La notizia non è nuova, e purtroppo non conquista le prime pagine dei giornali: i robot, tra meno di cinque anni, costeranno meno di un lavoratore “umano”. Secondo uno studio molto attendibile, un robot costa oggi mediamente ad un’impresa tra i 18 e i 20 euro orari, contro i 15 di un operatore in carne ed ossa, ma già entro il 2020 il costo per unità dei robot applicati alla logistica sarà di 100.000 euro, il che, rapportato ad ore di lavoro, corrisponde ad un costo di soli 10 euro, contro i 19 dell’uomo. Il mercato dell’automazione, dunque, subirà un ulteriore balzo, oltre al già ragguardevole + 27% realizzato dal 2014. La previsione, per l’Europa, è di un mercato da 40 miliardi di euro l’anno prossimo, con l’ovvia irruzione del capitale di rischio nell’avventura robotica e cibernetica. Crescono anche i presidi chirurgici robotici, mentre in Cina la Foxconn, il gigante che produce gli i-phone, ha già acquistato un milione di robot, che affiancano un analogo numero di operai, e stanno iniziando a sostituirli.
La previsione iniziale è la perdita di un milione e mezzo di impieghi in Europa nella sola logistica, ma il problema strutturale è che il lavoro umano verrà reso obsoleto come tale, senza alternative. La velocità e l’ampiezza del fenomeno è, e più ancora sarà senza precedenti storici. Alcuni ipotizzano che oltre il 40 per cento dei lavori attualmente esistenti negli Usa corra un alto rischio di sostituzione robotica, mentre per un altro 20 % il rischio sarebbe medio. Al di là della precisione predittiva dei cosiddetti esperti, tuttavia, il fatto è immenso, e necessita di essere analizzato nelle sue ricadute sociali, economiche, territoriali, antropologiche, addirittura esistenziali, al fine di predisporre dei paracadute, organizzare contromisure, riorientare la vita degli uomini. Questo, infine, è politica. Il resto è aritmetica, o, al più, amministrazione.
Secondo la teoria classica, il lavoro è (era) uno dei tre fattori fondamentali della produzione, con il capitale e la terra, dunque una fonte di ricchezza. Successivamente, si è trasformato in costo, componente del conto economico e non dello stato patrimoniale. Dunque, qualcosa che va ridotto, limitato, risparmiato. Da oggi, siamo oltre: se ne può fare a meno. Il primo pensatore a prendere atto della nuova realtà è stato probabilmente Jeremy Rifkin, con il suo “La fine del lavoro”, che è del 1995, pur se già Joseph Schumpeter aveva osservato come il fenomeno della mancanza di lavoro fosse un prodotto dell’industrializzazione, e quindi, della progressiva tecnologizzazione degli apparati produttivi. La disoccupazione è un fenomeno moderno, eccetto che per situazioni determinate da catastrofi naturali o epidemie nelle epoche preindustriali.
Un economista come Larry Summers ha tentato di disegnare lo sfondo di un’estesa e persistente disoccupazione da tecnologia in uno scenario di stagnazione secolare, ma l’analisi economica, per quanto seria e bene intenzionata, non è sufficiente. Rifkin, che nella Fine del lavoro fu il primo ad esaminare i risvolti del problema da un punto di vista interdisciplinare, nel suo recente “La società a costo marginale zero” fornisce un interessante arsenale di concetti, oltreché una messe di dati interessanti. Innanzitutto, dimostra che l’innovazione tecnologica ha bruciato molti più posti di lavoro della delocalizzazione degli impianti. Poi certifica un altro dato: nel periodo preso in esame, otto anni all’inizio del millennio, l’industria mondiale ha 22 milioni di addetti in meno, ma ha aumentato la produttività del 30 per cento. Il dato comprende anche la Cina, il cui boom manifatturiero è stato largamente potenziato dall’informatica e dalla robotica. Negli USA, in cui la produzione industriale è in ripresa, non lo è affatto l’occupazione.
