Dopo un congruo lasso di tempo riguardo al quale abbiamo delle novità che sono emerse, riprendiamo il nostro discorso sulle origini. In realtà, non si tratta di aggiungere molto a un quadro che ci è ormai ben chiaro, quelle che troviamo sono ormai semplicemente delle conferme.
Tuttavia, questo non fa che evidenziare la situazione paradossale della verità sempre più difficile da nascondere che contrasta con la “verità” ufficiale imposta dall’ortodossia democratica che da settant’anni spaccia come dogmi irrefutabili (o ad andare contro i quali si va incontro a una dura repressione), una serie di menzogne: l’inesistenza delle razze, l’uguaglianza degli uomini, la non centralità nella civiltà umana del nostro continente e dell’uomo caucasico di ceppo europeo-indoeuropeo, tutto ciò, palesemente, allo scopo di indorarci la pillola dell’imminente sparizione dei popoli europei nel marasma dell’imbastardimento multietnico.
Naturalmente, le informazioni importanti circa le nostre origini, come su tutto il resto, continuano a circolare in forma clandestina o semi-clandestina, approfittando soprattutto del fatto che, almeno per ora, internet è difficilmente controllabile dal potere, mentre le riviste, i testi di divulgazione scientifica, i corsi universitari, continuano perlopiù a ripetere le solite inattendibili, falsissime banalità a cui il potere “democratico” vorrebbe che credessimo.
Da questo punto di vista, un gruppo presente su facebook dal cui materiale pubblicato ho tratto più volte ispirazione per questi articoli, è “European and indo-european Identity and ethnic Religions”, che alterna testi in lingua inglese e in italiano.
Ultimamente, “European…” ha pubblicato alcuni estratti di Amnesia, our forgotten History (“Amnesia, la nostra storia dimenticata”) e/o Atlantis, Lemuria and lost Civilizations (“Atlantide, Lemuria e civiltà perdute”) di Robert Sepehr. (l’e/o va inteso nel senso che non è chiaro se si tratti di due testi diversi o del titolo e sottotitolo della medesima opera). Che non ne sia disponibile in Italia nulla di più ampio, è in ogni caso una circostanza di cui non ci si può che rammaricare, perché da quello che se ne può desumere, l’autore ha da raccontarci della nostra storia più remota una versione molto diversa da quella ufficiale.
Uno di questi stralci ci racconta di Gobeckli Tepe ma, al riguardo, prima di parlarne, sarà bene fare un passo indietro. In questa località anatolica non prima del 1995, gli scavi archeologici hanno messo in luce il fatto che sotto la “collina rotonda” (tale è il significato del nome in lingua turca) si celava un complesso megalitico interrato risalente a 12.000 anni fa, e quindi più antico di tutti quelli finora conosciuti.
Io vi ho già parlato altre volte di quegli oggetti misteriosi che vengono chiamati OOPARTS (Out of Place Artifacts), oggetti fuori posto, fuori dal tempo, nel senso che sembrerebbero essere estranei al contesto storico nel quale sono ritrovati, alle conoscenze tecniche delle rispettive epoche. In un certo senso, possiamo dire che Gobeckli Tepe sia il più gigantesco OOPART conosciuto; infatti, sarebbe datato a un’epoca anteriore a quella della rivoluzione agricola neolitica, ed è letteralmente impossibile che rade tribù di cacciatori-raccoglitori come quelle che si suppone vivessero prima del neolitico, che dovevano impegnare tutti i loro sforzi nella sopravvivenza giorno per giorno, che non disponevano di eccedenze alimentari, e tra le quali, quindi, non ci potevano essere lavoratori specializzati in altro che il procacciamento del cibo che consentisse di sopravvivere possano aver creato una struttura come il grande complesso megalitico emerso dalla “collina rotonda” anatolica (in realtà un tumulo artificiale sotto il quale il monumento megalitico è rimasto interrato e preservato per millenni).
La spiegazione che viene addotta, che la religione sarebbe stata il centro di aggregazione delle diverse comunità umane in contesti più vasti prima ancora della rivoluzione agricola, in realtà non dà una vera risposta, essa ci dà una credibile motivazione, ma non spiega assolutamente quali mezzi avrebbero reso possibile l’edificazione del complesso megalitico.
