7 Ottobre 2024
Appunti di Storia

1950: continuano le violenze antifasciste

Pietro Cappellari

(“L’Ultima Crociata”, a. LXXIII, n. 9, Dicembre 2023)


 

Come, a cinque anni dalla fine della guerra, intere regioni vivevano nell’incubo dell’odio politico

 

Abbiamo detto già in precedenza, che la “guerra” partigiana esplose in tutta la sua virulenza epuratrice solo dopo il passaggio dei carri armati angloamericani: le mattanze di civili e militari della RSI, inermi e innocenti, avvennero subito dopo il 21 Aprile 1945, giorno della caduta di Bologna e dello straripamento delle Armate “liberatrici” nella Pianura Padana che rese vana ogni ulteriore resistenza italo-tedesca. Da quel giorno, tutta l’Italia settentrionale, seguendo la progressione degli eserciti alleati, cadde in mano partigiana. Iniziò la resa dei conti. Gratuita, ingiusta, vile e criminale. Un odio senza precedenti spaccò comunità e famiglie, il sangue riempì i fossi, la vendetta insensata – troppo spesso esaltata in uno sfogo bestiale di brutalità – riempì l’aria e appestò intere regioni per mesi e mesi. A migliaia si contarono i morti. E la guerra era finita.

Una violenza – la violenza antifascista – che non ebbe praticamente una fine e solo negli anni ’50 subì una flessione che fece pensare possibile una pacificazione nazionale. Ma fu un sogno di breve durata perché, nel Luglio 1960, il PCI diede vita ad una nuova stagione di violenza antifascista per impedire ogni ipotesi di apertura al MSI e proporsi come partito di governo, reinventando la stagione della Resistenza a suo uso e consumo, rispolverando i “fasti” del CLN. Ma questa è un’altra storia.

La guerriglia partigiana – fatta di violenze gratuite, stupri, stragi, ruberie – scoppiata nei paesi “liberati” dopo il 21 Aprile 1945 durò a lungo, almeno fino al 18 Aprile 1948, quando la storica vittoria della Democrazia Cristiana alle elezioni di quell’anno – e la clamorosa sconfitta dell’asse sovversivo PSI-PCI – posero finalmente fine al clima di terrore imposto dai partigiani. Certamente, violenze continuarono anche dopo quella storica vittoria – o sconfitta, a seconda dei punti di vista – ma l’Italia aveva preso ormai una strada molto diversa da quella che sognavano i partigiani, il cui apparato militare perse ogni significato e si avviò alla liquidazione militare e politica. Era iniziata davvero una nuova stagione.

Ma le violenze antifasciste ovviamente continuarono, soprattutto in quelle regioni dove il PCI si impose come primo partito.

La nascita del MSI, nel Dicembre 1946, fu un atto senza precedenti, uno scandalo per i “liberati” che, per la prima volta, dovevano pagare lo scotto dei valori democratici. Se la libertà era un valore cardine della Costituzione, come impedire ai fascisti di riorganizzarsi e, rispettando la legge, di pensare liberamente?

Iniziò allora il solito gioco dei pesi e contrappesi. Se conveniva avere i fascisti in democrazia oppure no. Le varie decisioni che si presero furono tutte legate al “sacro” egoistico interesse di ogni partito al momento del confronto elettorale. Nulla di morale o di ideale.

Le prime Sezioni del MSI, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, vissero una vita eroica, come fortini assediati, impossibilitate a svolgere ogni azione politica propria. Violenze erano all’ordine del giorno e i primi morti del Movimento Sociale Italiano si contarono proprio in quei mesi. Si pensi a Vittorio Ferri (Pisa, 14 Luglio 1948) e ad Achille Billi (Roma, 5 Aprile 1949).

Il clima che si respirava in intere regioni italiane era denunciato nel Dicembre 1949 da “Lotta Politica”, il giornale del MSI. Un articolo che dipingeva una situazione insostenibile e che preannunciava nuovi lutti, come sarà effettivamente e tragicamente con l’omicidio di Cesira Rossi (Bologna, 24 Aprile 1950).

Sono anche i mesi in cui, con estremo coraggio, nonostante tutto e tutti, veniva fondata “L’Ultima Crociata” (25 Aprile 1950) e si ufficializzava la costituzione dell’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della RSI (25 Novembre 1950).

