è stata assolutamente indolore, senza il minimo incidente, qui c’è, invece, il contorno di episodi “animati”, anche se per lo più incruenti, con lanci di petardi e zuffe con le forze dell’ordine; lo stesso Balbo, in più di un’occasione corre il serio rischio di raggiungere i più di sessanta squadristi carcerati a S. Giovanni in Monte, che hanno costituito all’interno del reclusorio il “gruppo detenuti fascisti” e lo hanno spiritosamente invitato alla formale inaugurazione.
Il 29, di fronte alla situazione di stallo, la segreteria del PNF ordina la mobilitazione di tutti i fascisti della provincia, e Bianchi, nella sua qualità di segretario del Partito trasferisce “fino a lotta ultimata” la sua residenza nel capoluogo in rivolta: tutti i Fasci del circondario sono sciolti, e i poteri passano nelle mani dei “Comitati d’azione” segreti, che provvedono ad isolare Bologna col taglio dei fili telefonici e telegrafici.
Il Governo reagisce a sua volta, cedendo i pieni poteri all’Autorità militare, e tutto resta fermo, finchè, il 2 giugno, interviene personalmente Mussolini, con un telegramma che ordina la smobilitazione, anche se non è stato ottenuto il richiesto allontanamento di Mori, ma semplicemente l’invio in città del Direttore generale della Pubblica Sicurezza Vigliani, e la liberazione dei fascisti carcerati.
Una soluzione di cauto compromesso, quindi, e un intervento di mediazione quello di Mussolini, che cerca di indorare la pillola col suo telegramma a Balbo e Grandi:
La vostra meravigliosa disciplina farà epoca nella storia d’Italia. Obbedendo oggi conquisterete il diritto di comandare domani, per le maggiori fortune della Patria. Vi abbraccio tutti, capi e gregari.
La disciplina e l’obbedienza dimostrata dai responsabili dell’azione sono, senz’altro, un punto a favore di Mussolini, ma, del fatto, che vede per la prima volta con tanta imponenza e decisione i fascisti schierati contro la autorità dello Stato, si continua a parlare nel Paese, tanto che egli stesso ritiene di far cenno al dibattito con un articolo su Gerarchia:
Il fascismo è un movimento di restaurazione dell’autorità dello Stato, o di sovvertimento della stessa autorità? E’ ordine o disordine? Come si concilia il suo proposito, reiteratamente proclamato, di voler restaurare l’autorità dello Stato con la sua azione che prende a bersaglio i rappresentanti massimi di codesta autorità? Si può essere e non essere…
Si può essere conservatori e sovversivi al tempo stesso? Come intende uscire il fascismo dal circolo vizioso di questa sua paradossale contraddizione?…
Non v’è dubbio che fascismo e Stato sono destinati, forse in un tempo relativamente vicino, a diventare una “identità”. In qual modo? In modo legale, forse, il fascismo può aprire la porta con la chiave della legalità, ma può anche essere costretto a sfondare la porta col colpo di spalla dell’insurrezione.
A dare un brutto colpo alle tentazioni legalitarie, ci pensa Farinacci, che, per non essere da meno di Balbo e Grandi, occupa Cremona, il 12 luglio, per risolvere, a modo suo, una situazione che da qualche mese in città è piuttosto tesa, per le iniziative unitarie, in senso antifascista di popolari e socialisti.
I due gruppi, il 10 marzo, sottoscrivono un patto di reciproca difesa che però non preoccupa minimamente i fascisti i quali anzi, sapendo di poter anche contare sull’appoggio della maggioranza della popolazione, passano al contrattacco e, nel tentativo di mettere in difficoltà e provocare le dimissioni dell’amministrazione comunale, il 18 marzo proclamano lo “sciopero fiscale”, che consiste nel rifiutarsi di pagare le imposte comunali.
Nel contempo, in sostegno alla manovra, ostacolano la convocazione dei Consigli comunale e provinciale, retti dai socialisti, ed invitano i negozianti alla serrata; il 16 maggio lo stesso Farinacci invade l’aula del Consiglio provinciale e chiede di parlare, in quanto “quarantunesimo consigliere” perché Parlamentare eletto nella provincia.
