Hergé |
di Francesco G. Manetti
Questo intervento potrebbe anche essere considerato un “proseguimento logico” dell’articolo pubblicato sulle pagine di EreticaMente il 5 maggio scorso (Léon Degrelle, ultimo atto: l’amore per il fumetto e il libro “eretico” messo al rogo!). Si trattò allora di una recensione il più possibile approfondita e ragionata dell’ultimo libro di Léon Degrelle – terminato nel 1994, apparso inizialmente in Francia nel 2000, sequestrato, bruciato e uscito per la prima volta in Italia solo nel 2014. Il mio amico Tintin è un volume, fortemente autobiografico, dedicato ai rapporti di Degrelle con Georges “Hergé” Remi, il padre di Tintin, il Maestro belga del fumetto, l’inventore della scuola stilistica e artistica della Linea Chiara. Remi e Degrelle, a cavallo fra gli anni ’20 e ’30, lavorarono entrambi per il quotidiano cattolico-conservatore Le Vingtième Siècle di Bruxelles; Hergé collaborò con preziose illustrazioni e copertine ad alcune realizzazioni a stampa delle Éditions Rex di Degrelle.
Fin qui una breve sintesi di ciò che abbiamo già pubblicato, tanto per “fare il punto”. Adesso andiamo ad analizzare come Hergé – lasciando parlare, tramite i suoi personaggi, le sue idee e la sua sensibilità sociale – traspose sulle sue tavole a fumetti la percezione che aveva di quei due fronti geopolitici che si stavano già delineando e che negli anni a venire si sarebbero scontrati senza esclusione di colpi arrivando fin quasi a scatenare il Genio della Lampada nucleare: l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche di Iosif Vissarionovič Džugašvili, detto Stalin, e gli Stati Uniti d’America, nell’epoca di Herbert Hoover, del Proibizionismo e della Grande Depressione economica.
In un successivo articolo vedremo invece come, sugli stessi “argomenti globali”, scrisse e disegnò uno dei più grandi autori del fumetto italiano, l’immortale Benito Jacovitti – le planche originali delle cui storie hanno oggi una rilevanza museale.
Sperduti nella Giungla delle Edizioni
Per il supplemento giovanile Le Petit Vingtième del giornale diretto con piglio di ferro dal battagliero abate Norbert Wallez, il nostro Hergé realizzò a puntate otto avventure del giovane reporter Tintin e del suo cagnolino Milou, a partire dal 10 gennaio 1929; la nona avventura rimase a metà, quando, con il numero del 9 maggio 1940 – a causa della guerra – il periodico sospese, per sempre, le pubblicazioni. Di questi iniziali episodi in bianco-e-nero della saga avventurosa tintiniana i primi tre furono raccolti in volume dalla piccola casa editrice collegata al quotidiano (Les Éditions du Petit Vingtième), fra il 1930 e il 1932: Tintin au Pays des Soviets, Tintin au Congoe Tintin en Amerique. I cinque episodi completi successivi furono stampati da altri editori (come Casterman, che ancora oggi “vede e provvede”): Les cigares du Pharaon, Le lotus bleu, L’oreille cassée, L’île noir e Le sceptre d’Ottokar. L’avventura interrotta – Tintin au Pays de l’or noir – fu ripresa e rielaborata solo molti anni dopo; in bianco-e-nero Hergé realizzò invece per Le Soir – sua nuova sede lavorativa dal settembre 1940 – un episodio nuovo di zecca, ovvero Le crabe aux pinces d’or.
La copertina della prima raccolta in volume dell’avventura di Tintin in Russia |
L’incursione in Russia – a differenza delle storie ambientate in Congo, in America, in Egitto, in Cina e così via – non avrebbe mai avuto una versione postbellica (totalmente ridisegnata e poi a colori) e non sarebbe mai stata ristampata nei paesi francofoni europei per ben 4 decenni! Nel Belpaese, addirittura, si sarebbe dovuto attendere gli anni ’90 per avere una traduzione in italiano, grazie alla romana Comic Art. In tutto questo lungo periodo di assenza dalle librerie i Sovieti ebbero numerose edizioni “pirata”, mentre l’album originale saliva sempre più nelle quotazioni del mercato collezionistico.
