Per Hegel, la filosofia non deve immaginare come deve essere fatto il mondo, deve solamente limitarsi a spiegarlo, la filosofia non precede, ma giustifica a posteriori la realtà. Hegel è stato molto coerente con questo, ed essendo un essere che funziona in modo dialettico immerso in una realtà essa pure dialettica, ha finito per elaborare una filosofia che legittima in pieno questo funzionamento dialettico. Tutto questo si chiama: “adeguamento a posteriori”, trappola temibile che deve essere contrastata in tutti i modi possibili, altro che postularla filosoficamente!
L’”adeguamento a posteriori” funziona così: prima avviene un certo cambiamento nell’uomo, che quasi sempre è negativo e decadentista, questa è la causa che avrà come effetto l’elaborazione di teorie scientifiche e anche filosofiche che tenderanno a normalizzare il cambiamento intervenuto, rendendolo stabile e definitivo. Si può dire che tutti i vari pensatori postmedioevali che di solito sono definiti come i “padri intellettuali” del mondo moderno, non sono poi così protagonisti se si pensa che sono solamente dei ciechi strumenti del destino, mediante i quali un certo cambiamento intervenuto all’interno dell’essere umano, si manifesta all’esterno, costringendo l’intero esistente a adeguarsi a tale cambiamento. In questo caso il cambiamento intervenuto è stato il “disassamento”, la coscienza umana che non è più al centro del proprio essere, ma è stata sbalzata in una posizione periferica, tant’è vero che possono filosofare sull’essere solamente coloro che “non sono”, perché soltanto così è possibile ruotare attorno all’essere; per coloro che “sono” e stanno al centro di sé stessi, ogni speculazione filosofica riguardante l’essere è cosa priva di senso.
Questa posizione di Hegel assomiglia vagamente alla teoria del “buon selvaggio”, a quella stupida teoria secondo la quale, un selvaggio, appunto perché tale, deve essere senz’altro buono, innocente e giusto, mentre Hegel applica questo al reale, che in quanto tale, deve essere buono giusto e razionale, dimenticandosi che sono reali anche i pazzi da manicomio e i delinquenti da galera. Tutt’al più si può dire, come il Guenon, che tutto quanto esiste ha la sua ragione d’essere, se visto secondo la logica del Tutto e del Grande Equilibrio che lo governa, ma non è questa la posizione di Hegel, il suo “infinito” è solo l’indefinitamente finito, e il suo “giustificazionismo” secondo il quale tutto quanto esiste in natura e negli eventi della storia umana è razionale e quindi qualcosa di necessario e di giustificato, è la conseguenza del suo immanentismo intesi in senso logico e razionalista, che fa si che tutto deve essere al suo posto e necessario, allo stesso modo di un ingranaggio in un meccanismo. Siccome tutto quanto esiste è razionale, allora ogni cosa deve essere fatta rientrare nella razionalità, magari stiracchiandola parecchio, e così anche lo Stato è visto come una oggettivazione della razionalità, solo che non si deve ipotizzare uno Stato ideale, ma solo spiegare quello esistente (adeguamento a posteriori), magari attraverso la sua triade dialettica.
Hegel, a causa del suo legame diretto del reale col razionale, tende a negare ogni validità al pensiero astratto, sostenendo addirittura che la filosofia muore dove vi è astrazione, il pensiero deve sempre essere legato al suo referente oggettivo, il pensiero è obbligato a materializzarsi, fatale conseguenza logica dell’immanentismo e del legame diretto del reale col razionale, di un reale inteso in senso formale e materiale.
In realtà qui il Kremmerz te la racconta più giusta: “L’intelligenza è lo sforzo della mente per concepire, assorbendone le virtù, l’Ente da cui trae origine. Intelligenza – intelligo = in te lego, da intellectus usato dai neoplatonici. Ente – Mente.” (La scienza dei magi, primo volume pag. 184). Quella “mente” può perfino avere un duplice significato: mente come mentale umano, ma anche mente come menzogna, come testimone infedele e quindi menzognero della realtà.