Richiesta evidentemente pretestuosa ed infondata, più della stessa conclamata sopravvenuta non rappresentatività del Consiglio, che pure, in effetti, non risponde più alle vere proporzioni di forza nella provincia; lo sottolinea il leader squadrista nell’intervento che, comunque, riesce a tenere:
Nessun provvedimento può essere preso da questo Consiglio provinciale. Voi, signori, socialisti e popolari, non rappresentate più nessuno, perché i vostri elettori sono passati in massa al fascismo.
Finisce, naturalmente, a spintoni, con l’allontanamento violento di Farinacei, ed il lancio dalle tribune, occupate dai fascisti, di grosse pallottole di carta che, scambiate per bombe, provocano la chiusura accelerata della riunione.
Dopo la Provincia, tocca al Comune: il 3 luglio Farinacci, con due suoi seguaci, contando sul fatto che Sindaco ed amministratori “…amministrano da casa, dando ordini telefonici al segretario comunale Ferrari”, occupa il Municipio, fa sventolare il gagliardetto fascista dal balcone, e, seduto dietro la scrivania del Sindaco, indirizza un provocatorio telegramma al Prefetto:
Per la dignità di Cremona, quale già rappresentante in Parlamento di questa città, mi sento in diritto e in dovere di rimanere in Comune fino a quando la S.V. illustrissima non avrà provveduto ad inviare un Commissario prefettizio designato e voluto da tutti i cittadini.
Quella che è iniziata come una burla, ha, però, un risultato insperato: il Prefetto Guadagnino, consapevole dell’appoggio che l’azione fascista ha in città, ed anche allo scopo di riportare l’ordine in maniera indolore, aderisce all’ultimatum, e nomina un Commissario, andando incontro alle ire di Facta che, da Roma, si irrigidisce ed ordina invece l’immediato ripristino della situazione quo ante.
A questo punto il Direttorio fascista, secondo una tecnica ormai nota, si dimette e passa il comando ad un Comitato d’azione che, però, qui più che altrove è un vero bluff: “naturalmente, è Roberto Farinacci che passa il comando a Farinacci Roberto”; la situazione non sembra progredire, si verifica qualche incidente, un tentativo di occupare la Prefettura viene sventato con un compromesso.
Il Governo sembra intenzionato a fare sul serio, per nulla intimorito: due Battaglioni di fanteria vengono inviati a Cremona, con il preciso compito di ristabilire l’ordine; gli oltre quattromila squadristi che occupano la città, però, sventano la manovra e accolgono fraternamente i soldati, così che Farinacci può telegrafare a Roma:
Cremona non in rivoluzione, ma in fervida attesa di essere liberata infausta Amministrazione, ammantata tricolore, inneggiante Esercito, reclama migliore comprensione, maggiore rispetto da parte Governo.
E’ quello che vuole Mussolini: raggiunge anche in questo caso, come per Bologna, un compromesso con le Autorità centrali, ottiene per Cremona un Commissario pro tempore, con poteri di Sindaco, e scrive due lettere a Farinacci, una, da rendere pubblica, che ringrazia gli squadristi per la loro azione e, nel contempo, ne ordina la smobilitazione; l’altra, privata, che in termini più energici si rivolge direttamente al capo squadrista:
E’ necessario sospendere l’azione perché gli scopi sono raggiunti. Proseguendo diventerebbe dannoso per noi. Diramerai, quindi, alle nostre milizie il seguente proclama. Non posso dilungarmi. E’ maglio dare ancora una volta spettacolo di disciplina e non forzare le situazioni, in modo da non cacciarci in un vicolo cieco senza uscita. Abbracci.
Farinacci obbedisce, “come il più umile degli squadristi”, senza rendersi ancora conto dell’importanza che verrà ad assumere un episodio apparentemente marginale accaduto durante le cinque giornate di occupazione, quando alcuni fascisti, “a passo di corsa”, hanno devastato la casa paterna del “disonorevole” Miglioli, Parlamentare popolare che hanno in speciale antipatia.
