13. La violenza squadrista
Il fallimento dello sciopero “legalitario” è, in gran parte, dipendente dall’azione fascista: prima la minaccia, poi l’azione vera e propria, che si sviluppa a pieno quando ormai la situazione è avviata a tornare alla normalità, e coincide, praticamente, con l’ultima grande mobilitazione prima della “marcia”, con un inevitabile, anche se ridotto, corollario di violenze.
Proprio il ricorso alla violenza è stato l’aspetto più appariscente del quadriennio squadrista che, per la sua drammaticità, ha finito per annullare tutti gli altri nella valutazione dei contemporanei e dei critici posteriori.
Violenza nei confronti degli avversari e delle loro cose, apertamente proclamata, e quasi codificata, da un certo momento in poi, in norme di comportamento tipiche. Occorre, però fissare degli spartiacque temporali che meglio aiutino a capire il fenomeno e possono anche costituire un’ideale periodizzazione dell’intero quadriennio.
Ciò, perché netti elementi di distinzione esistono tra la violenza del primo periodo –che va dalla fondazione dei Fasci (o, meglio, dalla contestazione protofascista a Bissolati) fino al dicembre del 1920 -, la violenza del periodo “più caldo” dello squadrismo, che corrisponde, grosso modo, al primo semestre del ’21 e, ancora la violenza dei tempi più prossimi alla marcia, dal Congresso all’Augusteo al concentramento su Napoli.
Gli episodi più noti del primo periodo sono da considerare, in genere, reazioni esasperate, il più delle volte assolutamente spontanee, di piccoli gruppi, contro la prepotenza sovversiva; esse hanno una consistenza assolutamente irrilevante in quel “biennio rosso” che è, invece, caratterizzato da scioperi e violenze quotidiane di natura preinsurrezionale, con un gran numero di vittime, soprattutto nel corso di scontri con la Forza pubblica.
Di contro, la reazione delle minoranze “nazionali” è limitata nelle tecniche e negli obiettivi, motivata da elementari esigenze di autodifesa e dalla ferma volontà di non cedere; a Firenze, per esempio:
Lo squadrismo fiorentino del ’19 e dei primi mesi del ’20 aveva molto del guascone. Le relazioni fra i pochi fascisti fiorentini del tempo e i sovversivi erano improntate a qualcosa di indefinito, che non saprei se classificare cortesia, cavalleria, commiserazione o altro….
Nessuna delle due parti abdicava a quelli che erano i principi della propria ideologia e neppure rinunciava a fare la propaganda necessaria. Quando si scambiavano delle legnate, erano legnate sul serio, ma la rivoltella e il pugnale erano allora sconosciuti da una parte e dall’altra.
Bastone da passeggio, manganello rudimentale, rustico “parpigna” (manico di frusta fatto di rami intrecciati) modenese, cedono però rapidamente il posto a revolver e petardi che servono, nei casi più gravi, a risolvere situazioni di grande inferiorità numerica, assolvendo efficacemente ad un preciso scopo intimidatorio:
Gli stessi atti di violenza che i fascisti commisero durante i primi mesi della loro controffensiva, possono essere riguardati con una certa indulgenza. Dato che la Polizia e la Magistratura erano incapaci di difendere i privati cittadini contro lo strapotere capriccioso e tracotante delle organizzazioni sindacali, questi stessi cittadini potevano ben cercare di difendersi per mezzo di metodi illegali. Un fascista, in questo primo periodo, doveva essere fornito di un certo grado di coraggio fisico e morale. Egli doveva affrontare l’impopolarità, era esposto alla violenza fisica delle folle rischiava di essere ferito o ucciso, rischio che non era così grande come vorrebbe farci credere la propaganda fascista, ma che era abbastanza concreto da far sbollire gli ardori di un uomo comune.
Con l’acuirsi dello contro, il panorama cambia: arrivano, anche da Fiume, le armi, iniziano le spedizioni punitive propriamente dette, che estendono a tutto il paese il confronto e lo scontro: numericamente, i gruppi fascisti sono ancora esigui, ma li favorisce la sorpresa e la capacità di spostamento.