Ma il lavoro è stato sempre considerato dall’economia politica (pensiamo a Friedrich List) come un capitale sociale, dunque una società senza lavoro è un mondo in perdita. La distruzione accelerata di professionalità, conoscenze, cultura materiale e tecnica è un esito drammatico, che va evitato ad ogni costo. E’proprio Rifkin ha fornire una prima chiave di lettura, insistendo sulla necessità di accumulare nuovo capitale sociale sotto forma di formazione e di autoproduzione. In questo sembra di riconoscere il lato più convincente di talune tesi “decresciste”, come quelle del professor Pallante (distinzione tra beni e merci, recupero e riuso, capacità di autoprodurre). Tuttavia, è senz’altro da respingere il suo ottimismo circa il carattere liberatorio della fine, o della rarefazione del lavoro. L’economia di mercato, infatti, fattasi società di mercato e creatrice di diritto positivo e coercitivo, non ha alcuna intenzione di dividere i suoi profitti con alcuno, tantomeno di organizzare una vita sociale che tenga conto delle nuove condizioni della merce-lavoro, anzi della merce-uomo.
Del resto, se le innovazioni tecnologiche saranno in grado, come sembra certo, di sostituire l’obsoleto, poco produttivo e recalcitrante fattore umano non solo nella manifattura, ma anche nei servizi avanzati e persino in quelli alla persona, nonché nell’industria culturale e dell’intrattenimento, il vero problema dei detentori delle macchine e dei proprietari dei nuovi know-how sarà quello di trovare sbocchi di mercato in parti del pianeta dove esista ancora il lavoro pagato, i cui redditi possano alimentare il consumo.
Sono davvero lontani i tempi di Henry Ford e della politica degli alti salari, volti alla generalizzazione dei consumi, tanto più in un momento storico in cui la stessa industria automobilistica, storico simbolo di innovazione quanto di occupazione, sta lavorando alla realizzazione dell’auto senza conduttore.
Il progetto relativo è condiviso da Fiat Chrysler, dal colosso multinazionale del “car sharing” Uber (in orbita saudita), criptica espressione che significa taxi “alternativi”, e, cosa assai significativa, dal gigante del commercio elettronico Amazon e da Google. Siamo dunque entrati in uno di quelle fasi della vita economica che si definiscono tornanti della storia, e, se aveva ragione Einstein ad affermare che occorre un nuovo modo di pensare per risolvere problemi nuovi, deve mutare il paradigma corrente.
Tornare ai principi, tornare alla persona, restituire al mercato il suo ruolo di strumento al servizio dell’uomo. Sarà durissima, ma non esistono scorciatoie. In un mondo dove milioni di esseri umani saranno sostituiti nelle loro funzioni da apparati informatici, la strada obbligata è il recupero dello spazio pubblico e comunitario, anche nella sua aspetto di potere. C’è bisogno dello Stato, con le sue articolazioni, e va ridisegnato anche il principio di sussidiarietà, in senso verticale, poiché è lo Stato stesso che deve riassumere iniziative in campo economico, a tutela della coesione sociale e della sua stessa permanenza come istituzione. La quarta rivoluzione industriale, che è in pieno svolgimento, si avvia a liquidare il lavoro salariato nelle industrie e nei servizi, oltre al lavoro professionale in molti altri ambiti, anche di elevata qualificazione: si è rotto il legame tra produttività ed occupazione.
Debole, ancorché suggestiva, appare la proposta di incrementare i cosiddetti prosumers, ovvero i produttori consumatori che potranno fare da sé, proprio attraverso la generalizzazione delle tecnologie cibernetiche e robotiche, le merci che consumeranno. Tuttavia, applicando le vecchie acquisizioni del marginalismo di Jevons e Marshall, se il costo marginale dei prodotti si avvicinerà allo zero, anche l’impresa tradizionale dovrà cambiare profondamente. Forse reggeranno solo le imprese cooperative, nella più vasta accezione del termine, ed il mercato restringerà il proprio raggio d’azione. Forse, giacché l’economia di mercato ci ha abituato alla sua enorme capacità rigenerativa, mimetica ed adattiva.