Kremmerz: “Voi siete liberi di concepire la prima azione, nel concepire il primo pensiero, appena pensiero e azione sono liberamente espulsi dal vostro essere, diventate schiavi della vostra concezione in atto. È il senso che cade nell’utero del mondo e genera la necessità della forma. Così la libertà di creazione sta alla necessità di subirla come l’uno sta al due. (La scienza dei magi, secondo volume pag.239). Questa formulazione del Kremmerz è vagamente simile a quella di Hegel, anche se qua deriva dal rigido determinismo cabalistico, anch’esso conseguenza dell’immanentismo, ed è come se un architetto non potesse concepire un edificio nella sua mente senza essere obbligato a realizzarlo materialmente. Concepire un edificio nella mente e realizzarlo materialmente sono legati in modo indissolubile, mentre nella realtà e soprattutto “in verticale”, tale obbligo non esiste.
Per Hegel l’Assoluto è lo Spirito o Ragione, questa ragione non è però una cosa estranea alla natura, ma coincide con essa, allora lo Spirito è identificato con: l’Idea-senso determinato del tutto (vediamo di nuovo in azione l’immanentismo, spirito e natura interdipendono, si sorreggono e legittimano a vicenda). La dialettica di Hegel è un processo mediante il quale lo Spirito (cioè l’idea assoluta) si oggettivizza passando attraverso tre momenti contraddittori diversi, che però non devono essere pensati in sequenza cronologica, ma solo in connessione logica.
Il primo momento della dialettica è detto “tesi”, dove si considera l’essere in sé delle cose o delle determinazioni, è definito come l’astratto o l’intellettuale, perché l’intelletto pensa ogni cosa in sé e per ciò che è, isolandola da tutto il resto, come una cosa che consiste di per sé.
Il secondo momento è definito “dialettico” o “negativo razionale” ed è l’“antitesi”, in cui l’essere (o la determinazione) è spinto fuori di sé, questo secondo momento è la vera essenza della dialettica, e per Hegel sarebbe la vera natura delle determinazioni intellettuali, ed è fatta valere per tutte le cose. Dapprima per la tesi è un semplice mettersi in rapporto in ciò che sta oltre il suo isolamento, ma poi interviene il vero momento dialettico, la soluzione immanente nell’antitesi, dove l’unilateralità e la finitezza della determinazione si palesa per quel che è, come la sua negazione.
Qui si sostiene semplicemente che se esistesse solo una locomotiva che si muove sul suo binario, questo non avrebbe senso, perché sarebbe un unilateralismo, tale locomotiva non potrebbe avere il senso di sé e la percezione del suo movimento, ed è come se tale locomotiva equivalesse a un’altra locomotiva che si muove al contrario sullo stesso binario: vuoi vedere invece la goduria e la supercoscienza che può derivare dallo scontrarsi con un’altra locomotiva che gli vada contro sullo stesso binario?
Noi vediamo che il senso di sé delle cose non ha una causa intrinseca, ma procede dall’esterno e può essere causato solo dal confronto- scontro con un contrario reattivo, fatale conseguenza logica dell’impostazione immanentista. L’unilateralismo dell’unica locomotiva e dell’unico movimento si rovescia nei loro contrari dialettici (antitesi-riflesso speculare materializzato), nella vana e illusoria ricerca di completezza. È il singolo elemento unilaterale e finito che pretende di risolvere la sua finitezza e la sua unilateralità senza uscire da questi limiti, ed è come se il finito pretendesse di diventare infinito rimanendo finito, siccome tale pretesa è contraddittoria, l’insistenza in tale pretesa finirà per materializzare il reattivo antagonista. È in questo modo che nasce l’antitesi, però siccome anche questa e una determinazione e quindi un unilateralismo, allora l’intero processo si ripete di nuovo e di nuovo ancora, in un folle reiterarsi e in una folle rincorsa che non porta da nessuna parte perché semplicemente orizzontale.