Fu lo stesso Remi a “disconoscere” quel suo primo, acerbo parto fumettistico con Tintin. O almeno così si racconta, nelle biografie ufficiali e dotate di nulla-osta degli eredi. In realtà l’autore fu gentilmente invitato dai nuovi editori del Belgio “rinormalizzato” ed “epurato” a mettere la sordina al suo debutto “politico”, consigliandolo di rinnegare lo spirito “destrorso” di Tintin nel Paese dei Sovieti. Quando poi si trattò di ridisegnare le altre storie in bianco-e-nero, e poi nuovamente di riadattarle ai nuovi gusti “colorati” del pubblico internazionale, persino quelle furono ritoccate nei testi – qualora ci fossero stati accenti che il moderno lettore avrebbe potuto scambiare per irriguardosi
contro certe etnie, lingue e culture… Tale revisionismo, tale “correttezza politica” si impose soprattutto nelle versioni statunitensi, soprattutto per quanto riguardava gli alcolici, il colore della pelle (molte “comparse” negre vennero sostituite da “comparse” bianche) e i nomi dei personaggi di contorno, etc.
contro certe etnie, lingue e culture… Tale revisionismo, tale “correttezza politica” si impose soprattutto nelle versioni statunitensi, soprattutto per quanto riguardava gli alcolici, il colore della pelle (molte “comparse” negre vennero sostituite da “comparse” bianche) e i nomi dei personaggi di contorno, etc.
C’era una volta, nel Paese dei Sovieti…
Tintin aux Pays des Soviets inizia con un’esplosione. Il giovane inviato belga, accompagnato dall’inseparabile e intelligentissimo fox-terrier Milou (o Milù, in certe versioni italiane), sta viaggiando per un reportage in treno verso Mosca, transitando via Berlino, quando un anarchico fa esplodere una di quelle bombe a mano nere sferiche di foggia ottocentesca (ma sempre attuale nei fumetti e nei cartoni animati umoristici), distruggendo l’intero convoglio e facendo una carneficina. L’eroe dal ciuffo biondo riesce a scampare alla morte e – dopo essere fuggito dalla galera dentro il quale era stato gettato con l’accusa di aver ordito l’attentato – riesce a raggiungere l’URSS. Al commissariato di frontiera di Stolbtzy gli agenti del GPU (Gosudarstvennoe političeskoe upravlenie – il “direttorato politico dello Stato”, in forza fino al 1934, ex CEKA e antesignano del KGB) progettano immediatamente di sopprimere il giornalista occidentale ficcanaso, ma non sparandogli un banale colpo alla nuca, bensì sperando di fracassargli il cranio facendolo scivolare su una buccia di banana! Rimessosi Tintin in strada verso la capitale con un mezzo di fortuna capace di percorrere le rotaie, un bolscevico lo fa deragliare, ricevendo però in compenso un sacco di botte. Più avanti, in un villaggio industriale con il cielo perennemente oscurato dai fumi degli stabilimenti, un gruppo di comunisti inglesi in tweed ammira con sospiri estasiati le meraviglie della produzione pesante del Paradis Rouge che viaggia a pieno rendimento e profitto. In realtà le fabbriche sono finte, poco più di quinte teatrali: il fumo nero viene prodotto bruciando fieno bagnato e il clangore degli attrezzi degli operai è un effetto speciale da “rumoristi” hollywoodiani: martelli battuti su lamiera ondulata!
La copertina di un numero del Petit Vingtième contenente una puntata della storia di Tintin in URSS |
I poliziotti segreti tentano poi di “infinocchiare” Tintin sfruttando la pietà borghese verso i disadattati: il solito ceffo si traveste da barbone, elemosina una zuppa al reporter e tenta invano di arrestarlo, rimediando ancora pugni e ceffoni! Ecco poi una libera sessione elettorale, per alzata di mano. Compagni– arringa la folla un politico dal palco – tre liste sono presenti. Una è quella del Partito Comunista! Chi si oppone a questa lista alzi la mano! Dunque, chi si dichiara contrario a questa lista? Nessuno? Proclamo perciò la lista comunista votata all’unanimità! Il tutto sotto il tiro di pistole automatiche… Successivamente Tintin, per sfuggire ai cekisti, indossa un lenzuolo fingendosi un terribile fantasma (dello zarismo?), scappa per le fogne, e poi – cambiando motoscafi e automobili a ogni angolo – giunge finalmente a Mosca. Qui, con la scusa che il passaporto non è in regola, il ragazzo viene gettato in una squallida prigione (molto probabilmente una parodia della Lubjanka) dove la sala delle torture – con tanto di ferri roventi e letti di chiodi dal gusto medievale – è gestita da perfidi cinesi.
