3. L’unico movimento veramente sovversivo…
Prende contemporaneamente corpo nel Paese, nell’opinione pubblica borghese e moderata, in quella parte del Paese che, cioè, “fa opinione”, perché ha il controllo della grande stampa e perché dalle sue file proviene la classe dirigente, un senso di distacco e di fastidio, quando non di ostilità vera e propria, verso il fascismo.
In verità, è uno stato d’animo ricorrente: non appena il pericolo socialcomunista sembra svanire, cessa di colpo ogni simpatia moderata verso i sovversivi dell’altra parte, i rivoluzionari in camicia nera: è già successo nell’estate del ’21; quando i fuochi della valle Padana avevano polverizzato le speranze leniniste di rivoluzione, il fastidio borghese era emerso in superficie: era bastata poi l’apparizione minacciosa degli Arditi del popolo per ridimensionare la situazione, che, però, ora si ripropone tal quale.
Questi sentimenti di manifesta ostilità, lungi dall’intimidire gli squadristi, esaltano le loro convinzioni antiborghesi e stimolano il loro spirito reattivo, mentre sembrano avvicinare il momento di una resa dei conti con la borghesia, che, per la sua intrinseca viltà, è invisa quanto se non più del sovversivismo.
Se l’avversario aperto e dichiarato può meritare rispetto, lo stesso non si può dire per chi continua a stare alla finestra, pronto ieri a calarsi le braghe di fronte ai vecchi prepotenti con la bandiera rossa, ma pronto oggi, con lo stesso spirito, a servire oggi i nuovi vincitori in camicia nera.
Sono i “bigi” di ogni tipo, contro i quali tuonerà, con la consueta verve e ricorrendo ad un’immagine presa al Palio, Mino Maccari: “Rosso, nero, verde e turchino, ogni colore ha il suo fantino, all’infuori di quello bigio”; sono quelli che oggi comprano il Popolo d’Italia, ma restano preoccupati dell’intensità della stessa affermazione fascista e si lamentano quando c’è qualche zuffa, con morti e feriti, pronti ad auspicare solo e soprattutto il ritorno allo status quo ante.
Gli squadristi di Piacenza, nel giugno, in occasione della morte di Antonio Macerati, barbaramente ucciso dagli Arditi del popolo, emanano un proclama di chiara denuncia di questa situazione:
I funerali del martire non passeranno per le vie centrali della città, per non subire l’onta del falso compianto dei coccodrilli della borghesia e delle segrete gioie del proletariato.
Riposta nell’ara della pace la salma del martire, stracceremo questa scottante maschera di calma che, per rispetto di lui manteniamo nell’animo nostro, col far giustizia, con tutte le nostra forze, dei più feroci e satanici delinquenti che la storia conosca.
Veramente soli si sentono gli squadristi in questo momento: fino adesso hanno tollerato (male) il subdolo appoggio e la falsa simpatia di chi, da dietro le persiane, assisteva alle loro battaglie di strada, ora vogliono cambiare pagina. Se costoro si illudevano che, fugati i sovversivi dal furore ardito degli audaci in camicia nera, sarebbero poi bastati Carabinieri e Guardie Regie per riportare l’ordine, il vecchio ordine, si sbagliavano.
Non servono, perciò, le allarmate denunce della stampa moderata, che comincia ad indicare nel fascismo “l’unico movimento sovversivo veramente pericoloso” per l’Italia; non servono i bonari appelli un po’ paternalistici, a farsi guidare da chi c’era già “prima” ed è più esperto di come vanno le cose in Italia.
Ci vuole la rivoluzione, che ponga fine ad ogni equivoco e ad ogni interessato padrinaggio politico e culturale:
Il mondo turpe, borghese e proletario, contro il quale noi lottavamo, ebbe pochi difensori nel popolo, molti fra gli intellettuali. La nostra rivoluzione, si badi, era più contro Benedetto Croce che non contro Buozzi o Modiglioni…
Avremmo dovuto riempire Roma di morti, nell’ottobre scorso; quanta gente da corda nella grande famiglia dei crociati, dei salveminiani, dei patrioti bontà loro, e dei retori! Il popolo ci avrebbe baciato le mani. Avremmo dovuto, noialtri, intellettuali nel senso classico, antichi per natura più che per tradizione, antimoderni, anticivili, antiretorici, far giustizia di tutta la vivissima famiglia degli intellettuali nostrani, che hanno preteso di ridere di noi e della nostra passione, in nome di una loro dichiarata cultura moderna, la quale non è se non un rossa assimilazione della cultura eretica e barbarica del settentrione e dell’Occidente.
