Ecco: ‘Aprile è il mese più crudele, genera – Lilla da terra morta, confondendo – Memoria e desiderio, risvegliando – Le radici sopite con la pioggia della primavera. – L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse – Con immemore neve la terra, nutrì – Con secchi tuberi una vita misera’. Così prende avvio l’esile raccolta in versi, anno 1922, titolo La terra desolata. Thomas Stearns Eliot, il poeta, con dedica a Ezra Pound ‘il miglior fabbro’, che l’aveva indotto a pubblicarli. E aggiunge: ‘Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono – Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo, – Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto – Un cumolo d’immagini infrante, dove batte il sole, – E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo, – L’arida pietra nessun suono d’acque’.
Versi che sembrano profetici, adatti a quell’aprile di ventitre anni dopo, nella terra devastata che fu l’Italia della guerra civile. E di quella memoria, di quel desiderio, si rende eco proprio l’amico Pound, originari entrambi degli Stati Uniti, racchiuso nel-la gabbia di Metato, nei pressi di Pisa. Sono i giorni dello scempio di Piazzale Loreto del corpo di Mussolini, appeso a testa in giù alla grata di un benzinaio, ‘così Ben e Clara a Milano – per i calcagni a Milano’, mentre in tutto il Settentrione una vera e propria ‘macelleria messicana’ bagna la comune terra dei padri di rosso sangue, di uomini e donne che vollero essere, estremo atto di fedeltà, esempio vivo di un partito di ‘credenti e combattenti’. Uomini e donne che seppero ben vivere e ancor più ben morire (purtroppo duole riconoscere, sebbene tanto ancora rimane avvolto dal mistero, più e meglio di Colui a cui avevano rivolto la mente e il cuore), ‘per costruire la città di Dioce che ha terrazze color delle stelle’. In questo esordio senza vile e comodo rinnegamento, Ezra Pound si rivolge a Eliot, rovesciando il senso di quei versi con cui, anno 1925, aveva concluso il poemetto Gli uomini vuoti – ‘E’ questo il modo in cui finisce il mondo – Non già con uno schianto ma con un piagnisteo’ – perché quegli uomini e quelle donne seppero donarsi con ‘uno schianto, non una lagna’. E, a rafforzarne il valore, lo reitera due volte.
Aprile 1945. Ogni anno ad assistere all’ipocrita sterile falsa rappresentazione di una festa per la vittoria di una guerra che fu, al contrario, persa (e ce lo ricordarono fin da subito gli autentici ‘liberatori’, Parigi 10 febbraio 1947, collocando il nostro Paese sullo stesso banco dei vinti, tedeschi e giapponesi. O, forse, con un distinguo preciso e netto – e anche questo sopravvive e ci viene rammemorato – di come con la resa, gabellata da armistizio!, del ‘l’ignobil 8 di settembre’ corremmo lesti fa le braccia dei vincitori. Solo pochi a ritrovarsi e onorare quel sangue generosamente versato… Noi i memori, noi soli, di un riscatto di dignità ed orgoglio per tutti, anche per coloro che lo ignorano o lo disconoscono.
1922, anno de La terra desolata, esordio pubblico di Eliot. Giornate di ottobre, anno medesimo, terra d’Italia, una promessa in marcia, un sogno grandioso sotto la fitta e lieve e fastidiosa pioggia. Sovente le promesse vengono vanificate dalle necessità di un presente, tempo e circostanze, con molte contraddizioni e qualche compromesso di troppo; i sogni anche essi corrono il rischio di disperdersi all’alba e quelli ad occhi aperti magari davanti al plotone d’esecuzione. Il Fascismo visse breve la stagione dei suoi vent’anni, troppo breve troppo giovane (un organismo abbisogna per crescere di molteplici stagioni), con il 1945 non s’è concluso, è rimasto soltanto incompiuto… Le sue promesse rimangono, appunto, come i suoi sogni – noi, immeritatamente, ne siamo i testimoni senza armi e poeti privi del verso. Di fronte all’età dei Titani questo nostro oggi ci appare volgare ed infido, presenza di nani, dominio d’orchetti. Proprio in ciò si raccoglie la fierezza e la speranza.
Giornate di fine ottobre, anno 1922. Squilli di tromba rullano i tamburi, fremono dei BL 18 i motori e gli uomini, svegliatisi in piena notte, vi salgono sopra e si passano la fiasca del vino e si riconoscono, pacca sulle spalle, bisbiglio. Altri occupano stazioni e mettono in pressione locomotrici agganciano vagoni riempiono gli scompartimenti e lo stesso sorriso il gusto del medesimo vino il chiacchierio di amici ritrovatisi. Ed altri ancora a cavallo o in calesse. I più in lunghe file, a piedi. Poche le armi e disparate, il moschetto 91 il revolver nella cinta dei pantaloni grappoli di bombe a mano ‘pugnal fra i denti’ il nodoso randello – ricordi recenti di spedizioni contro sedi dei sovversivi vetri in frantumi porte sfondate mobilio accatastato falò di giornali bandiere le foto di Marx e Lenin e di Filippo Turati. Con l’elmetto e il fez degli arditi la mantellina e la coperta arrotolata sulle spalle (madre generosa dei nostri sacchi a pelo in giro per le ‘strade d’Europa’). La pagnotta le fette di salame e di cacio il fiasco la borraccia rari i pasti caldi durante le soste, manto di stelle.