Vale la pena rileggere attentamente quel pezzo di “Lotta Politica”, per comprendere come i fascisti vivevano alla vigilia della prima grande affermazione del MSI (1951-1952), che aprì una nuova stagione di speranze. Speranze vane, come abbiamo accennato, che crollarono definitivamente davanti al montare dell’odio antifascista voluto dal PCI nel Luglio 1960.

Bologna – Un tempo le guerre si conducevano su determinati fronti, oggi in guerra entrano le Nazioni in tutta la vastità del loro territorio e non c’è palmo che non sia sottoposto alla minaccia delle forze nemiche. Ad essa, nell’ultima, si sono aggiunte le minacce, le più spaventose forse della guerra civile e la divisione interna miete ancora le sue vittime e siano queste in numero più o meno limitato non ha importanza purché si senta gravare sul capo – come una spaventosa spada di Damocle – la minaccia cupa, orribile ed assurda della morte per chi pensa in una determinata maniera. E la morte è forse più brutta per chi sa che rimarrà invendicata, per chi sente che la propria vita è legata all’arbitrio di un nemico il quale trovando la forza del gesto ne potrà portare quel vanto che in tempi meno liberi e meno democratici era riservata ad azioni più onorevoli.

Per questo oggi in Emilia, dopo quattro anni dalla fine della guerra, ancora si ha paura. Paura della raffica di mitra sparata dietro la siepe, paura della morte in agguato lungo la strada, paura per la vita dei propri familiari, paura per l’integrità fisica dei propri figli, paura di compromettersi con una parola, paura di morire ammazzati per un’antipatia, paura di esprimere la propria opinione, insomma tutto quello spaventoso complesso che si deve in omaggio alla libertà importata e codificata dalla democrazia.

 

La ‘pace’ non ritorna

 

Anche nelle città emiliane si sta attenti, ma nelle campagne si sente il terrore. Inutile chiedere al contadino qualcosa, egli non sa nulla, forse ha visto, certo ha sentito le urla della ragazza violentata, il grido folle del bimbo ferito a morte, gridare la madre, il gemito del morente e la scarica rabbiosa, ma tace, perché null’altro può fare oltre che tacere se vuole preservare la vita a sé ed ai propri figli.

Oggi i giornali governativi strombazzano su titoli enormi gli arresti di alcuni fra i tanti assassini. Ritorna la pace, ritorna la tranquillità dicono. Poi, in genere, dopo un mese, quegli uomini il cui arresto determinava la pace e la tranquillità vengono assolti, amnistiati, o peggio, rilasciati perché il fatto non costituisce reato. E allora la pace, la tranquillità dove va a finire? Giustizia si risponde. Ma la giustizia non può essere – così dicono i contadini, così mi diceva un contadino vecchio rugoso – democristiana o comunista, la giustizia deve essere una sola per chi ha ucciso, chiunque ha ucciso, paga. Oggi nelle aule dei tribunali non si sentono gli avvocati battersi per l’innocenza dell’imputato se non confesso, per racimolare attenuanti o scusanti, no, oggi il difensore affonda le sue mani nelle carni martoriate della sua vittima, oltraggia la sua memoria, specula sulla sua vita, infierisce sul suo passato e tutta la sua cura, tutta la sua oratoria, è tesa a dimostrare il pensiero politico della vittima per cui risulti che ad uccidere, a seviziare, a vessare l’imputato ha fatto non solo bene, ma ha fatto il suo dovere ed il tribunale con la assoluzione ne rilascia il riconoscimento ufficiale.

È indubbio che questa forma di giustizia faccia piacere e piaccia ad alcune correnti, ma la massa del popolo non è né democristiana né comunista e se questa forma strana di giustizia è progressista e democratica si sappia allora che il popolo non l’intende perché il suo sapere atavico ha radici ben più profonde e prende le sue mosse da quella giustizia romana che gli Italiani, troppi Italiani hanno dimenticato. E solo in quella, al di fuori di ogni machiavellismo politico, egli crede. E quando vede passare libero l’assassino – non gli importa se di un fascista o di un presunto totale – egli solo così lo considera e si ritrae.