Come ricorderete, in una parte precedente, la diciannovesima, di questa serie di scritti, avevo proposto una spiegazione del mistero di Gobeckli Tepe rifacendomi alla teoria dell’ “Atlantide pontica”.
Noi sappiamo che durante l’età glaciale il livello dei mari era considerevolmente più basso che nell’era odierna, perché una grande quantità di acqua si trovava sulla superficie delle terre emerse sotto forma di ghiaccio. Il disgelo dei fronti glaciali non sarebbe avvenuto sempre in maniera graduale, ma avrebbe dato luogo in diversi tempi e luoghi a inondazioni improvvise e violente che sarebbero alla base di leggende come quella del diluvio e di sommersioni di terre come Atlantide, e il ricordo di questi episodi si ritrova nel patrimonio mitico-leggendario praticamente di ogni popolazione del nostro pianeta.
Secondo gli oceanografi Bill Ryan e Walter Pitman, fino a una dozzina di migliaia di anni fa, quello che oggi è il Mar Nero, era un lago di acqua dolce di dimensioni considerevolmente inferiori a quelle attuali. Questa teoria non deriva da speculazioni astratte, ma dallo studio dei fondali del Mar Nero con l’ecoscandaglio, che avrebbe permesso di individuare la linea di costa dell’antico lago a circa 110 metri di profondità attuale. Non esistendo di fatto il Mar Nero così come è oggi, l’Anatolia sarebbe stata unita all’Europa, e proprio nella fertile pianura oggi sommersa che si stendeva attorno all’antico lago pontico, che doveva presentare le condizioni più favorevoli all’insediamento umano, si sarebbe sviluppata la più antica civiltà agricola. Questa teoria è esposta in dettaglio nel libro “I pilastri di Atlantide” di Ian Wilson.
Quando 12.000 anni fa, l’inondazione proveniente dal Mediterraneo avrebbe distrutto il ponte di terra che si trovava là dove oggi sono il Mar di Marmara, i Dardanelli e il Bosforo, le popolazioni rivierasche sarebbero state costrette a darsi precipitosamente alla fuga, irradiandosi verso l’Europa e verso l’Asia. Fra loro, ipotizza Wilson, vi sarebbero stati anche gli antenati degli Indoeuropei.
Si può anche osservare una coincidenza temporale che se fosse davvero una coincidenza, la cosa sarebbe francamente sbalorditiva: è precisamente a dieci millenni prima della sua era che Platone pone la narrazione dello sprofondamento di Atlantide, cioè proprio all’epoca della catastrofe del Mar Nero.
Ora, io vi avevo fatto osservare che se accettiamo questa teoria, il mistero di Gobeckli Tepe non è più tale: tutto quadra. Gobeckli Tepe sarebbe stata realizzata da una comunità di profughi dall’Atlantide pontica, una comunità già agricola e verosimilmente urbana. Sarebbe come se gli attuali Australiani fossero assorbiti dalla popolazione aborigena o magari si trasferissero altrove, lasciando gli archeologi di un remoto futuro a domandarsi “Ma come avranno fatto gli aborigeni che non sapevano nemmeno levigare la pietra a costruire l’Opera di Sidney?”
Sebbene questa sia la spiegazione più logica del mistero di Gobeckli Tepe, l’unica che combacia con i dati disponibili, dubito molto che diventerà popolare, ha il “difetto” di rimarcare il fatto che l’antico santuario megalitico è stato creato da una popolazione bianca di ceppo caucasico affine agli attuali indoeuropei, di sottolineare una volta di più l’idea “razzista” che tutto ciò che conosciamo sul nostro pianeta come civiltà è il prodotto di un determinato tipo umano, proprio quello che l’attuale potere mondialista vuole “graziosamente” e gradualmente portare all’estinzione.
Bene, al riguardo Robert Sepehr ci fornisce una prova difficilmente eludibile, il ritrovamento di una statua proveniente precisamente dal santuario megalitico anatolico e risalente a 12.000 anni fa, verosimilmente la più antica conosciuta, che con ogni probabilità raffigura uno degli abitanti di Gobeckli Tepe, un uomo dai lineamenti prettamente europidi e le cui pupille sono costituite da due pietruzze azzurre. Nell’illustrazione che trovate nell’intestazione di questo articolo, è la figura di sinistra. Quella che l’affianca è una figura molto più recente, risalente “solo” a tre millenni or sono, ma che ha il pregio di farci notare come novemila anni dopo l’edificazione del santuario megalitico, popolazioni dagli occhi cerulei fossero ancora presenti in Anatolia.