Dal momento che quasi mai la comunità socialista colpita può pensare e realizzare una efficace contromanovra (con l’eccezione dell’imboscata), iniziano in questo periodo, e sono destinate proseguire nel tempo, le aggressioni, anche mortali, a singoli fascisti, colpiti a sangue freddo ed a tradimento, spesso quando rincasano di sera.
La pratica dell’agguato è appunto giustificata, da parte di chi se ne serve, con la motivazione che essa è l’unica forma di autodifesa possibile, stante la constatata impossibilità di contrastare sul terreno “militare” le squadre fasciste; pertanto, quanto più di vasto respiro sarà l’azione squadrista, tanto più frequente sarà il ricorso alla pistolettata sotto casa, alla fucilata che parte improvvisa da una siepe, nel buio della notte.
In effetti, nel 1922, è praticamente impossibile opporsi alle azioni che in parecchie centinaia, quando non in migliaia, gli squadristi compiono contro le porzioni di territorio che giudicano strategicamente importanti: sono azioni degne di un esercito in campagna, che travalicano i limiti della rissa paesana, anche sanguinosa, e lasciano chiaramente intravedere la loro finalizzazione alla conquista del potere.
Il ricorso alla violenza è sempre visto da parte fascista come una dura necessità, fermo restando che non bisogna sopportare l’altrui prepotenza e che “è sempre meglio darle che prenderle”, ma senza esagerare, come talvolta pure accade; se Chiurco riconoscerà che:
…è’ naturale e logico che in questa reazione rivoluzionaria, in una reazione turbinosa di popolo come quella fascista, gli squadristi qualche volta abbiano ecceduto)
Tamaro attribuirà le intemperanze in eguale misura alla presenza di “impuri e spostati” tra le file fasciste, ed al fatto che per gli squadristi il peggior difetto era di “essere giovani, e quindi facilmente crudeli e beffardi”.
Sulla portata di tale violenza, e sulla sua mitizzazione interessata, Giordano Bruno Guerri, nella sua biografia balbiana, esprime un’opinione ampiamente sottoscrivibile:
Inoltre, bisognerà pur dire che nel ’21, fare lo squadrista a Ferrara era un mestiere né comodo né facile. Uno studio realistico sulla violenza in Italia durante quegli anni non è stato ancora fatto, ma, generalmente si tende ad ipervalutare la violenza fascista. Già allora i fascisti avevano il massimo interesse a gonfiare a dismisura il numero delle loro azioni, la durezza dei loro attacchi, la quantità dei nemici feriti.
Allo stesso modo, i socialisti sconfitti avevano un eguale interesse a far apparire l’avversario più attivo, forte e cattivo di quanto fosse in realtà. Insomma: se un socialista riceveva un graffio da un fascista entrambi hanno tramandato alla storia una ferita lacero contusa, e il ribaltamento di due vecchie scrivanie in una lega diventava per entrambi una distruzione totale.
Vent’anni di retorica fascista ed altrettanti di lamentazioni antifasciste non hanno fatto che perpetuare questa procedura, puntualmente ripresa nel dopoguerra.
Ciò che non va mai dimenticato è che la violenza fascista, grande o piccola, è pur sempre una conseguenza di quella sovversiva del biennio rosso, che costituisce il suo alibi, in un comune contesto culturale e filosofico, che vuole la violenza levatrice della storia, nonostante i “distinguo” di Missiroli:
Se la violenza socialista rasentò spesso il delitto e qualche volta lo sorpassò nella barbarie inaudita delle rappresaglie, la nostra coscienza civile si rifugiava nel pensiero che le masse potevano lentamente essere educate, sollevate dalla cieca crudeltà dell’istinto e dell’egoismo ottuso. Ma nessuna scusa, nessuna consolazione ci soccorre quando pensiamo alla violenza premeditata ed armata dei borghesi senza cuore, cui la superiorità illimitata dell’educazione, dell’istruzione, del censo, del costume, della vita, non impedì di uccidere e, peggio ancora di percuotere….
Se l’agguato dei leghisti è sempre infame, la spedizione punitiva capitanata da giovani studenti o laureati, da giovani che hanno studiato nelle nostre Università, che hanno letto Carducci e recitato, chissà quante volte il “canto dell’amore”, non è pensabile senza che una solitudine fredda si dilati nell’anima nostra.