La fatale conseguenza logica è il divenirismo continuo, in cui doveva obbligatoriamente sfociare la dialettica idealista hegeliana, poiché quel processo dialettico di tesi-antitesi-sintesi non è dato o realizzato una volta per tutte, ma è una catena senza fine, una concatenazione di eventi reattivi che si negano a vicenda, illudendosi così di dare luogo all’assoluto o di sfociare in esso, mentre si tratta solo del cane che gira in tondo per mordersi la coda. In questo divenirismo continuo, niente sussiste, permane solo l’eterna azione del contraddirsi (imitazione parodistica della possibilità del trascendere aperta all’infinito), tant’è vero che per questa dialettica hegeliana ogni elemento finito ha questo di proprio, che sopprime sé stesso (ogni determinazione, essendo finita, coincide con la sua negazione), ogni cosa, divenendo, si nega da sé. Più in là Marx dirà: “Il divenire negherà domani ciò che afferma oggi, niente sussiste, solo l’azione rivoluzionaria dell’eterno contraddirsi e dell’eterno contraddire permane”.
Da questo punto di vista, ha ragione Jean Daujat là dove afferma che si può comprendere Marx solo passando per Hegel, il marxismo e il materialismo dialettico derivano dalla dialettica idealista hegeliana, non direttamente, ma per inversione, poiché si può capovolgere o invertire solo ciò che già esiste. Tant’è vero che si può considerare il materialismo dialettico marxista come il frutto più maturo dell’albero filosofico idealista, poiché era già potenzialmente contenuto in quell’Assoluto dato come ”Idea, senso determinato del tutto”, cioè restrizione del concetto del reale a tutto quanto è formale, definito e materializzato, basta aggiungere a questo il divenirismo o trasformazione continua per avere il materialismo dialettico; siccome è stato detto che “conoscerete l’albero dai suoi frutti”, questo obbliga a mettere pesanti punti interrogativi sul vero scopo della catena filosofica idealista. Molti vedono l’idealismo come un qualcosa di spirituale che si contrappone al materialismo e tendono a giustificarlo per questo, si tratta piuttosto di “spiritualismo” nel senso guenoniano, cioè contraffazione e caricatura della vera spiritualità. L’idealismo è semplice mentalismo, abbiamo già visto che l’intera filosofia moderna è semplice mentalismo, è il mentale umano messo sul trono. Si tratta di un errore, perché il mentale non è il principio primo né tantomeno è da identificarsi con il cosiddetto “spirito”, è un semplice elemento intermedio fra il finito e l’infinito, fra il formale e l’informale e il sovra formale. Se il mentale umano è staccato dal suo principio superiore che dovrebbe ispirarlo e guidarlo, diventa mentalismo, e non potendo sostenersi in sé e da sé, finirà per rotolare verso il basso seguendo la linea di minore resistenza, appunto, fino al materialismo dialettico.
Il binario idealista è composto da due elementi tipici strettamente interdipendenti: umanismo e immanentismo. Senza immanentismo l’umanismo non potrebbe giustificare sé stesso, e l’immanentismo ha bisogno di una coscienza interna che lo agisca. Si può quindi confermare quanto già detto, il vero e reale scopo dell’intera catena filosofica idealista è di imporre l’immanentismo, giustificare l’umanismo e legittimare il funzionamento dialettico.
