Io credo di aver sentito per la prima volta discorsi sulla “morte delle ideologie” più o meno intorno alla metà degli anni ’70, cioè quarant’anni or sono. Evidentemente “le ideologie” devono essere degli zombi: saranno anche morte, ma questo non significa che ce le siamo levate di torno, né che sia diminuita la loro pericolosità.
In questi discorsi, devo dire la verità, percepivo allora e percepisco ancora adesso qualcosa di molto insincero, su cui sarebbe bene cercare di fare il punto.
Vediamo il contesto, tanto per cominciare.
All’epoca, la grande abbuffata di astrazione ideologica e di utopismo che aveva caratterizzato il ’68 e dintorni stava mostrando la corda e, mentre i sessantottini compivano il giro di boa dei trent’anni, i giovani delle annate successive si mostravano sempre meno inclini a seguire le loro stesse farneticazioni.
Le ideologie stavano morendo in blocco? A me pare che qui s’incontrassero due auto-menzogne consolatorie: quella dei “compagni” che attribuivano il loro fallimento, la loro capacità di incidere sulla situazione politica a una carenza di interesse per il destino della società della generazione dei loro epigoni, piuttosto che alla sterilità, al vuoto che le loro idee avevano rappresentato e rappresentavano, e l’autoinganno del pari consolatorio delle forze politiche borghesi-moderate-benpensanti per cui “la morte delle ideologie” (estreme) significava (la speranza di) un convergere verso il centro dello schieramento politico di generazioni apparse fin allora ribelli.
In realtà era una ideologia, quella della falce e martello, che stava mostrando i sintomi di un miserabile fiasco.
Riguardo al nostro punto di vista – se non vogliamo usare la parola ideologia, e come vedremo più avanti, è meglio non usarla – io non scorgevo alcun segno di necrosi. I motivi che avevano spinto gli allora ragazzi della mia generazione su di una precisa barricata mi sembrava rimanessero tutti pienamente validi: prima di tutto il fatto di essere italiani in una città di confine come Trieste, con un’identità italiana precaria e minacciata, senza d’altra parte trovare nella madrepatria, nell’Italia democratica e antifascista alcun genere di sostegno, anzi tutto il contrario; poi la voglia di riscatto, di emancipazione sociale, sapendo bene che essa non trovava alcuna sponda “a sinistra” da parte dei figli di papà sessantottini, perlopiù “compagni al caviale” intenti a distruggere con la scuola selettiva e gentiliana un importante strumento di promozione sociale.
Teniamo conto anche del fatto che quelli erano gli anni del trattato di Osimo, che profilavano un’Italia pronta a cedere all’arroganza slava più di quanto la sconfitta nella seconda guerra mondiale ci avesse fatto perdere, e a stendere un velo omertoso sul martirio della nostra gente al confine orientale e sulla tragedia delle foibe; un’Italia in cui l’interesse di partito e la malafede nel coprire i torti della propria parte ideologica avevano di gran lunga la meglio sull’interesse nazionale, e antifascista si rivelava un eufemismo per anti-italiano.
Allora di certo non potevamo prevedere quello che sarebbe avvenuto nei decenni a venire, l’importazione in massa di braccia a basso costo dal Terzo Mondo da parte del capitale finanziario internazionale per comprimere al massimo il mercato del lavoro e far regredire tutte le conquiste sociali, con la complicità di una sinistra che cerca negli immigrati un “proletariato alternativo” alla crescente disaffezione nei suoi confronti delle classi lavoratrici europee.
L’avessimo potuto immaginare allora, avremmo capito ancora meglio quanta ragione avevamo nel ritenere che la coalizione sconfitta nel 1945 è stata l’ultima grande speranza dell’Europa.
Tutto l’interminabile “funerale delle ideologie” si svolgeva in un’atmosfera di mistificazione. Con un linguaggio da idrodinamica, si diceva che quello era “il riflusso” sotto il quale si indovinava però “l’onda lunga”.
In altre parole, una parte dei consensi giovanili che la contestazione aveva ottenuto sarebbe stata dovuta a un fatto di moda che ora si spostava su altre mode, ma a lato o al disotto di questo, c’era la conquista delle coscienze più lunga, progressiva e irreversibile, che alla fine avrebbe consentito anche di aggirare la collocazione internazionale dei Paesi dell’Europa occidentale, la NATO e “l’ombrello nucleare” americano.