E’ ancora da aggiungere che gli squadristi amano sempre atteggiarsi e pensarsi in forme “cavalleresche”: pochi contro molti, giovani e belli contro masse abbrutite, idealisti e sognatori contro ruvidi estremisti materialisti, leali e coraggiosi contro imboscati di tutte le guerre.
Balbo, nel manoscritto originale del suo “Diario” inserì il resoconto di un significativo episodio – poi eliminato chissà perché dalla “supervisione” di Mussolini – del quale era stato protagonista durante la marcia della “colonna di fuoco”, allorché aveva “catturato” il probabile autore dell’omicidio di Aldino Grossi, ma aveva desistito dall’eseguire su di lui ogni vendetta, perché ammirato dal coraggio dimostrato dal giovane sovversivo prigioniero.
Il racconto, dettagliato e preciso, avrebbe voluto essere, nelle intenzioni di Balbo, una prova tangibile del cavalleresco rispetto dimostrato verso un avversario “feroce, ma di fegato”, in perfetta sintonia con la personalità del ras ferrarese, che ebbe sempre in grande considerazione i sovversivi di Parma, tanto che si raccontava che, in pieno regime, si fosse recato solo soletto una mattina, in incognito, nell’Oltretorrente, scrutando volti e fisionomie, quasi cercasse di riconoscere i coraggiosi nemici di un tempo e ritrovare, con essi, il sapore nostalgico dei tempi andati ed eroici.
Balbo fu anche severo nel reprimere le violenze inutili e gli eccessi, così come Arpinati, che, addirittura, nella cantina del Fascio bolognese, provvide in più di un’occasione a punire “fascisticamente” e personalmente squadristi che avevano oltrepassato il segno, e arrivò, nei casi più gravi, a denunciare all’Autorità giudiziaria i responsabili di sopraffazioni immotivate.
14. Le connivenze
Lo sviluppo dell’azione squadrista nelle giornate dello sciopero generale ripropone anche uno dei problemi connessi con l’affermazione – ormai prossima – del movimento, e, cioè, quello della acquiescenza verso i fascisti delle Autorità statali, di polizia e giudiziarie, della misura di tale acquiescenza della sua effettiva rilevanza ai fini della vittoria squadrista.
E’ necessario sgombrare subito il campo da un interessato equivoco di fondo: non sarebbe esatto trarre dagli episodi di Sarzana, Modena e Cittadella Veneta – ognuno dei quali ha, tra l’altro, caratteristiche sue proprie e diverse – la convinzione che un costante atteggiamento di fermezza da parte dei tutori dell’ordine avrebbe, da solo, soffocato sul nascere le velleità squadriste.
Volendo, infatti, solo per un attimo procedere sullo scivoloso terreno delle ipotesi e dei “se”, occorre notare che, nei casi citati, lo sbandamento fascista assunse proporzioni notevoli soprattutto perché la reazione poliziesca, in forme così violente da sembrare esagerate, giungeva dopo mesi di sostanziale inerzia.
Con ogni probabilità, invece, se fin dai primi episodi squadristi, Carabinieri e Guardie Regie si fossero opposti efficacemente e con continuità ai fascisti, ne sarebbe derivato un diverso comportamento “sul campo”, e una diversa predisposizione psicologica.
Combattenti esperti e spregiudicati quali essi sono, abituati al fuoco delle “belle mitragliatrici”, non indietreggerebbero di certo di fronte alle schioppettate poliziesche, con quali conseguenze è facile immaginare. Ad una reazione armata pensano proprio gli squadristi che, impegnate nell’occupazione di Novara, se ne vanno minacciosamente in giro gridando. “Carabinieri, voi non conoscete ancora i fascisti!”.
Più utile, invece, restare alla realtà dei fatti, e partire con l’esame, in linea generale, dell’atteggiamento tenuto dalle Autorità in occasione delle rivolte socialiste ed anarchiche del ‘19/20, periodo nel quale il fenomeno fascista è ancora agli esordi, e non significativamente pericoloso sul piano dell’ordine pubblico.