Un’altra fuga rocambolesca permette finalmente a Tintin di osservare la situazione per le strade della capitale. A poco più di dieci anni dalla Rivoluzione di Lenin Mosca è ridotta all’ombra di se stessa: bande di giovincelli vagabondi e orfani, ridotti a scheletri umani dall’inedia, fanno la fila davanti al banco di un commissario del popolo, che dona loro un tozzo di pane solo se ammettono di essere comunisti. Sennò calci nel sedere! L’imberbe giornalista riesce persino a infiltrarsi – travestito da soldato – in una spedizione punitiva contro una fattoria di kulaki, i cosiddetti “contadini ricchi”, a caccia di grano per la metropoli affamata. Sfuggito alla fucilazione per aver difeso i kulaki, Tintin vaga per la campagne innevate finché capita in una struttura ultra-segreta dove Lenin, Trotzky e Stalin hanno ammassato i tesori rubati alla popolazione, come ammette serenamente il pingue guardiano. Fra questi “tesori” ci sono il grano, il caviale, la vodka (per la propaganda)… il tutto stoccato con la dinamite e la polvere da sparo (per fomentare il terrorismo)! Prima di poter tornare sano e salvo nella natia Bruxelles – con tutta una folta e succosa serie di articolesse sulla nuova Russia stalinista – il nostro baldo reporter del Petit Vingtième dovrà vedersela ancora con le trappole che gli tende la rete di spionaggio della GPU in Germania.
La copertina di un altro numero del Petit Vingtième con all’interno una puntata di Tintin nel Paese dei Sovieti |
Il “mito sovietico” (un “inferno dei lavoratori”) viene dunque sfatato per i giovani lettori del “reazionario” settimanale belga attraverso gli occhi di un (fittizio) giovane testimone. Hergé – poco più che ventenne quando sceneggiò e disegnò le 121 tavole che compongono la storia sita in Russia – si cala nei panni del suo ancor più giovane protagonista. Scrive di getto, senza quel solido sostegno documentativo che, a partire dagli anni Trenta inoltrati, sarà la base dell’estremo realismo che caratterizzerà (fino a oggi!) le storie della scuola della Ligne Claire. Da qui – un ragazzo racconta ai ragazzi – la necessaria “semplificazione ideologica”, senza nessun approfondimento cultura
le del discorso socio-politico. Il messaggio anticomunista comunque voluto dall’autore e, soprattutto, dall’editore, nella sua brutalità espressiva, passa però inequivocabile, secco e chiaro – ovviamente pescando nei luoghi comuni, ben noti a tutti. Ecco dunque sfilare – come calcando le assi del palcoscenico parigino del Grand Guignol – il terrore “ghepeuista”, il continuo rischio di incarcerazione e di esecuzione sommaria, gli attentati politici, la vita che non vale più un soldo bucato, la fame endemica, i furti ai danni del proletariato in nome del proletariato stesso, le elezioni farsa, la burocrazia cialtronesca, il crollo della produzione industriale, la carestia dilagante, la paura dell’apparato, la casta al potere sempre ben “in carne”, l’annientamento delle tradizioni e del passato in nome di un radioso sol dell’avvenire che tarda indefinitamente a sorgere.
le del discorso socio-politico. Il messaggio anticomunista comunque voluto dall’autore e, soprattutto, dall’editore, nella sua brutalità espressiva, passa però inequivocabile, secco e chiaro – ovviamente pescando nei luoghi comuni, ben noti a tutti. Ecco dunque sfilare – come calcando le assi del palcoscenico parigino del Grand Guignol – il terrore “ghepeuista”, il continuo rischio di incarcerazione e di esecuzione sommaria, gli attentati politici, la vita che non vale più un soldo bucato, la fame endemica, i furti ai danni del proletariato in nome del proletariato stesso, le elezioni farsa, la burocrazia cialtronesca, il crollo della produzione industriale, la carestia dilagante, la paura dell’apparato, la casta al potere sempre ben “in carne”, l’annientamento delle tradizioni e del passato in nome di un radioso sol dell’avvenire che tarda indefinitamente a sorgere.