Il terzo elemento della triade dialettica rappresenta il momento speculativo, è definito anche “positivo razionale” e corrisponde alla “sintesi”, dove si concepisce l’unità delle determinazioni nella loro opposizione, e si considera ciò che vi è di affermativo nel loro trapasso. Qui Hegel si lascia andare a ragionamenti piuttosto contorti, la sua dialettica avrebbe risultati positivi perché essa ha un contenuto determinato, perché il suo risultato non è il vuoto o l’astratto niente, ma è la negazione di certe determinazioni, le quali però sono contenute nel risultato appunto perché questo non è un niente, ma è un risultato concreto. Questo “positivo razionale” pur essendo qualcosa di pensato e di astratto, però allo stesso tempo è qualcosa di concreto, perché si tratta di un’unità di determinazioni diverse. Ne consegue che la filosofia non deve avere niente a che fare con mere astrazioni o con pensieri formali, ma solamente con pensieri concreti (cioè materializzati). Tutto questo era già contenuto in quella nota formula che identifica l’Assoluto con l’Idea – senso determinato del tutto, che significa restringere il concetto di reale solo a tutto ciò che è definito, formale e materializzato.
Va da sé che Hegel dopo aver ridotto l’Assoluto a: Idea- senso determinato del tutto, e aver identificato lo Spirito assoluto o Dio con la razionalità, coinvolge anche questo Spirito assoluto nel divenire; non è che questo Spirito sia una cosa che rimane ferma e fissa nel principio, ma diviene, non fosse altro che per il fatto che Spirito e Natura sono la stessa cosa! Lo Spirito assoluto (cioè Dio, la razionalità) si realizza nel tempo in un processo evolutivo, e quindi si realizza nella storia. Hegel così si vanta di essere passato dalla logica dell’essere alla logica del divenire, e allora si inventa un’altra triade, naturalmente in rapporto dialettico: essere, nulla, divenire. Secondo questo giocoliere delle parole, l’essere e il non essere sarebbero concetti astratti, semplici astrazioni prive di merito, vero è soltanto il divenire (cioè l’eterno contraddirsi), perché l’opposto dell’essere non è il non essere ma la trasformazione.
Da un certo punto di vista si potrebbe dire che l’azione del progettare sia poi evoluta nell’azione del costruire e si sia poi fatta materia, ma si tratta di una discesa e di una materializzazione, non certo di evoluzione, è solo manifestazione. L’azione del progettare e del costruire va poi distinta da colui che progetta e costruisce, che rimane sempre sé stesso (immutabilità del principio iniziale e quindi del Principio supremo), altro che immaginarsi un Dio o un Assoluto in divenire!
Interessante qui notare che Hegel scarta per principio l’elemento neutro superiore (il perno fisso o motore immobile), mettendo al suo posto la trasformazione, che è cambiamento e quindi azione e movimento, e questo ci porta di nuovo alle due locomotive che si contrappongono testa contro testa sullo stesso binario, che non devono mai entrare in stasi, cioè fermarsi, ma devono essere in continuo divenire, devono muoversi costantemente perché in tale sistema chi si ferma è perduto! Il binario unico su cui scorrono le due locomotive, ha ai suoi estremi due robusti respingenti a molla, in modo da impedire la stasi e permettere il ritorno del movimento (eterno divenire), come è imposto dal sistemo chiuso e dalla relativa “perfetta simmetria” che lo governa.
Per quanto riguarda la spiegazione del fenomeno religioso fatta da Hegel, non vale neanche la pena parlarne, anche qua tutto è fatto rientrare nella griglia interpretativa della triade dialettica, che è diventata una ricetta buona per tutte le stagioni. L’intera costruzione filosofica idealista obbedisce a questi pochi criteri: imporre la visione umanista e immanentista, piegare l’intero universo verso di sé, facendolo rientrare nelle proprie idee fisse e nei propri schemi precostituiti, costringendolo a “funzionare” come si vuole che funzioni, e “adeguamento a posteriori”, cioè istituzionalizzare il dato di fatto che è venuto a determinarsi, qualsiasi esso sia, legittimandolo mediante formule scientifiche e teorie filosofiche.