La tendenza dominante mira a far sì che la fiammata delle rivolte si esaurisca da sola, sia nel caso di insurrezioni di interi paesi e città, sia nella vicenda delle occupazioni di terre e fabbriche: molti i motivi a base di questo atteggiamento, politici ed organizzativi, ivi compresa la tradizionale sensibilità dei Prefetti del Regno a percepire con predisposizione all’allineamento, i mutamenti reali o futuri del clima politico.
Si può, quindi parlare di un atteggiamento che è frequentemente succube verso i socialisti da parte di quegli stessi Prefetti che saranno poi accusati di “filofascismo” quando il vento cambierà. Di fatto, avviene che le masse in rivolta, nei mesi della sbornia rivoluzionaria, rimangano per giorni e giorni padrone assolute del campo, prima che la Forza pubblica intervenga, anzi, con la truppa consegnata in caserma, per timore di provocazioni. E ciò nonostante le molte violazioni penali commesse.
E’, quindi, logico che alcune grandi città, come Bologna, Milano e Torino siano considerate “perdute” ai fini dell’ordine pubblico, mentre per i piccoli centri è la lamentata insufficienza dei locali presidi di forza a giustificare l’inattività; la stessa insufficienza che, a maggior ragione però, verrà invocata nei mesi “caldi” dell’azione squadrista che però avrà dalla sua il carattere della sorpresa e della rapidità, oltre che dello svolgimento simultaneo in più luoghi, che impedisce gli spostamenti della forza.
Quando l’Autorità interviene, si ha un gran numero di arresti tra gli anarco-socialisti; numero senz’altro percentualmente superiore se riferito ai partecipanti all’azione –oltre che in assoluto, come sarebbe logico, data la grande disparità numerica tra gli schieramenti – a quello degli arrestati fascisti del periodo successivo.
Ciò non può essere di per sé indicativo di una certa predisposizione antisovversiva delle Autorità preposte all’ordine pubblico, ma trova la propria ragion d’essere nella diversa metodica dell’azione squadrista rispetto a quella sovversiva.
Agli scioperi, alle occupazioni di terra e fabbriche o alle rivolte paesane, partecipano centinaia e spesso migliaia di individui, mobilitati da una propaganda che dà notizia dell’iniziativa sulla stampa spesso con buon preavviso: i rivoltosi sono vanamente contrastati – o non contrastati affatto – da un esiguo numero di Carabinieri e Guardie Regie che non possono far altro che prendere mentalmente nota dei più turbolenti, spesso peraltro conosciuti per una lunga militanza sovversiva, ed inoltrare rapporto alla Magistratura.
Tutto il contrario avviene in occasione delle spedizioni fasciste che sono condotte da non molti elementi armati e decisi, in genere provenienti da altri paesi, talvolta addirittura in contrasto con i simpatizzanti locali che temono la successiva rappresaglia ai loro danni.
Avviene quindi che da centri vicini a quello sede dell’obiettivo da colpire affluiscano, non di rado di notte o nelle prime ore del giorno, squadristi che portano velocemente a compimento l’azione programmata e ripartono, dopo aver affisso un manifesto che illustra le finalità del movimento.
Il tutto con rapidità e con l’adozione sussidiaria di alcune misure precauzionali, come quella di avvertire dell’azione il minor numero possibile dei fascisti locali che favorirebbero la fuga di notizia a vantaggio della prevenzione poliziesca e la successiva temuta imboscata.
Quasi sempre accade che le Autorità, impossibilitate ad intervenire tempestivamente o a chiedere soccorsi, spesso isolate dal taglio dei fili del telegrafo e telefono effettuato dagli squadristi, debbano limitarsi a predisporre un rapporto sull’accaduto che, però, in questi casi, si riferisce di necessità ad “ignoti” responsabili, con la sola speranza in qualche delazione.
A poco servono le contromisure adottate: colonne mobili, comandi unificati, posti di blocco fissi e volanti, etc., di fronte al gioco a rimpiattino degli squadristi che, non di rado, minacciano ripetutamente un’azione punitiva su un paese, creando negli avversari e nelle forze dell’ordine uno stato di continua attesa, con una serie di falsi allarmi ad ogni passaggio di camion con gente a bordo, che, in pratica, finisce per agevolare la sorpresa quando finalmente l’azione sarà decisa.