Tocca a Mussolini dare un colpo di freno alle intemperanze verbali dei suoi seguaci e indicare, con duro realismo, la strada da seguire, l’unica che egli vede politicamente percorribile; lo fa con un’intervista al Resto del Carlino del 6 febbraio, nella quale non esclude la possibilità di un appoggio fascista ad un Governo Giolitti, ritenuto da molti l’unico forte ed autorevole, in grado di affrontare la crisi politica ristabilire a pieno la legalità dell’anteguerra.
Un’ipotesi che, però, lascia scettica la base squadrista, convinta che non sia più un problema di nomi e di formule, e che il destino del Paese si debba ormai decidere non in Parlamento, ma nelle piazze, che sono il luogo ideale per chiudere, ad un tempo, la partita con gli estremisti di ieri ed i moderati di oggi , compresi i “pipisti”.
I rapporti tra fascisti e popolari non sono mai stati troppo buoni: diversi i temperamenti, diversi gli ideali, diversi gli atteggiamenti di fronte ai grandi problemi internazionali, interni e sociali: qua e là i fascisti hanno parlato, con allusione ai seguaci di don Sturzo, di “bolscevismo nero”; la lotta, soprattutto a Cremona contro Miglioli e le sue organizzazioni sindacali, è stata dura ed aspra.
In più di un’occasione non sono state risparmiate le minacce, che, talora, hanno direttamente interessato anche il clero:
Voi preti siete oggi una sola cosa col partito popolare capitanato dall’immonda e laiolesca figura di don Sturzo…
Se Cristo tornasse su questa terra, noi siamo certi che Egli userebbe per voi lo stesso trattamento da lui usato ai mercanti del tempio, chè, se la memoria non ci inganna, Cristo mostrò in quell’occasione di saper bene adoperare il bastone.
I popolari non rappresentano, comunque, un vero pericolo per il fascismo; se si arriverà allo scontro finale, altri saranno gli avversari da temere. E’, quindi, bene non mollare la guardia e rinsaldare i vincoli organizzativi e personali, studiando anche la possibilità di azioni unitarie, come fa Caradonna che, da Cerignola, dopo le già citate condanne degli squadristi bolognesi, dà disposizioni per eventuali concentramenti di uomini pronti a partire e telegrafa immediatamente al segretario politico del Fascio di quella città: “Tutte le squadre pugliesi sono da oggi ai vostri ordini. Viva il fascismo”.
Nel tentativo di allentare un po’ la pressione, gli squadristi studiano qualche manovra di alleggerimento: il 9 e 10 febbraio a Bologna, e il 24 a Firenze, improvvisano sotto i Comandi militari delle manifestazioni di simpatia alle Forze Armate, durante le quali qualcuno arriva ad invocare la dittatura militare.
E’ questa, in effetti, un’ipotesi assolutamente remota e, nella realtà improponibile, stante le tradizioni legalitarie e monarchiche delle Forze Armate italiane; essa d’altra parte, non sarebbe nemmeno di effettivo gradimento della base fascista, composta in maggioranza da ex combattenti di formazioni d’élite o volontari di guerra che hanno direttamente conosciuto gli atteggiamenti presuntuosi ed arroganti e i sentimenti conservatori degli alti gradi, trasformati ora, in pace, in “Generali a spasso che credono di avere la ricetta con cui si salva il mondo”.
Lo schiamazzare fascista vuole essere, più che altro, un campanello di allarme per Mussolini ed il suo entourage, un invito in codice, neppure troppo cifrato, a far presto, a non perdere tempo in manovre destriste ed attendiste.
Apparentemente, il capo non se ne dà per inteso, anzi, gioca al rilancio, ed afferma, in un articolo sul Popolo d’Italia di apprezzare il gesto dei dimostranti di Bologna, e di augurarsi che esso possa crescere fino a diventare un giorno un coro formidabile ed irresistibile per tutta la Nazione.
4. La tessera nr.12642
Non tutti gli squadristi sono però disposti ad accettare passivamente l’altalena mussoliniana: tra gli insofferenti c’è, in prima linea, Piero Marsich, intelligente dirigente veneziano, che si sente particolarmente vicino a D’Annunzio.