…e vissero infelici e scontenti a Chicago
E il “mito statunitense”? Il Nuovo Mondo evocato dalle pagine di Tintin en Amérique (apparsa a puntate sul Petit Vingtième nel 1931) è ben diverso da quello patinato, scintillante e dorato come appare nelle pellicole della Fabbrica dei Sogni. Al cinema però Hergé si ispira, come a una certa letteratura “popolare”, a quei dime novel (ovvero i romanzi su rivista che costavano un dime, nomignolo della moneta da dieci centesimi di dollaro, e venivano stampati su pulp, cioè su carta a bassa prezzo ricavata dalla polpa di cellulosa) che stanno anche alla base del fumetto giallo e soprattutto western tradizionale italiano (pensiamo a Tex e ai suoi precursori sui giornali per ragazzi pubblicati con straordinario successo durante l’Era Fascista – un’altra avvincente storia da narrare).
Il primo album che raccolse l’episodio completo di Tintin in America |
La Mosca disastrata del Paese dei Sovieti si trasfigura a Ovest in una Chicago violenta dove la malavita governa ogni ambito della vita cittadina. A comandare le gang c’è addirittura Al Capone, come nella realtà storica. Il periodo è quello immediatamente successivo alla Strage di San Valentino (avvenuta il 14 febbraio 1929, quando gli uomini del criminale di Capone sterminarono i “rivali” di Bugs Moran, l’irlandese). Siamo negli anni della Grande Depressione (che durò dal 1929 al 1935, creando disastri e morti) e del Proibizionismo (1919 – 1933, quando il Volstead Act e l’introduzione del XVIII emendamento alla Costituzione avevano vietato la fabbricazione, l’importazione, il trasporto e la vendita – praticamente anche il consumo – di ogni genere di alcolici, nel più puro spirito puritano americano). Depressione e Proibizionismo furono terreno fertile per ogni sorta di banditismo urbano.
Il Sindacato del Crimine (come i cekisti russi nella storia del 1929) individua subito in Tintin il nemico da abbattere. La molla che spinge tutta una serie di brutti ceffi mal sbarbati a “fare la pelle” a Tintin non è più l’ideologia e la politica, ma il verde frusciare del dollaro: Capone, a tale scopo, gira imbottito di “verdoni” più di un disneyano Paperone! La Chicago di Hergé è una città che pare l’antitesi di un inurbamento europeo, come potrebbe essere Parigi, nota come Ville Lumière. E’ una metropoli oscura. I loschi figuri che la popolano vivono mascherati, si servono di botole ad apertura controllata che fanno precipitare il malcapitato in livelli sotterranei che sembrano collegare come catacombe zone diverse e quartieri diversi. Agiscono dopo il crepuscolo, nell’ombra. La cinematografia gangsteristica viene nuovamente in soccorso a Hergé. I grattacieli notturni sono semplici silhouette rettangolari punteggiati dalle luci delle finestre. La disumanizzazione del “liberismo” è ben rappresentata da queste facciate di cemento tutte uguali.
La fuga verso la campagna di un capobanda del traffico illegale di whisky permette all’autore di dividere simmetricamente la storia in due parti uguali. Dalla narrativa gialla si passa bruscamente al romanzo western! E’ vero che le cosiddette Guerre Indiane erano terminate una quarantina d’anni prima dello svolgimento di Tintin in America, con il Massacro di Wounded Knee del 1890. Ma Hergé rievoca dalle tombe delle praterie quel passato sanguinario sfruttando l’arma della parodia e della satira.
Petit Vingtième: copertina di un numero che contiene una puntata di Tintin in America |
Da Chicago l’azione si sposta dunque a Redskincity, la Città dei Pellerossa. Il villaggio dei “visi pallidi” è contiguo alla riserva indiana. Ma l’arrivo dello scontro cittadino fra tutori della legge e criminali sconvolge il delicato equilibrio di coesistenza etnica. Gli Indiani scendono nuovamente sul piede di guerra, aizzati contro Tintin dal capobastone. Ed è qui che la satira anti-americana di Hergé, in uno stretto giro di vignette, si fa feroce. Tintin trova casualmente il petrolio proprio dentro i confini della riserva. L’accadimento scatena subito gli speculatori che sperano di convincere gli Indiani a evacuare in mezz’ora quello che era rimasto dei loro antichi territorio dietro un miserevole compenso di 25 dollari (quando lo stesso Capone ne pagava 500 di taglia per catturare il giovane giornalista)! Gli Indiani rifiutano. Un’ora dopo l’esercito americano spinge via in punta di baionetta papoose e squaw. Due ore dopo i muratori cominciano già a costruire edifici. Tre ore dopo c’è già in piedi la Petroleum & Cactus Bank con tanto di portiere negro di guardia. La mattina successiva, dove c’era la pacifica riserva di Redskincity, c’è u
na megalopoli affogata di traffico!
na megalopoli affogata di traffico!