Naturalmente, queste spiegazioni di ordine “tecnico” non escludono che, in più di un’occasione, le forze dell’ordine abbiano “chiuso un occhio” nei confronti dell’azione fascista, soprattutto nelle zone più “attive”: Toscana ed Emilia.
Chiurco, come la maggior parte dei memorialisti, ammette senza remore che gli squadristi si giovano della benevolenza di Carabinieri e Guardie Regie, ma la cosa appare “normale”. Isolati ed insultati, con le loro famiglie, dai sovversivi, ignorati dai partiti liberaldemocratici che di essi rivogliono servire solo per garantire lo status quo, senza neppure riconoscere gli indispensabili miglioramenti economici e normativi, si vedono vicini solo quei giovani in camini nera ai quali pure, soprattutto all’inizio, non mancano di rimproverare la responsabilità di un carico di superlavoro al quale li costringono con la loro smania di opporsi ai socialisti.
L’11 marzo del ’21, l’Ispettore generale inviato a Firenze, riferisce alla Direzione generale di PS:
Quanto è stato, ed è, asserito relativamente al contegno tollerante usato, e che si usa, verso i fascisti, dai funzionari, agenti investigativi e Regie Guardie, in Toscana, e in particolar modo a Firenze, risulta in gran parte conforme a verità, e viene dai responsabili, che non fanno mistero dei loro sentimenti, giustificato come reazione alle continue violenze verbali e materiali e alla propaganda di disprezzo e di odio dei sovversivi e della loro stampa.
Essi, tra l’altro, ricordano ancora con indignazione due articoli comparsi nello scorso dicembre sul giornale Avanti, con uno dei quali si faceva appello ai negozianti di boicottare i componenti la forza pubblica e le loro famiglie, e con l’altro si diceva doversi considerare e trattare come puttane le moglie le figlie di Carabinieri, agenti e guardie.
I fascisti, viceversa, si mostrano comprensivi verso i problemi degli appartenenti alle Forze dell’ordine: fanno qualche distinguo per le Guardie Regie nittiane che non sono ben viste, ma, in genere, non possono non tenere conto del fatto che tra quegli uomini in divisa molti sono i reduci dal fronte, come loro, che, perdi d più possono vantare la presenza tra le loro file di molti decorati, sì che il movimento fascista viene visto come “il Partito delle medaglie d’oro”
Non estraneo all’atteggiamento tollerante è anche la paternalistica convinzione delle Autorità, Prefetti e Questori in modo particolare, di poter sempre controllare le azioni squadriste, di poterle addirittura in qualche caso prevenire ed impedire con un’efficace opera di convincimento; ciò, soprattutto nel Mezzogiorno, dove la presenza “rivoluzionaria” tra le file squadriste è meno forte, e il solerte funzionario governativo può ben sperare, come il Prefetto di Catanzaro, che, nell’agosto del ’22, riferisce al Ministero che il Fascio locale, dopo le energiche misure prese nei confronti dei più turbolenti, è formato da:
…un nucleo di fascisti, ma tutti appartenenti alla borghesia, persone d’ordine, tranquille, che non dettero soverchia preoccupazione, tanto più che con i loro dirigenti ero in ottimi rapporti …. Io ho cercato, e spero di esserci riuscito, che la direzione fosse affidata a persone equilibrate, che comprendano la responsabilità che su di esse cade per l’indirizzo che il movimento potrà assumere. Mi hanno formalmente assicurato che nulla faranno che non sia nella legalità
Non è forse vero che i fascisti parlano un linguaggio fatto di amor di Patria, di lotta all’anarchia, di grandezza dello Stato ? E, quindi, con loro ci si può intendere in nome di questi principi: in fondo, sono solo dei giovani irruenti ed impulsivi, che però possono essere ricondotti alla ragione ed al buon senso, in nome di ideali comuni.