Marsich è già stato tra i più intransigenti avversari del patto di pacificazione prima e della trasformazione in Partito poi, poiché sogna uno sbocco rivoluzionario al movimento; per questo, quando Mussolini, nell’intervista al Resto del Carlino non esclude l’appoggio fascista ad un incarico a Giolitti, indirizza a Braschi una violenta lettera di dissenso, che viene poi pubblicata su “La Riscossa”, organo dei legionari fiumani:
Io non ho a che pentirmi di una cosa: di non avere condotto la lotta iniziata nell’autunno scorso fino alle estreme conseguenze. Non erano due persone che si urtavano allora, erano due mentalità: la mentalità parlamentare e la mentalità nazionale, ancora per molto tempo in fatale conflitto. Tutto ciò che è successo, dal Congresso di Roma in poi, non è ancora che l’espressione di questo conflitto, placata nell’apparenza sull’altare di una malintesa concordia, ma non sanato, né sanabile. Il Popolo d’Italia, che due anni fa si disinteressava delle crisi di gabinetto, oggi vi dedica pagine intere. Eppure, che è mutato da allora ?…
Invece, noi rinsaldiamo ogni giorno di più l’alleanza di destra. Trasciniamo dietro la nostra giovinezza i corpi flosci e mosci di quei liberali un cui esponente dichiarava l’altra sera non pericolosa la collaborazione socialista, quando il socialismo smetta il metodo della violenza. Non comprendendo l’incolmabile abisso che ci separa dalla concezione socialista dello Stato e della Nazione; a quei liberali che vedono solo l’ordine formale come obiettivo di uno Stato, e non l’ordine sostanziale cui noi miriamo; di quei liberali che, se hanno spesso un sentimento patriottico o una nobiltà di coscienza che la nuova democrazia non conosce, sono, però, così spiritualmente lontani da noi da non potersi concepire un blocco di destra costituito ai fini della rinascita nazionale, ma solo delle intese puramente transitorie e contingenti, caso per caso.
Concetti estremi ma chiari, che raggiungono il culmine nel finale della lettera, quando i riferimenti si fanno personali, con un’esaltazione di D’Annunzio, definito l’unico “grande italiano” ed un attacco a Mussolini, quale non si è mai visto prima:
Non vi ha dubbio che la maggiore e la miglior parte del fascismo divide istintivamente questi sentimenti, ma purtroppo, l’infausta egemonia di un uomo, l’ingenuità e l’immaturità politica dei giovani, la mancanza di mezzi di propaganda di tali idee, la discordia e le piccole invidie tra le forze nazionali, l’ottenebramento generale dell’opinione pubblica, l’influenza del Parlamento e del Partito impediscono al nostro punto di vista di prevalere.
La risposta di Mussolini, che pubblica anche sul Popolo d’Italia la lettera, è sdegnata e sprezzante:
…osservo che già da molti mesi io mi sono proposto di liberare il fascismo italiano dalla mia infausta egemonia. Non ho raggiunto il mio scopo perché mi hanno “implorato”, dico “implorato” di restare ad esercitarla, questa infausta egemonia.
Marsich convoca frattanto a Venezia alcuni dei capi squadristi che con lui a Roma si sono battuti su posizioni antimussoliniane; alla riunione partecipano, tra gli altri, Balbo, Grandi e Pisenti, che è l’unico a sostenere una linea di assoluto lealismo al capo milanese, in nome dell’indissolubilità del binomio fascismo-Mussolini.
In segno di ringraziamento, Mussolini gli telegrafa dalla Germania, da dove si sta affrettando a ritornare vista la crisi in atto:
Caro Pisenti, grazie di cuore. Nel fascismo friulano non ci sono gesuiti che tirano colpi mancini nella schiena. Convocate pure il fascismo friulano. Manterrò la promessa, anche se nel frattempo sarò ritornato la tessera nr. 12642. Alalà per il vostro Friuli.
In realtà, Mussolini è veramente preoccupato dell’iniziativa dissidentista: sa della sostanziale labilità del legame che lo unisce all’umorale base del suo movimento, ma sa anche che tra i suoi oppositori c’è qualcuno che sta pensando ad una clamorosa correzione di rotta: infatti, Grandi, che, per ripetere la sua elegante perifrasi: “comincia ora a tradire Mazzini per Cavour”, non se la sente di seguire Marsich su una strada che porta inevitabilmente alla secessione e così, prima con una dichiarazione al Popolo d’Italia del 14 marzo, e poi con un articolo, probabilmente concordato, se non “contrattato” con Mussolini, abbandona il fronte intransigente.
Lo fa con decisione e senza mezzi termini; accetta per sé la definizione di “riformista del fascismo”, contro i “massimalisti” che, dice, stanno portando il Partito a commettere gli stessi errori del socialismo, mentre occorre inserire il movimento nella realtà storica italiana.
Un brusco voltafaccia, non c’è dubbio; probabilmente, a determinarlo contribuiscono anche fattori psicologici, quali in primo luogo la delusione per la soluzione di compromesso raggiunta al Congresso, che ha ricollocato Grandi in una posizione di rincalzo tra i leader squadristi, unita ad un mutato convincimento politico di fondo, che significa sacrificio dell’idealismo del primo tempo sull’altare di un sano realismo.