Sono andate distrutte alcune sedie e qualche tavolo, minimizzano gli squadristi, che anzi, per soprappeso, ci mettono pure lo sfottò, e, esagerando i danni, sull’aria di “Mimosa”, cantano:
Miglioli, Miglioli
Quanta malinconia nel tuo fuggire
Avevi una casetta
E l’han bruciata
Non hanno, invece nessuna voglia di ridere i popolari che, per protesta, provocano la crisi e le dimissioni del Governo Facta, accusato di debolezza verso i fascisti e accreditano le voci di un nuovo Governo, con la partecipazione anche dei socialisti, che sbarri definitivamente la strada al movimento mussoliniano.
L’ipotesi trova anche il consenso di strati non insignificanti di borghesia, di quella borghesia che prima vedeva nel socialismo il diavolo da ricacciare nell’inferno, ed ora in quello stesso inferno vuole spingere gli irrequieti fascisti che in alcune località, come a Siena, vanno prendendo iniziative che troppo da vicino ricordano i loro avversari sconfitti.
Nel capoluogo toscano, il 9 luglio, la Federazione fascista ordina infatti l’occupazione di alcune tenute di proprietari che hanno rifiutato di dare lavoro a dei disoccupati; dopo qualche giorno, a Quartesana, paese natale di Balbo, una ventina di squadristi danno fuoco alla locale sede del Fascio, accusato di collusione con gli agrari.
Sono segnali che preoccupano ed impongono, da parte del vertice del movimento, l’immediata ripresa di gesuitiche manovre tese ad imporre una linea moderata, gradi ai vecchi e buoni “amici” non disinteressati, come “Il Giornale d’Italia”, che commenta i fatti di Cremona:
Veramente sarebbe tempo che i fascisti se ne stesero un po’ tranquilli e non venissero con le loro gesta inopportune ad ingarbugliare una situazione politica abbastanza delicata: noi siamo benevoli verso i fascisti … ma, appunto agli amici va detta la verità. E la verità è questa: che l’on. Modigliani avrebbe perfettamente ragione di mandare, all’uso meridionale, i caciocavalli a casa dell’on. Farinacci.
E’ un’ulteriore prova dell’incomprensione, reale o strumentale, del fenomeno fascista: per gli squadristi, è indifferente se Modigliani sarà oppure no nel nuovo Governo, così come completamente indifferenti rilascia il “fatto nuovo” che Turati, a fine luglio, in occasione della crisi parlamentare, si rechi a fare visita al Re.
Per loro, anzi, sarà meglio se i socialisti entreranno a far parte del nuovo Governo: sarà un modo per unificare l’obiettivo dell’azione, oggi ancora su due fronti, e sgombrare il campo da ogni disastrosa ipotesi di un “governicchio” con l’appoggio del gruppo parlamentare fascista.
Nel frattempo, continua “l’arrembaggio” alle superstiti Amministrazioni socialiste; non è sempre necessario fare ricorso alla forza; in qualche caso si può anche salvare la “forma”, come a Quattro Castella:
PNF, Quattro Castella, dalla nostra sede 6 agosto 1922
All’ onorevole Amministrazione comunale di Quattro Castella:
Per raggiungere quello stato di pacificazione degli animi che ponga in grado i cittadini di giudicare della saggezza dei programmi propri dei partiti in cui si dividono ed operare, questo Fascio di combattimento, sezione del PNF, col rispetto dovuto ai membri di codesta onorevole Amministrazione, chiede alla medesima le dimissioni, ispirandosi al benessere comune, e a quella serenità che accompagna sempre e ovunque l’opera del PNF.
In tale occasione voglia codesta onorevole Amministrazione gradire il saluto che si deve a chi scende dall’alto seggio del Comune per misurarsi con le armi civili nel campo della generale cittadinanza.
Per il Comitato segreto d’azione, firmato Bertolini.
10. L’intimo tormento
Chi ha chiara la realtà fascista è Mussolini: alla Camera, il 19 luglio, in occasione della dichiarazione di sfiducia a Facta, che coincide con il suo ultimo discorso da Deputato, dice:
Il fascismo risolverà questo suo intimo tormento, dirà, forse fra poco, se vuole essere un Partito legalitario, cioè un Partito di Governo, o se vorrà invece essere un Partito insurrezionale, nel qual caso non potrà fare più parte di una qualsiasi maggioranza di Governo, ma, probabilmente non avrà neppure l’obbligo di sedere in questa Camera. Questo, che io ho chiamato equivoco fascista, sarà risolto dagli Organi competenti del nostro Partito.