Nulla di male, quindi, se in qualche caso una pilotata fuga di notizie su prossime emissioni di mandati di cattura favorisce la latitanza fascista; niente da rimproverarsi se qualche pratica relativa areati connessi da fascisti finisce in fondo al mucchio, o viene seguita senza alcuno zelo particolare; se poi, in piazza, qualche cordone non tiene con la prevista energia, e qualche sbarramento è meno impenetrabile del dovuto, la colpa è a mezzo dell’irruenza squadrista e dell’indolenza di chi è comandato in estenuanti turni di ordine pubblico.
In linea di massima, comunque, la connivenza è tipica dei gradi bassi della gerarchia repressiva; in genere, gli alti funzionari sono ossequienti agli ordini del potere centrale, giolittiani per temperamento prima che per convinzione politica, come a Pisa, dove: “Bassa forza Carabinieri e Guardie Regie anche in questa provincia dà qualche preoccupazione, perché spiritualmente orientata verso i fascisti”.
Le tolleranze verso gli squadristi, che, peraltro, talora si mobilitano ed agiscono proprio per vendicare aggressioni e caduti delle forze dell’ordine, sono quasi sempre individuali e portano non di rado all’adozione di provvedimenti di rigore, arresti di fortezza, trasferimenti, etc. a carico dei responsabili; Giolitti ordina perentoriamente ai Prefetti dell’Emilia, Toscana, Rovigo, Bari, Foggia e Teramo il 20 aprile del ’21, in occasione delle elezioni che pure lo vedono “alleato” dei fascisti nei blocchi nazionali:
Violenze fasciste in tempo di lotta elettorale…Occorre quindi cambiare quei capi della forza che per debolezza o connivenza non fanno il loro dovere. Invito quindi lei ad indicarmi entro domani con telegramma diretto a me personalmente il nome degli Ufficiali dei carabinieri o Guardie regie che sia conveniente traslocare.
Nonostante la energia di simili indiscutibili e documentati interventi denoti inequivocabilmente la precisa volontà di Giolitti – e poi anche di Bonomi e Facta – di estirpare il fenomeno delle tolleranze, permane la tesi di un Giolitti “Giovanni Battista del fascismo”.
Si pensi alle distorte interpretazioni delle circolari dello Stato Maggiore e di Bonomi, comunemente indicate come contenenti l’obbligo per gli ufficiali smobilitati di aderire al fascismo, o alla mai documentata circolare Fera, di cui parla Tasca, che avrebbe invitato la Magistratura a non procedere contro i fascisti.
A situazioni e momenti di favore si alternano altre in cui nei confronti degli squadristi si scatena la persecuzione poliziesca e giudiziaria, talora con caratteri chiaramente vessatori: perquisizioni ripetute alle sedi, denunce e diffide, oltre agli arresti, sono i mezzi ai quali più frequentemente fanno ricorso i delegati di polizia, in particolare nei piccoli paesi, dove, spesso, la persecuzione poliziesca si sposa con quella sovversiva, e provoca l’esodo forzato dal boicottaggio e dalla minaccia di arresto, dei fascisti più attivi.
Non infrequentemente si verifica il caso di organizzatori di squadre che, esiliati diventano animatori e fondatori del fascismo altrove, in paesi del Mezzogiorno, nelle isole o comunque in posti più tranquilli di casa propria, a differenza di quanto accade per i quadri socialisti, quando verrà il loro turno di essere “banditi”; essi:
…trascinano, come dei rottami, un’esistenza senza risorse, e, ciò che è peggio, vuota di senso. I fascisti che cambiano città trovano un terreno nuovo e più libero per le loro scorribande; il socialista diviene un isolato, un deracine, è perduto per il movimento, anche se le sue energie non sono infrante. La diaspora fascista aiuta la diffusione dell’azione, la socialista la restringe e la indebolisce.
Un caso a parte è rappresentato da quegli scapestrati, veramente ”rivoluzionari di professione” che si aggirano in campo fascista, come quel Ottavio Marinoni nel ’20 è a Ferrara, poi a Padova, e poi a Milano, o e il Tenente Vittorio La Rocca, squadrista a Roma, Milano, Andria, Genova (dove viene ferito il 10 dicembre del ’19), Savona (dove è arrestato), Udine e Trieste.