La parodia del Far West continua altrove. Hergé prosegue nel geniale uso degli stereotipi letterari. Stereotipi fino a un certo punto, però! Tintin, scambiato per un ladrone messicano, rischia il linciaggio con corda e sapone e solo per una casualità il cappio si spezza permettendogli di darsela a gambe. Esemplare di come un ventenne engagé, come poteva esserlo il fumettista Remi nei primi anni ’30, vedesse l’America dall’Europa è la trasmissione radio che sta ascoltando uno sceriffo ubriacone seduto nel suo ufficio: Ed ecco gli avvenimenti della giornata trascorsa, a cura del Prof. W. R. Law esperto in statistica. 24 banche hanno chiuso i battenti. 24 banchieri sono stati arrestati. Sono stati rapiti 35 bambini. 44 negri sono stati linciati. 150 galloni di candeggina trasformata in champagne sono stati sequestrati dalla polizia: il coroner e 29 poliziotti sono all’ospedale!
Non solo i riferimenti alle crisi delle banche ci rimandano non al 1929, bensì al 2008, ma in poche righe Remi ci delinea un sistema legislativo/giudiziario/economico americano carente e in preda alla corruzione! Numerosi gli accenni ai rapimenti, che sarebbero culminati nel 1932 con la sparizione di Baby Lindbergh, figlio di Charles, l’asso americano dell’aviazione civile.
Un’altra copertina americana del Petit Vingtième |
Di ritorno in città dalle sconfinate praterie, la solfa non cambia. La satira di Hergé punge il sistema americano sul piano della produzione del denaro. Il cane Milou è stato rapito per ricattare Tintin e la ricerca del botolo porta il nostro eroe a scoprire il volto non tanto nascosto dell’America. Sono i particolari che ci rivelano l’idea politico-sociale che aveva dell’America il nostro Hergé. La cella in cui il reporter è rinchiuso per una notte è popolata da ubriachi, barboni e cinesi – in una sorta di melting pot della galera. Quella che sembra una statua di un personaggio famoso, si rivela la squallida, pacchiana pubblicità di cibo in scatola. Ben in vista all’ingresso di un locale campeggia il cartello Ai gangster riuniti – Distilleria clandestina – by Appointment to Presidence of USA (in inglese anche nell’originale, come quando la Casa Reale britannica sponsorizza una marca di tè). I rapitori hanno messo in essere un’industria del sequestro, identificando ogni ostaggio in base al compenso che possono riscuotere per la liberazione dello stesso. E in parallelo alla catena di montaggio dei rapiti il capo della banda spiega la nuova idea commerciale dietro l’impresa criminale. Per combattere la crisi facciamo degli scambi. Le fabbriche automobilistiche ci spediscono le loro vecchie macchine, con le quali noi produciamo lattine per conservare la carne, di qualità garantita. Da parte nostra noi consegniamo alle fabbriche le lattine che i nostri uomini raccolgono un po’ dovunque e quelli ci costruiscono i modelli di automobili sportive che tanto successo riscuotono! E’ il nastro di Moebius perfetto. Il ciclo di produzione infinito che riproduce all’infinito se stesso. Come nel vecchio film di fantascienza Soylent Green con Charlton Heston, dove a un’umanità sulla soglia dell’estinzione non rimane che cibarsi dei suoi stessi cadaveri, ridotti a crackers verdi!
L’episodio termina con una classica ticker-tape parade, detta anche “canyon degli eroi”. Si tratta di una sfilata in un centro urbano americano (in una strada dominata dai grattacieli, che creano per l’appunto un “canyon” artificiale) dove l’eroe di turno, in piedi su una Limousine cabriolet, viene festeggiato con il lancio dai palazzi di milioni di striscioline di carta che plasmano un efficace “effetto neve”. Ma l’ultimo, ingegnoso sberleffo di Hergé sta proprio qui. Nel “canyon degli eroi”, per aver sconfitto la mala di Chicago, non sfila un americano – ma un giovane europeo!
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