L’intimo tormento, in realtà, gli squadristi lo avrebbero già risolto, con la scelta della più rischiosa via insurrezionale, mentre Mussolini finge di non capire e demanda all’apparato, sul quale sa di avere maggior potere ed influenza, la decisione finale.
Una chiara indicazione, se solo la si volesse accettare, emerge, in luglio, dallo svilupparsi di tutta una serie di iniziative locali che, di fatto, pongono le premesse della Caporetto socialcomunista di agosto: comincia il Mezzogiorno, dove ad Andria, popolosa cittadella rossa per eccellenza, dopo le violenze e gli incidenti provocati dai sovversivi, in occasione dello sciopero generale di fine aprile, la situazione si è andata aggravando, in un crescendo di scontri e provocazioni tra le parti in conflitto.
Il 1° luglio viene ucciso lo squadrista Nicola Petruzzelli: i fascisti allora, che sono riuniti in Congresso a Bari, decidono di spostarsi ad Andria, guidati da Starace e Caradonna, e, ivi giunti, con l’impiego anche di squadre a cavallo, invadono la Casa del popolo e la Camera del lavoro, passano tutti i poteri nelle mani di un loro “Comitato segreto d’azione” e bivaccano per vari giorni nella cittadina, finchè non arriva l’ordine di porre fine all’occupazione.
Il 16 inizia l’occupazione di Novara, che si sviluppa con tutta una serie di operazioni di “redenzione” nella provincia, ancora poco penetrata dalla propaganda fascista, che fanno di questa occupazione, anche per i suoi contenuti di violenza e per il numero di vittime che ci sono, un caso anomalo nel panorama del periodo, molto simile alle vecchie spedizioni del ’21.
Tutto comincia il 7 luglio, con l’assassinio, ad opera di sette comunisti, del fascista Angelo Ridoni, intervenuto in difesa di un ragazzetto, al quale era stato imposto di togliere il distintivo tricolore dal petto; segue una prima reazione fascista, con assalti e circoli e leghe locali, e la controreazione sovversiva, con la proclamazione dello sciopero, nel corso del quale si verificano nuovi incidenti e zuffe.
In città affluiscono, “anelanti alla lotta”, comunisti provenienti in particolare da Torino, Alessandria e Milano, che si vanno ad aggiungere agli oltre duemila Arditi del popolo del posto che, il 1° maggio, inquadrati militarmente, hanno minacciosamente sfilato per Novara.
A Novara cominciano allora ad arrivare anche squadristi provenienti da altre zone, ma con una certa lentezza, spesso in treno, a piccoli gruppi; alcuni, impegnati in un giro di propaganda nei paesi della provincia, vengono duramente bastonati a Lumellogno, provocando, per ritorsione, una spedizione punitiva sul paese.
L’azione è, però, male organizzata e peggio eseguita: con una corriera di linea ed un’auto, arrivano a Lumellogno una trentina di squadristi , senza prendere alcuna precauzione, che cadono così in pieno nell’imboscata tesa da centinaia di leghisti che provoca un morto, finito a bastonate, tra i fascisti che invano cercano di farsi largo a pistolettate, e due caduti tra gli assalitori.
Ai molti feriti in camicia nera viene rifiutata l’assistenza, e, solo a tarda sera la battaglia termina con la loro ritirata.
L’episodio accresce l’esasperazione in campo fascista: giungono a Novara De Vecchi, Ezio Maria Gray e Gigi Lanfranconi, che si scontrano subito con il Prefetto; il fatto poi che agrari ed industriali stiano cercando di raggiungere un’intesa con gli scioperanti, riscalda gli animi degli squadristi, che se ne vanno in giro per la cittadina provocatoriamente cantando insieme inni fascisti e socialisti.
Nel contempo, i comunisti provenienti da fuori Novara danno battaglia, e uccidono, in piazza Cavour un fascista; per reazione, viene assalita e distrutta la Camera del lavoro, mentre svanisce ogni possibilità di ristabilire l’ordine in città.