Era da parte dei “compagni” un modo di presentare le cose estremamente astuto. Persuadere gli avversari dell’inevitabilità della sconfitta, spingerli a essere i primi a dubitare della bontà della loro causa, determina innegabili vantaggi.
Non si trattava altro che dell’ennesima mistificazione: l’impatto emotivo, il delirio ideologico che aveva accompagnato l’ondata sessantottesca, infatti, era servito una volta di più a glissare su di una realtà scomoda quanto innegabile, il fatto che i “socialismi realizzati” all’Est erano delle mostruose tirannidi capaci di elargire ai loro sudditi solo oppressione e miseria.
In seguito è stato relativamente facile, dopo la caduta del muro di Berlino, fare finta che fino ad allora non vi fosse stato modo di accorgersi del carattere tirannico dei regimi dell’Est, era un “fare gli scemi per non pagare il dazio” che conveniva a tutti, ai “compagni” che così potevano presentarsi con una “coscienza democratica” rinnovata e ripulita, e alle democrazie borghesi che avevano trattato fin troppo a lungo questi regimi come entità politiche rispettabili.
A rimetterci una volta di più, a rimanere emarginati e ghettizzati, privati del riconoscimento di aver avuto ragione, sono rimasti coloro il cui amore per la libertà li aveva spinti a un anticomunismo da sempre giudicato sconveniente, “i fascisti” naturalmente.
Questo termine, “ideologia” ha una storia davvero curiosa. A usarlo per la prima volta erano stati nel XIX secolo gli intellettuali francesi riuniti nel circolo di madame De Stael; i più importanti furono Benjamin Constant e Alexis De Tocqueville, il gruppo che si definì appunto degli ideologues.
Nel significato che costoro davano al termine esso voleva dire semplicemente “studio delle idee”, le idee politiche. Furono gli ideologues a fissare la distinzione fra aspetto liberale e aspetto terroristico (in riferimento al periodo del Terrore) della rivoluzione francese.
Le cose cambiarono con Marx che con il suo scritto L’ideologia tedesca usò questo termine per indicare la visione del mondo falsata e mistificata, contrapposta a quella reale e oggettiva, data a suo parere dal materialismo dialettico e storico.
E’ interessante il fatto che dopo la morte di Marx si sia cominciato a parlare di “ideologia marxista”, un’espressione che l’uomo di Treviri avrebbe sentito con orrore, un’implicita, involontaria ammissione del fatto che il marxismo è una visione del mondo falsata e mistificata. Perlomeno, con essa si intende il corpo dottrinale di un partito che il militante è tenuto a credere indipendentemente dalla sua rispondenza alla realtà, un po’ come i dogmi della religione, ed è man mano diventato evidente che le profezie di Marx: il crescente immiserimento delle classi lavoratrici dei Paesi industriali, la rivoluzione socialista mondiale, l’avvento della società senza classi, non trovavano il minimo appiglio nei fatti.
Per quanto riguarda noi, io eviterei proprio il termine “ideologia”. Ritengo nettamente preferibile parlare di Weltanschauung, di visione del mondo, anche per non dimostrarsi psicologicamente sudditi della terminologia degli avversari.
A ogni buon conto, è utile capire che quella marxista non è la sola ideologia che ha impregnato (impestato) e impregna (impesta) la nostra cultura dalla metà del XX secolo a ora.
Il cristianesimo è una religione e non un’ideologia, una religione di cui ho parlato senza tabù e senza eccessive tenerezze, ma ora non è questa la sede. Tuttavia negli anni della contestazione è sorto anche, parallelo a quello marxista, specialmente in Italia, Paese di cattolicesimo radicato, ma non solo in Italia, un “cattolicesimo di sinistra” o addirittura per alcuni un “comunismo cristiano”, che naturalmente ha interessato solo una parte di quanti si dichiaravano e si dichiarano credenti, che è a tutti gli effetti un’ideologia e va considerato come tale, un’ideologia con cui è molto difficile fare i conti, perché l’elemento religioso si traduce in una presunzione di non giudicabilità in termini razionali.
Dal ’68 in poi ma persino in tempi precedenti, la contestazione marxista è stata accompagnata da un suo simmetrico cattolico. Per tutti ricordiamo gli echi che ha avuto da noi la Teologia della liberazione latino-americana, la scuola di Barbiana di don Milani, l’Isolotto, e per nulla dire dello stesso concilio Vaticano II.