Marsich resta solo; non può sfogarsi, dicendo di Grandi, come farà Mussolini vent’anni dopo: “Io l’ho fatto grande l’ho fatto conte e lui m’ha fatto fesso”, ma il voltafaccia del capo bolognese lo ha cacciato in una situazione senza via d’uscita; nel tentativo di forzare in qualche modo il corso degli avvenimenti, di coinvolgere i molti che come lui la pensano ma non vengono allo scoperto, perché, soprattutto non osano lasciare Mussolini, in assenza di un altro condottiero di eguale carisma e fascino personale, Marsich si rivolge a D’Annunzio, ai cui ordini si pone.
Non scorda che, solo un anno prima, dopo il Natale di sangue, la stessa Commissione esecutiva dei Fasci di combattimento ha dato quasi un appuntamento al poeta:
Comandante! Ovunque voi andiate noi saremo in vostra comunione, e fidiamo fin d’ora che, se una riscossa si maturerà, vi potremo rieleggere a nostro capo ed animatore!
Ora, che sembra profilarsi in concreto al possibilità di una soluzione di forza, sembra essere venuto il momento, per D’Annunzio, di riassumere il posto che gli spetta a capo del movimento di rinascita nazionale; egli può efficacemente contrapporsi a Mussolini anche all’interno del movimento, è al di sopra delle polemiche e delle beghe locali e personalistiche, ma nello stesso tempo costituisce un credibile punto di riferimento anche all’esterno.
Tra i due, si sa, i rapporti non sono proprio buoni, aldilà della formale correttezza: il poeta tollera che i suoi legionari diffondano la storiella che, in occasione di un loro incontro, a Mussolini che lo apostrofava: ”Salve, vate alato”, egli abbia risposto: “Salve lesto fante”; Mussolini, dal canto suo, lo paragona a: “una donna estrosa, profumata ed ingioiellata”, con la quale non è sempre facile trattare.
Marsich fa conto anche su questa rivalità personale e spera di smuovere il poeta, con lo spauracchio di un ritorno al potere dell’odiato Giolitti, o in prima persona, o per il tramite di un prestanome.
All’insaputa di Marsich, ma a conferma dell’esattezza della sua intuizione sul valore di un intervento di D’Annunzio, intorno al poeta si vanno intrecciando, da qualche tempo, manovre di vario tipo: alcuni sperano di fare di lui il centro gravitazionale di un’alleanza tra popolari, socialisti e Nitti, mentre altri vedono invece nei contatti che ci sono con i dirigenti sindacali Baldesi e D’Aragona, la possibilità di uscire dall’impasse “a sinistra”.
Si tratta di manovre inconcludenti: la non esaltante personalità dei suoi interlocutori non convince troppo il poeta che, per esempio, ironizza impietosamente sulla barba fluente dell’ignaro D’Aragona: “Troppo pelo per un coglione solo”.
Più grave, per le conseguenze che potrebbe avere all’interno dello schieramento fascista è la diffusione di una voce che vuole che D’Annunzio, parlando con due delegati del Consiglio militare di Fiume, abbia definito i seguaci di Mussolini, con riferimento ad alcuni incidenti accorsi a Bologna tra fascisti e legionari “schiavisti agrari”.
E’ un’offesa molto grave, che fa il giro d’Italia, mortifica i fascisti e fa gongolare gli avversari, finchè non arriva una smentita “indiretta” che seda ogni polemica.
Per il resto, tutte le manovre per un coinvolgimento diretto del Comandante finiranno in fumo: sia l’appello di Marsich che le avanches della CGL ed i tentativi nittiani resteranno senza esito: anche la visita di Gramsci a Gardone, fissata per il 19 marzo, verrà annullata.
Il capo veneziano, dal canto suo, ancora il 28 maggio partecipa, come oratore designato, ad un raduno fascista a Padova, ma già dal 25 si è dimesso dal Partito: ha perso la sua battaglia e si ritira, anche se, il 28 ottobre non farà mancare il suo plauso a Mussolini:
Ogni italiano schietto deve oggi giurare fedeltà allo Stato nazionale costituito per volontà eroica di popolo. Giuro nelle vostre mani, con fervido cuore e sicura speranza.
La risposta di Mussolini sarà altrettanto sincera e calorosa:
Sentivo che un giorno ci saremmo ancora incontrati. Grazie fraterne per il vostro giuramento che accolgo con lieto animo. Viva ora e sempre l’Italia di Vittorio Veneto.