A dispetto delle tesi di Renzo De Felice, l’emergere dei ceti medi, ci sono sì borghesi e studenti e commercianti, monarchici e conservatori, ci sono però i figli del popolo, contadini e operai, socialisti di ieri e libertari di sempre, di quel Fascismo ‘immenso e rosso’ (come lo definirà, dieci anni dopo, lo scrittore Robert Brasillach). Lungo strade polverose e dure, tutte a convergere verso Roma, sta nascendo la nuova Italia, che sarà ‘proletaria e fascista’ (proletaria, intesa a dare giustizia sociale; fascista, intesa a creare un mondo di valori altri ed alti). Occhi grandi, puliti, aperti, fiduciosi.
Alcuni indossano ancora il pastrano del fronte altri la giacchetta, i più la camicia nera le medaglie raccolte durante gli assalti alle trincee austriache sul Carso, sui monti del Trentino. Aprono le colonne i vessilli della Patria i gagliardetti delle squadre dai nomi fascinosi e a ricordo dei camerati assassinati. Cantano inni appresi sotto il rombo del cannone il crepitio della mitraglia la baionetta innestata; gli stornelli strafottenti e audaci, magari contro quel Nicolino Bombacci, fondatore del Partito Comunista, e che seguirà l’amico e Duce nell’estremo e tragico viaggio, a farsi fucilare con il pugno chiuso e al grido ‘Viva il socialismo! Viva Mussolini!’.
E Roma appare loro, cinta di mura campanili svettanti cupole grandiose ruderi antichi e monumentali. Il passato muto concorda con il futuro che ognuno di loro riserva nella mente nel cuore. In modo confuso, forse, ma arde passione grande per grande incendio. Per questa città, sorniona e flaccida, pur eterna, come puttana distesa sul talamo ove ha accolto fra i suoi seni copiosi e le cosce generose, per secoli, razze e popoli e culture e tutte le si sono inchinate e ad essa hanno prestato un giuramento e un amore tenace e appassionato. ‘Roma ladrona’, verrà poi, quando non saranno più gli uomini liberi e forti a proteggerla ma guitti e saltimbanchi, proconsoli di altro e turpe impero con la Bibbia in mano (ipocriti cialtroni!) e il portafoglio formato da stelle e strisce… ma questa è altra (pseudo) storia.
Prossimo l’anniversario della Marcia, unica e irripetibile. Non è mio l’intento di farne rivisitazione storica – di piccoli eredi del Bignami, pedanti e prolissi, ne abbiamo già in numero a iosa e ne conosciamo il nome e il cognome (non se ne abbiano a male di queste misere punture di spillo, perchè forse non meritano fendenti di sciabola e la testa spiccata da colpo di katana). Lasciamo che sia il linguaggio del corpo a narrarci, appunto, di quei giovani su quei Bl 18, del fez e della camicia nera, il moschetto 91 il fiasco di vino e per coperta il cielo corruscato da nuvole basse. Ai saccenti sfogliare i Renzo De Felice, magari cercando di distinguersi e fargli le pulci (non guerra di Titani ma battaglia di ranocchie nel pantano). Ad altre priorità il nostro cuore s’è battuto e nella mente sogni che furono risveglio di sconfitte ma sempre ci tornano vividi e, pur avendone pagato caro il prezzo, con nostalgia…
28 ottobre, cinque anni prima. Porta Pracchiuso, a rispondere con il proprio sangue e le bombe a mano al grido disperato degli Udinesi, prossimo l’austro nemico avido di depredare uomini e cose, nei giorni tragici della rotta di Caporetto. Gli arditi. Oggi una targa ne ricorda il sacrificio; nel centenario giovanile commemorazione. Gli ardi-ti, fratelli più grandi, come i legionari a Fiume, degli squadristi. Questo è il mito della giovinezza che merita essere annoverato e fatto proprio. Questa la tradizione che si rinnoverà quando, aprile crudele, chiederà altro sangue ai ‘balilla che andarono a Sa- lò per riscattare l’Onore della Patria, credenti e combattenti…
Altro non conta o poco conta. Essere fascisti contro pedanti e prolissi ‘faccia al sole e in culo al mondo!’. Sempre. 28 ottobre 1922 e a seguire.