 

Erano ‘fascisti’

 

In questi giorni sono stati arrestati alcuni partigiani. Le imputazioni sono mostruose. Il saccheggio, l’assassinio, la violenza carnale vi figurano abbondantemente. Vi figurano l’uccisione di bimbi. Sette uomini hanno violentato, uno dopo l’altro, una ragazza poi l’hanno uccisa. Essi ammettono i fatti, solo si scusano dicendo che erano fascisti. Qualche avvocato di buona volontà dimostrerà che la ragazza, i bimbi, che i quattrini erano fascisti. Forse gli autori usciranno. “L’Unità” impazza, manda inviati speciali che raccontano le benemerenze partigiane degli assassini e chiede siano rilasciati. I democristiani tacciono: gli imputati sono esclusivamente comunisti. Forse usciranno gli assassini, forse saranno condannati, ma non importa. Non importa perché resteranno fuori tutti gli altri che hanno ucciso, rubato, vessato, e violentato i fascisti o i presunti tali. Basta che uno, uno solo non venga condannato per aver ucciso, perché si infanghi il concetto di giustizia, perché il terrore continui, perché continui la paura, perché continui questa situazione ambigua e bifronte nelle campagne emiliane.

 

Due esempi

 

Due esempi, due esempi soli fra i tanti, i meno complicati, i meno terrificanti. A Piacenza, una delle zone più calme, ci raccontano che il Sindaco di un paese ha ucciso di sua mano e di sua volontà nella prima metà del ’45 un prigioniero. L’ha tratto dalle prigioni, l’ha portato sulla tomba di un partigiano dicendogli che voleva vendicare la sua memoria, l’ha colpito alla nuca lasciandolo verso sulla tomba. Al processo risulta che il partigiano era stato ucciso da partigiani per questioni di danaro, che il prigioniero non aveva alcuna imputazione a suo carico ma il Sindaco fu assolto. Reato politico.

Un altro; a Parma alcuni partigiani fanno fuori – dicono così qui in Emilia con tranquillità, tanto sono abituati – un agricoltore per questioni di danaro ed insieme ammazzano il suo fattore. Li seppelliscono sotto un filare con i piedi fuori dalla terra – quattro piedi mostruosamente inerti che spuntano fuori – e vi attaccano un cartello: ‘Scarpe al sole’. Gli imputati erano tre e confessi: assolti. Reato politico.

 

Verdi cimiteri

 

E così a Reggio, a Modena, a Bologna, a Ferrara, a Ravenna, a Forlì. Chi non ha letto le cronache di questa regione? Per tutta l’Emilia è la stessa storia. Qui più, là forse meno, ma è la stessa paura, e lo stesso ricordo vivo e cocente della raffica e dell’urlo notturno. Tutti l’hanno sentito. Chi più, chi meno, una volta tutti e l’eco rimane ancora nelle orecchie come qualcosa che brucia. Però si tace.

Si lavora. I campi – per quanto si abbia l’impressione dolorosa di camminare su un cimitero – sono là, verdi, ben curati. Nelle officine – fra uno sciopero e l’altro – si lavora. Ma anche il lavoro per quanto curato, non è sentito. Si lavora rabbiosamente come per dimenticare. Non si odono né canti né risa. Come si lavorasse in un cimitero pulito, bello, ordinato; ma un cimitero. I campi felici e ridenti, le officine sonanti, sono un ricordo di anni fa. Oggi si lavora come una maledizione. Occorre giustizia, occorre la Giustizia per l’Emilia. Con la ‘g’ maiuscola, né comunista né democristiana. Per ridare coraggio e un sorriso a quei bimbi che hanno visto morire il padre e che si sono sentiti sfiorare dalla morte e che ora tremano tutte le volte che vedono l’assassino e il suo complice” (L.B., Giustizia per l’Emilia. Ancora la paura nelle campagne e nelle città, “Lotta Politica”, a. I, n. 8, 10 Dicembre 1949).

Questo articolo ci riporta indietro nel tempo, in un’Italia che fortunosamente non c’è più. Eppure l’odio antifascista ancora non è morto, l’Italia di Piazzale Loreto è ancora tra noi. Il nostro pensiero, comunque, non può non andare a quegli Italiani che – rischiando la vita – seppero rimanere fedeli alle loro idee e, in quegli anni di dolore e persecuzione, non ebbero il timore di schierarsi con il Movimento Sociale Italiano che di quegli ideali era la nuova incarnazione. Avrebbero potuto – come molti fascisti dei “bei tempi” fecero – aderire alla Democrazia Cristiana, al limite anche al Partito Liberale o inventarsi un partito di destra nazional-democratico. Non lo fecero perché vollero rimanere se stessi. Quanti sacrifici solo per un’affermazione ideale. È il caso di ricordarlo, soprattutto oggi che la politica dà un tristissimo spettacolo di sé e il paragone con il passato è schiacciante, quanto impietoso.

 

Pietro Cappellari

(“L’Ultima Crociata”, a. LXXIII, n. 9, Dicembre 2023)

 

 

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