Nella strana credenza di questa dialettica filosofica secondo la quale, ogni cosa, essere o stato di realtà si trova in condizione contraddittoria, nel senso che da una parte è ciò che è ed esiste in un certo modo, ma appunto per questo dall’altra è costretta a negarsi per poter divenire qualcos’altro, è da vedersi un’intuizione deformata e pervertita di una certa verità. Si potrebbe dire che ogni cosa esistente ha una duplice natura, ma anche questa è una mezza verità, perché la differenziazione è sempre ternaria e segue la logica che abbiamo già esposto, però siccome il principio iniziale permane indifferenziato e quindi “neutro”, esteriormente risultano attivi solo due elementi, da qui l’impressione di duplice natura e di dualità. La mostruosità concettuale è consistita nel concepire questa duplice natura in chiave dialettica e perciò reattiva e antagonista, suscitando così contraddizione all’interno di ogni cosa, mentre si tratta di opposti complementari che come tali non possono essere reattivi né antagonisti fra di loro, quindi il problema del divenirismo dialettico di ogni cosa è inesistente, assurdo e perfino demoniaco. Questa duplice natura può essere concepita sia in senso verticale (finito-infinito, condizionato-incondizionato), sia in senso orizzontale (due modo diversi ma sincroni di essere e di fare).
Riferiamoci al ternario creativo classico o unità triadica: “la possibilità di fare e di non fare”, “il fare”, “il non fare”; è nell’interesse del principio iniziale padrone delle due possibilità che ogni cosa rimanga ciò che è: il “fare” deve essere fare e rimanere tale e così è per il “non fare”. Il “fare” che evolve dialetticamente nel “non fare”, è un’assurdità logica e un’impossibilità di fatto, così come un muratore non può “evolvere” nel mattone, il “fare” può solo invertire sé stesso facendosi contro di sé (antitesi, contro fare – rovinosa contraddizione suscitata in sé). Noi vediamo che nella triade normale presente in ogni cosa la contraddittoria triade hegeliana è inesistente, perché questa è solo una sua invenzione e un suo volere. Può essere che anche il singolo elemento di una triade si differenzi in sé, ma questa differenziazione segue sempre la logica normale che non è né può essere dialettica. Il “fare”, per esempio, può differenziarsi in sé nel fare in un modo, lasciar fare (neutro), e fare in un modo opposto, che comunque è sincrono al primo e per niente contraddittorio né reattivo (per esempio: le due gambe, le due braccia, i due occhi ecc. che sarebbe davvero un guaio se si contraddicessero!)
A una osservazione superficiale di certi accadimenti storici, sembrerebbe che questi diano ragione ad Hegel, poiché pare che seguano il suo ritmo triadico dialettico, in realtà questa è pura apparenza, indagando più in profondità si scopre che le cose non stanno affatto così. Per esempio, prima si è sviluppato il capitalismo, se questo lo concepiamo come tesi, questa tesi, isolata in sé stessa, si assolutizza e perciò si nega (perché, dice Hegel, ogni cosa finita ha questo di proprio, che sopprime sé medesima) e finirà per coincidere con il suo contrario: il comunismo. Il comunismo è il secondo momento della dialettica, il negativo razionale, e come tale doveva fatalmente essere superato dal terzo momento della dialettica, che in questo caso corrisponde al mondialismo, che è il punto sintetico finale di capitalismo e comunismo.
Apparentemente sembra che le teorie della dialettica idealista abbiano trovato conferma, ma così non è, perché il comunismo, per esempio, è stato sostenuto e finanziato dai banchieri capitalisti, e in tutti e tre i “momenti” noi ci troviamo di fronte a delle cose e a degli sviluppi che erano stati preventivati e voluti fin dall’inizio da certe precise entità. Non è che questa catena di eventi si è realizzata perché così voleva l’ordine di realtà o le leggi della dialettica di Hegel, no, questo è successo solamente perché certi potentati occulti volevano che le cose andassero così e le hanno appunto fatte andare così. In questo caso certi filosofi idealisti si sono dimostrati essere solo degli “utili idioti” intenti a legare l’asino (che saremmo tutti noi) dove vuole il padrone, la dialettica hegeliana può essere vista come un tentativo (magari involontario) di giustificare a posteriori dei comportamenti e dei “funzionamenti” che in realtà sono perversi e immorali. Tant’è vero che noi a livello storico assistiamo alla continua creazione “artificiale” di movimenti reattivi e antagonisti, si tratta di una cosa voluta e calcolata, la dialettica hegeliana è semplice copertura, questo ci rimanda di nuovo a quell’unica locomotiva su quell’unico binario che non può funzionare da sola, allora bisogna mettergli di fronte un’altra locomotiva in modo che così, questa indietreggiando, possa produrre energia per fare andare avanti quella.