Lo sciopero generale viene esteso a tutta la provincia, mentre gli squadristi, aumentati a loro volta di numero, passano all’azione un po’ dovunque: oltre quaranta Comuni del circondario vengono passati al setaccio dalle squadre, che distruggono un gran numero di Case del popolo; “L’Ordine nuovo” del 19 luglio lancia un appello dai toni risorgimentali agli operai:
Lavoratori, in piedi! I fascisti hanno incendiato la Camera del lavoro di Novara: lo straniero è accampato in armi a Novara. Le sue teste di morto minacciano alle porte stesse di Torino e di Milano alla conquista degli ultimi baluardi del proletariato. In piedi! Da Biella, da Alessandria, dal Canadese al Monferrato, gli operai e i contadini sono chiamati a stringere in un cerchio la roccaforte di Novara, che è caduta nelle mani delle camicie nere. Se il fascismo ha battaglia vinta a Novara, Genova sarà chiusa nella morsa di quella stessa tenaglia che ha già il suo dente a Sestri.
Sia Novara quella scintilla che determinerà l’incendio generale. Novara è ben degna di ciò. Essa è l’avamposto militare di Torino e Milano. La sua espugnazione sarebbe fatale per il proletariato delle due capitali. L’ultimo equilatero della resistenza proletaria, l’equilatero Torino Milano Genova, ne sarebbe scardinato nel suo centro.
Ciò sa molto bene il fascismo. Lo Stato Maggiore fascista, che ha tra i suoi capi il Generale Giardino ed il Duca d’Aosta, è là dove nel 1849 c’era Radetsky.
Lavoratori e soldati, siate un esercito solo.
L’appello, rivolto alle tre città che questa volta non costituisconoil classico “triangolo non massonico, né cooperativistico di salveminiana memoria”,come ironizza Mussolini sul Popolo d’Italia, ma piuttosto il polo strategico, da utilizzare per la ripresa antifascista, non viene però raccolto nella maniera sperata; l’unica risposta è la proclamazione di uno sciopero generale di protesta a Torino e Milano, con la conseguente mobilitazione fascista a favore di chi vuole lavorare e, in qualche caso, gli squadristi provvedono ad assicurare, in prima persona, i servizi essenziali, anticipando quanto accadrà, su scala più vasta, ad agosto.
In sintonia con l’ispirazione militarista de “l’Ordine nuovo” è anche l’articolo di Mussolini, sul Popolo d’Italia del 15 luglio:
Il fascismo italiano è attualmente impegnato in alcune decisive battaglie di epurazione locale…Rimini nelle nostra mani significa il braccio della tenaglia che ci mancava per serrare l’Emilia e la Romagna, e, nello stesso tempo, Rimini è il ponte di passaggio per la penetrazione nella Marca contigua…Ad Andria la vittoria è ormai conquistata dalle nostre milizie… Anche a Novara la battaglia volge al termine trionfalmente per noi. Ovunque il fascismo è sostenuto dal favore delle popolazioni.
A Novara, intanto, Gray butta un po’ d’acqua sul fuoco del ribellismo anarchico e populista che si è riacceso nelle file squadriste:
Noi non siamo… i rappresentanti classisti né degli agrari né degli industriali, ma siccome non siamo affetti da alcuna tabe demagogica, non solo non ci vergogniamo, ma anzi ci onoriamo di comprendere industriali ed agrari nel quadro delle forze nazionali, produttive e costruttive e quando i loro interessi sono bene inquadrati nell’interesse supremo della Nazione tali interessi diventano per noi sacri quanto quelli dei lavoratori… che lavorano
Un altro grave episodio ha il suo avvio a fine mese a Ravenna, in una città caratterizzata da forte presenza repubblicana e fino a questo momento non toccata da grosse iniziative fasciste; i pochi squadristi locali sono guidati da due giovani, Ettore Muti e Celso Morigi, destinati ad essere a lungo uniti da un singolare rapporto di solidarietà e rivalità insieme; il primo:
…alto, solido, esuberante, con gli occhi chiari, se non proprio verdi, e con un viso quadrato… era uno di quei bastianacci, di quei “tabacaz” che nascono in Romagna, per mettere in imbarazzo i trepidi cantori del “solatio dolce paese” e che, per qualsiasi causa si battano, preferiscono farlo con le mani. O con la pistola, che per lungo tempo qui delle mani fu un po’ la naturale appendice.