La speranza (e probabilmente la necessità) è che nasca un’economia policentrica, condivisa, nel senso della ripresa di iniziativa delle pubbliche istituzioni e di tutti noi, proprietari, difensori e utilizzatori dei beni comuni. Un piccolo esempio è la fiorente economia generata dalla custodia ed utilizzo delle risorse forestali in Val di Fiemme, affidata alle comunità locali che ne traggono benessere economico, gestione attiva del territorio, conservazione e rilancio di attività e conoscenza antiche, rielaborate con tecniche e strumenti contemporanei. Il lavoro, dunque, torna ad essere ricchezza per l’intera comunità, a patto di considerarlo, finalmente, per quello che è, una risorsa preziosa. Il giornalista economico Giorgio Arfaras ha indicato recentemente, in un articolo su La Stampa, una ulteriore, grande questione, ovvero quella della distruzione non più di impieghi operai, come nelle fasi precedenti dell’economia industriale, ma di innumerevoli professioni impiegatizie e dei servizi: turismo, credito, assicurazioni, presto anche il settore pubblico. Per parafrasare Karl Polanyi, un nuovo, decisivo capitolo della “Grande Trasformazione”. Arfaras, uomo del liberismo globale, teme “ la soluzione più semplice, quella di erigere muri o tornare al protezionismo”. Non si chiede affatto quale ruolo – o sacrificio – debba essere attribuito ai grandi gruppi economici, prigioniero della bibbia liberale internazionalista di cui è stipendiato corista.
Indubbiamente, se duramente colpiti, ceti importanti, oggi schierati con l’universo liberale, potrebbero ritirare il loro appoggio – od acquiescenza – al sistema vigente, ma la domanda è quella accennata all’inizio: chi mai comprerà i prodotti realizzati nell’industria robotizzata? Il mercatismo terminale, aggrappato al dogma della scarsità monetaria, felice del “dumping” salariale, in brodo di giuggiole per la possibilità di scacciare da fabbriche ed uffici gli umani non più ricollocabili, continuerà a soffocare la domanda aggregata, cioè i consumi, di beni e servizi. Continuerà a segare l’albero su cui prospera alle spalle di miliardi di persone. Vorrà cambiare? In attesa della risposta, che arriverà comunque in ritardo sui tempi della vita, occorrerà immaginare, e realizzare, forme di redistribuzione della proprietà e del reddito.
Ritornano nell’agenda del possibile i principi della partecipazione alla proprietà industriale, nella forma della “public company”, dell’autogestione, dell’impresa cooperativa, della comproprietà, della stessa cogestione, negati i quali si rifaranno avanti forme nuove di collettivismo, rimedio peggiore del male, che già echeggiano nelle tesi di Toni Negri e Michael Hardt (Moltitudine) o in alcuni passi dell’economista à la page Thomas Piketty. Viene in mente il distributismo di uno scrittore come Gilbert Chesterton, la stessa dottrina sociale abbandonata dal mondo cattolico in favore del salto nel buio in salsa sudamericana del gesuita Bergoglio, e naturalmente l’idea socializzatrice dell’ultimo fascismo. Per allargare gli orizzonti, potremmo citare Piotr Stolypin. Il grande ministro ed economista russo ucciso da un estremista ebreo prima della Rivoluzione, ispiratore di Putin, e persino Muhammad Yunus, per l’idea e la struttura organizzativa del microcredito a favore degli aspiranti nuovi proprietari investitori. Comunitarismo, patriottismo sociale, l’automazione come opportunità per trasformare i complessi produttivi in grandi ambiti di comproprietà per persone fisiche, comunità locali, libere associazioni. Condividere, diffondendo al massimo la proprietà, che significa responsabilità, decisione, partecipazione alla “polis”.
Naturalmente, non potranno che essere sperimentate forme di reddito sociale o di cittadinanza, e di credito sociale. La premessa, tuttavia, e dovrà essere la grande battaglia da attivare fin da oggi, è quella del ripristino della sovranità economica e monetaria dello Stato. Moneta legale e moneta bancaria devono essere espressione delle comunità nazionali, con il pieno controllo politico del popolo, attraverso il governo e specifici organi di sorveglianza. La moneta è il sangue dell’economia: nessuno può immaginare che il proprio sangue sia controllato da un estraneo, e che questi ne rivendichi, codici alla mano, la proprietà.
Le idee in materia sono molte, gli studiosi fuori dal coro stanno diventando numerosi. Il dibattito va aperto e non deve essere svilito da reciproche ostilità, scomuniche o settarismi.
I cardini non possono che essere l’emissione monetaria pubblica, la diffusione della proprietà privata (fondiaria, immobiliare, dei “mezzi di produzione”), la definizione prima, la difesa poi dei beni comuni e di quelle attività (energia, credito, sanità, reti informatiche e di comunicazione) il cui controllo deve rimanere pubblico, il ripristino di un mercato aperto nemico dei monopoli, l’istituzione di un ragionevole spazio di assistenza per chi ha più bisogno. Se non ora, quando?