All’inizio di questi appunti critici si era accusato la filosofia idealista di volere imporre la visione immanentista, negando nel contempo la possibilità della trascendenza, ma le cose non stanno proprio così. Accusare la filosofia idealista di essere immanentista, questa è una cosa priva di senso, perché è come accusare il cane di essere cane. Siccome il cane è cane, allora non può far altro che essere cane e comportarsi da cane! La filosofia può essere soltanto immanentista, questa è la sua vera natura e l’unica sua ragione d’essere, poiché la filosofia è immanenza là dove la metafisica è trascendenza. La metafisica, quella vera, non può essere contenuta nella filosofia, ma comincia dove finisce la filosofia. La filosofia non può risolvere i problemi ultimi dell’essere, e questo per un’impossibilità di fatto, tali problemi sono di esclusiva competenza della metafisica. Di là dalle parole, dai pensieri, dalle idee, dai concetti, c’è la “Realizzazione” (realizzazione spirituale, da non confondersi con manifestazione o materializzazione), la quale ha poco a che vedere con concetti, idee, pensieri e parole. La filosofia non è lo stadio ultimo della conoscenza umana, non sta affatto al vertice di tutto, perciò ai filosofi è richiesto un po’ più di umiltà.
Noi come punto di partenza dobbiamo necessariamente prendere l’io individuale umano, ma questo non deve portare a farci dentro il nido, né a trasformarlo nell’unico punto di vista possibile. L’io individuale è solo un precipitato finale di un processo creativo che gli sta a monte, il suo valore gli deriva dal fatto che si trova sull’asse dell’Essere, anche se esso non è l’intero asse, ma solo il suo punto inferiore. L’individuo Assoluto dell’Evola giovanile può avere senso solo se ci si è impadroniti dell’intero asse, ma allora si può muovere un’altra obiezione: se io sono l’intero asse dell’Essere per quale motivo dovrei essere così masochista da collocarmi nel suo punto inferiore, facendone per giunta un assoluto, troverei più gratificante collocarmi nel punto superiore, anche se questo non si chiama “Io”, né “condizione individuale”. Anche queste elaborazioni dell’Evola filosofo sono appunto filosofiche, cioè immanentiste, perciò sottilmente devianti.
Questo rimpadronirsi “a posteriori” con un atto volitivo della propria storia e del proprio processo creativo già avvenuto, risente troppo del “fare di necessità virtù”, che può essere una cosa positiva solo fino a un certo punto, oltrepassato il quale diventa azione disonesta e sleale, un rivoltare la frittata e un barare, anche con sé stessi. Qui bisogna vedere fino a che punto il giovane Evola è stato influenzato da Steiner, il quale ha fatto del “fare di necessità virtù” il perno portante delle sue elucubrazioni e del suo “evoluzionismo spirituale”. Fare di necessità virtù? C’è una foglia preda del vento. Chi, io preda del vento? Quando mai, il vento va in quella direzione perché lo voglio io! In tal caso la foglia deve dimostrare di essere anche il vento, e se ci riesce, deve spiegare per quale motivo parla come foglia e non come vento e perché la foglia è distinta dal vento, cosa significa essere foglia o vento ecc. (tutte questioni immanentiste).