Uomo d’azione e amante dell’avventura, espulso giovanissimo, per le sue intemperanza, da tutte le scuole del Regno, a 15 anni già combatteva con gli Arditi: volontario a Fiume, ha conosciuto D’Annunzio, che lo chiama affettuosamente “Gim dagli occhi verdi” e poi Mussolini, in nome del quale ha dato vita al Fascio ravennate.
Con lui è Morigi, che sarà vincitore olimpico di tiro con la pistola a Los Angeles e, nel 1927, quando l’amicizia fra i due si sarà già fortemente incrinata, sarà protagonista di un episodio che è veramente emblematico di un certo ambiente e di un modo di intendere i rapporti interpersonali: allorché un bracciante “Babett d’Pezpan”, animato da vecchi rancori, spara più colpi di pistola all’indirizzo di Muti, ferendolo due volte, accorre Morigi richiamato dal rumore dei colpi, e, con calma veramente “olimpica” prende la mira e fredda l’aggressore. Fra i due vecchi compagni di avventura ci sarà solo un sorriso di intesa e ringraziamento, ma non la riappacificazione.
Per ora, comunque, agiscono di comune accordo; così, dopo che il 26 luglio, nel corso di incidenti tra barocciai da poco passati al Fascio e socialisti locali ci sono vari morti e feriti in tutta la città, si decidono a chiedere aiuto ai camerati di altre zone.
Il primo ad arrivare è Balbo, dopo un viaggio avventuroso in automobile, con altri due squadristi, che mette in piedi la procedura già nota, passando la responsabilità delle operazioni ad un “Comitato segreto d’azione” da lui diretto che, per prima cosa, ordina la requisizione delle scuole, per alloggiare le molte migliaia di fascisti in arrivo.
Durante il funerale di un loro caduto, i fascisti occupano, con un colpo di mano, la Casa del popolo repubblicana, e si barricano all’interno, con la dichiarata intenzione di restituirla ai legittimi proprietari, solo dopo che questi si saranno staccati dall’Alleanza del lavoro.
Si deve lamentare, frattanto, un altro caduto squadrista: è il vecchio Clearco Montanari, ucciso a Cesenatico, mentre, in auto, con Arpionati, si sta recando proprio a Ravenna; per reazione, viene occupata e data alle fiamme la sede della Confederazione provinciale delle cooperative socialiste:
L’incendio del grande edificio proiettava sinistri bagliori nella notte. Tutta la città ne era illuminata. Dobbiamo, oltre a tutto, dare agli avversari il senso del terrore. Non si uccidono impunemente i fascisti.
Da Roma, allora, incaricato da Bianchi, e con disappunto di Balbo, arriva Grandi, che ha buoni rapporti con i repubblicani del posto e, quindi, riesce a concludere con loro un accordo: il 30 luglio la Casa del popolo viene restituita, con una cerimonia militare ai vecchi occupanti, e inizia il deflusso fascista.
Giunge, però, improvvisa, a far risalire la tensione, la notizia della morte di un altro squadrista, il diciottenne ferrarese Aldino grassi che, fiducioso dell’avvenuta pacificazione, si era recato nel borgo San Rocco; con lui ci sono dei feriti, tra i quali Arconovaldo Bonaccorsi.
Ne approfitta Balbo, che si reca dal Questore e con un bluff, minacciando di distruggere tutte le case dei socialisti locali, chiede – ed ottiene – gli automezzi necessari per portare via celermente i fascisti da Ravenna.
Prende così il via la “colonna di fuoco”, che estende la rappresaglia a tutta la provincia: i camion muovo alle 11,00 del 29 mattina, e, per ventiquattr’ore battono il circondario di Ravenna e Forlì, segnando il loro passaggio con alte colonne di fumo, senza nessuna apprezzabile reazione socialcomunista; solo le Forze dell’ordine tentano, in un paio di occasioni, ma senza troppa convinzione e fortuna, di bloccare la marcia; in testa a tutti, instancabile, su un’auto con Baroncini, vi è Balbo, inconfondibile per la sua:
…taglia leggera, ma sicura, di un cavaliere carolingio, il volto ombroso ed il sorriso a fior di labbra di un eroe della Rinascenza, l’inquietante pallore di un Saint Just, l’interna fierezza, l’appariscente bonomia di un Generale del ’93, i requisiti, insomma, di un uomo del popolo, di un evasore di Pastiglie .
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