E’ facile, per gli appartenenti alla stessa banda, appuntarsi reciprocamente medaglie e scambiarsi l’un l’altro attestazioni e riconoscimenti fasulli.
Ma passata la festa e svanita l’eco delle grottesche celebrazioni del 25 aprile, cosa resta dell’Italia “liberata”? Resta un Paese a pezzi che tra le sue più alte realizzazioni può vantare, dopo 71 anni, il parziale completamento di un tratto stradale tra Salerno e Reggio Calabria, ma che per quel che riguarda scuole, ospedali, edilizia popolare, infrastrutture e servizi è ridotto ad essere il fanalino di coda tra quelli civilizzati. Senza parlare dei problemi della giustizia, del lavoro, delle pensioni, della corruzione diffusa e della criminalità che ormai naviga indisturbata nelle Istituzioni, disgregando e fagocitando il tessuto socio economico del Paese mentre impone sul territorio la sua legge del terrore e del ricatto.
Vi pare un quadro impietoso e troppo fosco? Certo i progressisti liberal possono considerarci “estremisti” o “populisti”, ma chi vive sulla propria pelle i problemi di ogni giorno può condividere senza remore anche un giudizio così netto.
La verità è che questo passaggio storico sta mettendo finalmente in evidenza tutti i nodi irrisolti delle politiche liberiste e antisociali, ispirate da una globalizzazione selvaggia, da una concorrenza sfrenata e da una finanza senza regole, che hanno progressivamente portato allo smantellamento del welfare e, dopo devastanti crisi economiche, hanno consegnato il Paese a una situazione di pesante stagnazione.
E ora il combinato disposto di stagnazione economica e pressione migratoria mette in discussione gli equilibri politici dei vari Paesi europei, richiama alla ribalta i legami di sangue e suolo, mentre impallidiscono le ipocrisie giacobine dei diritti civili e i popoli ricercano sicurezze e radicamento nei diritti naturali e sociali finora calpestati.
In Europa i partiti nazionali avanzano un po’ ovunque, con un discorso di fermezza che fa della chiusura agli immigrati, associata alla difesa dell’identità, la leva principale della riscossa nei confronti di un establishment che continua a essere lontanissimo dal sentire diffuso dei popoli.
Si tratta di un processo che va acquistando forza e forma crescenti, difronte al quale i progressisti radical, da un lato, ripropongono semplicisticamente le loro stucchevoli e ipocrite prediche sull’accoglienza e la solidarietà e, da un altro, rievocano ossessivamente gli spettri dell’intolleranza, del razzismo e della xenofobia di cui sarebbero responsabili i “populisti” – l’ultima immaginifica e strumentale definizione con la quale cercano di demonizzare i movimenti patriottici, dopo averli accusati di fascismo –.
E quanto più la situazione sfugge loro di mano, tanto più i radical ricorrono alla violenza di leggi repressive e liberticide, per chiudere la bocca agli avversari, per blindare i falsi miti sui quali hanno realizzato le loro fortune, per cercare disperatamente di turare le falle che si aprono ormai progressivamente nella loro fatiscente e fallimentare costruzione politica.
In nessun’altra epoca, come in questo inizio di secolo, s’è assistito all’emanazione, da parte di governi che si definiscono democratici, di così tante norme repressive e liberticide tese a restringere ogni spazio di manifestazione non solo del dissenso, ma addirittura del pensiero e delle opinioni; si minacciano condanne e galera per revisione e discordanza storica, per professione di principi ideali, per opinioni non conformi in fatto di sesso, di famiglia, di immigrazione, di preferenza nazionale.
Si legifera contro il sangue, la stirpe, la nazione, l’appartenenza e l’identità.
Si moltiplicano le commissioni e gli enti statali destinati a studiare, analizzare, osservare, spiare e reprimere con nuove leggi e divieti tutto ciò che i questurini del pensiero unico considerano intolleranza, xenofobia, razzismo e odio.
Accanto all’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), tristemente noto per le sue attitudini persecutorie, è stata di recente insediata alla Camera dei deputati la commissione di studio su intolleranza, xenofobia, razzismo e odio, fortemente voluta dalla solita Laura Boldrini che annuncia sempre nuove e più deliranti iniziative in aggiunta a quelle realizzate, in via privata, dagli scherani della sinistra, avvezzi da sempre a stilare “liste di proscrizione” dei loro avversari. Com’è noto, infatti, è già attivo da parecchio tempo il Ri.Ro – Registro Italiano dei Razzisti e Omofobi, realizzato da un tale Arcangelo Castiglione di Belluno, per catalogare e colpire tutti coloro che si oppongono alle attuali derive gender e LGTB. Dagli archivi di Lotta Continua alle commissioni istituzionale, fino al registro degli anti-gay, le schedature restano il marchio d’infamia della sinistra.
Su altri piani, invece, la demonizzazione del fascismo, la manipolazione della storia, l’arrogante imposizione di una verità di Stato e di parte, continuano senza posa. Dopo la repressiva legge Scelba e l’infame legge Mancino, ora è stata approvata in Senato la vergognosa legge anti-negazionismo, cioè un’aggravante penale alla normativa vigente che, volendo soffocare la diffusione di tesi che ipotizzino la “negazione della Shoah ovvero dei crimini di genocidio”, inibisce di fatto ogni confronto scientifico e qualunque revisione documentale e storica di una rozza vulgata costruita e imposta come una verità indiscutibile. Anzi, considerata addirittura più dogmatica di quella dell’infallibilità papale, recentemente messa in discussione da Bergoglio, che quantomeno non è blindata con la minaccia della galera per coloro che non la condividano.