Un altro rilievo critico che si può fare all’Evola filosofo, è che interpreta l’“essere in potenza” come un essere virtuale, mentre l’“essere in atto” sarebbe il vero essere reale. Si tratta di un pericoloso equivoco, poiché in ciò è implicita un’inversione gerarchica, derivante dal fatto che si colloca il proprio punto di vista nell’ essere in atto (l’io individuale), e questo in qualche modo rimanda a quell’Assoluto concepito come Idea, senso determinato del tutto (l’assoluto è tale solo se esiste in forma definita e materializzata). In realtà affinché una qualsiasi cosa possa esistere “in atto”, deve prima esistere “in potenza”, può essere “in atto” solo ciò che prima è stato “in potenza”. Noi qui vediamo una precedenza che è conseguenza di un rapporto gerarchico: l’essere in potenza era ed è da prima, l’essere in atto viene dopo come conseguenza voluta.
L’essere in potenza ci parla in realtà della potenza dell’Essere, è la vera realtà primaria, che poi darà luogo all’essere in atto come semplice proiezione. L’atto volitivo di cui ci parla Evola (volontà di potenza), esiste, sì, ma riguarda solo il passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto, perché l’essere in potenza non evolve automaticamente nell’essere in atto, come vuole il rigido determinismo cabalistico, ma richiede l’intervento di un intento o di un volere. L’ambiguità consiste nell’applicare questa volontà di potenza al prodotto finito, cioè all’essere in atto, e anche qui noi vediamo che l’introduzione di un rapporto gerarchico (governato dalla trascendenza) finisce per invalidare in massima parte l’intera impostazione filosofica.
L’essere in potenza è gerarchicamente superiore all’essere in atto, così come l’ordine di realtà sottile è gerarchicamente superiore all’ordine di realtà grossolano, e il mentale è superiore al materiale. L’invito all’atto pratico, anche rituale, è per allineare e rendere coerenti i due ordini di realtà (non certo per condizionare l’ordine di realtà superiore, come fanno i maligni).
La dialettica idealista da orizzontale che era, tende a proiettarsi anche in verticale, rendendo reattivi, antagonisti e contraddittori l’essere in potenza e l’essere in atto, una follia, perché contraddirsi significa negarsi, entrambi i modi d’essere si negheranno vicendevolmente. In effetti noi vediamo che nella filosofia idealista il concetto o l’idea astratta (l’essere in potenza) è cosa “altra” che contraddice l’essere in atto e viceversa, ma questa è solo la conseguenza della impostazione immanentista, se invece noi vediamo l’essere in potenza e l’essere in atto come due stadi diversi e in rapporto gerarchico di un unico processo creativo, allora non vi sarà alcuna contraddizione.
Per quanto riguarda la spontaneità dell’essere distinta dalla volontà di essere, questa è una distinzione che riguarda solo quel certo tipo di filosofia e quel certo tipo di tensione ideale. La volontà di potenza coltivata fine a sé stessa o il volere ricercato per il semplice volere sono delle semplici ossessioni. La vera libertà implica sempre la presenza di un fattore imponderabile e indefinibile che però è inesatto definire arbitrarietà, tale fattore può essere addirittura al di sopra della stessa volontà, poiché questa porta sempre all’atto e quindi è una causa. Al di là della causa c’è colui che la vuole, che quindi deve essere superiore al volere e al non volere. L’essere che vuole sé stesso o vuole “essere” è un assurdo logico, quasi una contraddizione.
Riferimenti:
Emanuele Severino – La filosofia antica – La filosofia moderna (Rizzoli Editore)
Giuliano Kremmerz – La scienza dei magi – Vol. I e II (Ed. Mediterranee)
Jean Daujat – Conoscere il comunismo
Augustin Cochin – Meccanica della rivoluzione (Il Cerchio Ed.)
Julius Evola – L’individuo e il divenire del mondo (Edizioni Arthos)
Antonio Filippini
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