Un altro frammento di Robert Sepehr ci racconta un’altra storia molto interessante. In una caverna del Nevada nota come Spirit Cave (caverna dello spirito) nel territorio degli indiani Paiute sarebbe stato ritrovato lo scheletro di “un gigante” parzialmente mummificato, il cui cranio conserverebbe ancora ciuffi di capelli rossi. Purtroppo il testo non ci dà un’informazione esatta della reale statura di questo gigante (noi sappiamo che spesso anche persone con una statura di una ventina di centimetri maggiore di quella della media della popolazione più diffusa, sono indicati come “giganti”), che i ricercatori si sarebbero rifiutati esaminare “per motivi politici” (e noi sappiamo benissimo quali, soprattutto negli USA, sedicente “patria della libertà”, gli scienziati devono camminare sulle uova per non contraddire i dogmi democratici, esponendosi a pesanti ritorsioni sulle loro carriere e sulle loro vite).
Sarah Winnemucca, discendente di capotribù Paiute, esperta delle tradizioni del suo popolo e attivista per i diritti dei nativi, racconta in proposito una storia molto interessante. Questo ritrovamento si accorderebbe molto bene con le tradizioni della sua gente, che raccontano che essa si sarebbe sostituita, sterminandola in tempi remoti, a una popolazione di pelle chiara e dai capelli perlopiù biondi o rossi. Lei stessa conserva alcuni ciuffi di capelli chiari appartenuti a questo popolo scomparso, che avrebbe voluto consegnare ai ricercatori perché li esaminassero, ma questi ultimi si sono rifiutati di prenderli in considerazione.
Come sempre, l’armamentario della democrazia consiste nel rifiuto dei fatti, nel non prendere in considerazione l’evidenza, nella censura delle informazioni e delle idee.
Quella della presenza di un antico popolamento bianco delle Americhe, molto più antico di Colombo e anche dei Vichinghi, è una tematica che abbiamo affrontato più volte. Secondo l’ipotesi formulata nel 1999 da Dennis Stanford e Bruce Bradley, archeologi dello Smithsonian Institute, l’industria litica Clovis, la più antica delle Americhe, testimonierebbe l’arrivo nel Nuovo Mondo di popolazioni provenienti dall’Europa, cacciatori di foche e trichechi che si sarebbero mossi lungo l’estesa banchisa artica esistente nell’età glaciale; essa infatti ha una spiccata somiglianza con l’industria solutreana europea mentre non ne ha con le contemporanee produzioni litiche della Siberia. A ciò vanno aggiunte le testimonianze su popolazioni “amerindie” bianche estinte in epoca storica (i Mandan) o tuttora esistenti ( gli Aracani e i Kilmes; in particolare, riguardo ai Kilmes si può fare riferimento all’ottimo libro Iperborea di Gianfranco Drioli), ma soprattutto in tempi recenti è venuta la prova irrefutabile del DNA. Circa un terzo del genoma degli attuali amerindi è riconducibile al tipo genetico detto eurasiatico settentrionale che costituisce la componente principale del genoma europeo.
Che proprio questa impronta genetica caucasica sia alla base delle civiltà precolombiane, lo confermerebbero le stesse tradizioni dei nativi con le leggende di Quetzalcoatl e Viracocha.
Bizzarro, vero? Là dove un’influenza caucasica non è avvertibile, come nel caso dell’Africa subsahariana, dell’Australia, della Nuova Guinea fino all’arrivo della colonizzazione europea, le popolazioni indigene non si sono mai schiodate di un millimetro dal paleolitico.
Sempre sul sito di “European…” troviamo un’altra notizia di grande interesse dal nostro punto di vista. Come sappiamo, la mummia del faraone egizio Ramesse II è stata recentemente sottoposta a uno studio particolareggiato da parte di ricercatori francesi, ma PER OVVI MOTIVI i risultati non sono stati resi noti al grosso pubblico se non in maniera molto parziale e vaga.