Contemporaneamente, si intensifica un’opera di diffamazione che raggiunge vertici di parossistica e faziosa demenzialità: non potendo cancellare la storia, non potendo abbattere con furore neotalebano tutti i monumenti di un’epoca, si tenta di storicizzarli, ovvero di “depotenziarli”, di disgiungerne artificiosamente il riferimento all’italianità da quello afferente alla loro matrice politica.
Come se il sacrario di Redipuglia piuttosto che il Monumento della Vittoria a Bolzano, l’EUR, il Foro Italico e tante altre vestigia, debbano essere considerate, d’ora in poi, opere più fasciste che italiane. Si vorrebbe scalfire il bastione identitario rappresentato da quelle memorie, realizzate nello spirito di un’epoca in cui dire “italiano” e “fascista” era la stessa cosa ed era anche un motivo di vanto.
Vi fosse almeno l’ardire di procedere a tutto campo con tali grottesche iniziative.
Sarebbe spassoso constatare quanti “depotenziamenti” dovrebbero essere intrapresi:
dai monumenti alle opere pubbliche, dalle scuole alle case popolari, dagli acquedotti agli ospedali e, addirittura, a intere città edificate dal nulla, tutto dovrebbe essere “storicizzato”. Peraltro, correndo il rischio che a rappresentazione dei successivi 71 anni di democrazia restino solo autostrade incompiute, viadotti crollati, appalti truccati e cantieri posti sotto sequestro per accuse di corruzione, malavita e quant’altro. Un confronto impietoso tra democrazia e Ventennio.
Insomma, la tanto predicata tolleranza, assunta quasi a manifesto politico dal regime, in realtà vale e si applica esclusivamente ai clandestini, agli zingari, agli omosessuali e ai bancarottieri, mentre per i progressisti il pericolo da combattere, la vera minaccia da evitare, sono i movimenti “populisti”.
La tattica repressiva è scoperta: si crea il degrado, lo si amplifica con politiche criminali ma, allorché iniziano a manifestarsi i segnali di una reazione che potrebbe travolgere il potere, subito si denuncia che “cresce un’intolleranza che si trasforma in odio e che, a seconda del tempo, colpisce donne, bambini, disabili, anziani, stranieri, omosessuali, ebrei, musulmani, rom e poveri” e se ne approfitta per studiare, approvare e promulgare nuove leggi sempre più liberticide e vigliacche.
E invece no, se la casa brucia i pompieri possono essere sgraditi solo agli incendiari che hanno appiccato il fuoco. Se si manifestano i segnali di un rigetto è perché in questi anni s’è spalancata la porta a un’armata delle tenebre e ora si avverte l’esigenza indifferibile di una risposta politica che avanzi la ferma pretesa di succedere agli apparati responsabili dello sfacelo.
Con costoro la contrapposizione è totale, perché sono loro all’origine dell’indecente degrado che opprime il Paese e che oggi è reso ancora più intollerabile dalla loro criminale gestione del fenomeno dell’immigrazione, con i corollari dell’accoglienza e dell’inclusione.
Allora la rivolta deve partire da qui, dal rifiuto categorico della mescolanza posto a base della supremazia della identità nazionale, intesa non solo come fattore di unitarietà culturale, ma orgogliosamente rivendicata come diversità antropologica – in netta contrapposizione alla mistificazione dello jus soli – rispetto alle etnie afroasiatiche che premono ai confini dell’Europa.
Perciò il rigetto dell’invasione, correttamente inteso, non si diluisce nella contrattazione di quote o nelle ridistribuzioni sulla base di accordi fra Stati, ma s’impone come il categorico rifiuto della sostituzione etnica in Europa.
Peraltro, una forza che voglia proporsi alla guida del cambiamento con la suggestione di un progetto globale, di una strategia e di una visione del mondo alternative al sistema, non si può limitare a caratterizzarsi solo come un argine all’invasione, ma dev’essere in grado di dare una speranza al popolo, che ha bisogno di forme culturali e istituzionali definite e condivise nonché di uno Stato che fornisca garanzie sociali al lavoro, alla salute, all’istruzione, alla vecchiaia.
Per questo, un movimento patriottico che voglia tracciare un orizzonte comunitario al quale indirizzare le migliori energie di risveglio e rinascita, dovrà partire dal concetto di primato nazionale per poi svilupparlo e sostanziarlo con un progetto di radicale cambiamento e di superamento dell’asfittico modello economico sociale di stampo liberista.
In una Nazione con percentuali di disoccupazione del 19%, con punte del 39% fra i giovani, occorre recuperare i valori solidaristi della comunità da contrapporre all’attuale assetto sociale individualista e ricomporre la separazione tra economia e società introdotta dalle élite radical, benestanti e mondialiste, dai progetti finanziari massonici, dalle centrali antinazionali e dai loro modelli di sviluppo globalizzati e fortemente competitivi, sganciati da qualunque sistema di regole che non siano quelle del massimo profitto e del mercato.
Il diritto di un popolo a vivere nella propria terra dev’essere sostanziato dal diritto a vivervi in condizioni dignitose, secondo regole naturali e principi di giustizia sociale che solo uno Stato con salde radici nella Tradizione e antropologicamente antitetico agli storici partigiani dell’usura è in grado di garantire alla comunità.
Enrico Marino
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