A darci qualche informazione ulteriore è sempre Robert Sepehr, ancora da “Amnesia, our forgotten History” (e le cose della storia che sono state volutamente tralasciate o dimenticate sono davvero tante).
Bene, sembra che il sovrano, che è deceduto ultraottantenne, un’età insolitamente avanzata per quei tempi, negli ultimi anni usasse tingersi i capelli incanutiti con l’henne, ma che in gioventù la sua chioma fosse rossa. In questo, pare che la sua non fosse una caratteristica unica e isolata, ma presente in tutto il clan dei “seguaci di Seth” di cui il faraone faceva parte.
Stranamente, una notizia del genere non ci coglie affatto di sorpresa. Se ricordate, già in precedenza vi ho citato il libro “Ricerche archeologiche non autorizzate” di Marco Pizzuti, che ci racconta il fatto, ovviamente occultato dall’archeologia ufficiale, che a quel che si può desumere dallo studio sia delle mummie, sia di molte raffigurazioni pittoriche, le élite dell’antico Egitto appartenevano in maggioranza a un tipo umano alquanto diverso da quello che costituiva e costituisce ancora oggi la popolazione prevalente della regione, avevano caratteristiche europee o decisamente nordiche, e la stessa cosa sembra di poter dire riguardo alle élite delle culture mesopotamiche dell’antica Mezzaluna Fertile, anche se qui le prove sono più elusive perché l’assenza di una pratica come la mummificazione in uso presso gli Egizi, rende di gran lunga più difficoltoso lo studio dei resti umani che ci sono pervenuti.
Circa l’origine di queste élite di pelle chiara che avrebbero civilizzato l’Egitto e il Medio Oriente, possiamo oggi avere un’idea alquanto più chiara che in passato, riconducendole a un’ondata migratoria di superstiti dell’Atlantide pontica, verosimilmente imparentati con gli uomini dagli occhi azzurri che eressero Gobeckli Tepe.
Io direi che a questo punto va a posto un importante tassello della nostra storia più remota. Se ricordate, vi avevo già fatto notare il paradosso della storia della civiltà egizia: essa compare all’improvviso già adulta, completa in tutte le sue manifestazioni tecniche, culturali, artistiche, religiose, poi, per i tre millenni che vanno dall’edificazione delle piramidi della piana di Giza fino alla conquista persiana, non assistiamo a nessuna innovazione, nessun progresso: o meglio, l’unica innovazione che vi compare, è l’introduzione del carro da guerra portato in Egitto da invasori, i nomadi Hyksos. In compenso si avverte una progressiva decadenza, già poche generazioni dopo l’erezione della piramide di Cheope, gli Egizi non sono più in possesso delle conoscenze per erigere edifici simili o altrettanto imponenti.
Bene, ora vediamo che il mistero non è affatto tale: con l’affievolirsi dell’elemento europeo-nordico presente nelle élite egiziane, probabilmente per l’immissione di sangue a esso estraneo, con accoppiamenti e matrimoni con membri della popolazione nativa, lo spirito creativo che aveva portato all’edificazione della civiltà della Valle del Nilo, semplicemente viene meno.
Noi sappiamo che quello di democrazia non è solo un concetto falso in se stesso, come già aveva dimostrato Platone venticinque secoli or sono, ma che il potere cosiddetto democratico crea la sua legittimazione attraverso un’estesa serie di falsificazioni che tendono a imbrigliare il pensiero umano in un’unica direzione, un “pensiero unico” che esclude sempre più le alternative in ogni campo, e trova nella realtà dei fatti un nemico mortale.
La falsificazione non risparmia nessun campo, nemmeno le scienze fisiche dove, come abbiamo visto, è proibito toccare il feticcio Einstein (feticcio ebraico, naturalmente), ma come è ovvio che sia, è più pesante e censoria sul terreno delle scienze umane e storiche, dove occorre occultare a tutti i costi una verità fondamentale, che l’incivilimento umano è ed è stato in ogni epoca legato a un preciso tipo umano, quello caucasico-indoeuropeo-europeo, precisamente quello di cui oggi il potere mondialista attraverso la sterilità e la senescenza imposte, l’invasione allogena, il meticciato, ha programmato l’estinzione, il genocidio “soft”.
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