Questo cattolicesimo di sinistra sorto parallelamente ai movimenti contestatori marxisti, testimonia una volta di più la straordinaria abilità della Chiesa cattolica nel fare, come si dice, “due parti in commedia”. Da un lato è evidente che essa è un potere legato al potere economico e finanziario che controlla il mondo occidentale moderno: potere politico, prestigio, peso economico, controllo mediatico, affari. Dall’altro, nonostante questo, riesce molto bene a fare la contestatrice di ciò di cui essa stessa fa parte: “E’ nel mondo ma non è del mondo”, a godere contemporaneamente i vantaggi del potere e dell’opposizione.
Nei contestatori in tonaca non mi riesce proprio di scorgere alcunché di positivo. Di una figura come don Mazzi, passato da leader dell’Isolotto a “cappellano della RAI”, non parliamo proprio, un personaggio che si è demolito e si demolisce da sé. Su don Lorenzo Milani varrebbe forse la pena di spendere qualche parola in più, anche perché il modello rappresentato dalla scuola di Barbiana da lui creata, della scuola non selettiva che non boccia e non pretende impegno, è stato quello che la contestazione ha cercato di replicare nella scuola pubblica.
E’ ovvio che nella scuola “gentiliana” che valuta, seleziona e boccia, chi proviene da ceti popolari e meno colti, è svantaggiato rispetto a chi proviene da famiglie maggiormente agiate e acculturate, non è una cosa perfetta, nessuna cosa umana lo è, ma ha una possibilità di farsi strada con capacità, impegno, merito. La scuola “democratica e non selettiva” modello Barbiana, dei “tutti dottori e tutti asini” distribuisce titoli di studio che sono solo delle patacche svalutate.
La selezione cacciata dalla scuola si ripresenta nella società in base a criteri che sono tutto meno che equi: raccomandazioni, tessere di partito, clientelismi di ogni genere, magari appartenenze mafiose.
I sessantottini, “compagni al caviale”, distruggendo la scuola selettiva, sapevano bene quello che facevano, tutelavano i loro interessi di classe che non erano e non sono certo quelli delle classi lavoratrici.
E tanto per renderci conto ancora meglio quanto poco o quanto nulla certo cattolicesimo di sinistra si distingua dal marxismo, non dimentichiamo che dalla scuola di Barbiana è uscito Renato Curcio, il leader delle Brigate Rosse.
E’ importante sottolineare il fatto che, se con la scomparsa della “casa madre” sovietica il comunismo ha perso la sua ragion d’essere, questo non significa che oggi in Europa non ci siano più comunisti. (Non parliamo delle sopravvivenze di questo tipo di regimi in Cina, a Cuba, nella Corea del nord, che opprimono pur sempre un sesto degli abitanti di questo pianeta). Gli esseri umani, lo abbiamo visto, presentano una naturale resistenza a prendere atto del mutamento delle situazioni quando non collimano con i loro preconcetti.
Diversi anni fa, allora non avevo ancora iniziato la collaborazione con “Ereticamente”, pubblicai sulla rivista “Ciaoeuropa” di Antonino Amato un articolo rivolto ai “compagni” e molto ironico fin dal titolo: Benvenuti all’inferno: benvenuti a condividere con noi l’inferno delle idee sconfitte, tuttavia era meglio che non si illudessero: la loro posizione non era e non è simile alla nostra, noi all’inferno abbiamo imparato a starci, abbiamo sempre saputo che il nostro ruolo è quello di andare controcorrente, a dispetto di tutto e di tutti, ma soprattutto sapevamo fin dall’inizio che il compito che ci eravamo scelti era quello di risollevare una bandiera caduta nel fango.
Il fascismo, lo sappiamo bene, è stato sconfitto sui campi di battaglia ben prima di aver dimostrato tutte le sue potenzialità positive o negative, e questo non è certamente paragonabile al destino del comunismo sovietico, informe pachiderma crollato sotto il suo stesso peso, che ha avuto ampio modo di dimostrare la sua incapacità a produrre altro che oppressione e miseria.
Una volta dissolta la “casa madre” sovietica, con essa sono scomparse anche la prospettiva della “rivoluzione socialista” mondiale e l’idea di un progresso immanente della storia verso il dominio del proletariato e la società senza classi. Tolto questo, quel che rimane ai “compagni” è il puro nulla, e loro stessi non sono altro che un nulla che cammina, zombi appunto.
La nostra analisi tuttavia non è conclusa; infatti, se dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica il comunismo “classico” ha cessato di avere una ragion d’essere, soprattutto dopo che le sinistre europee hanno abbracciato con entusiasmo da neofiti “filosofie” neo-liberiste, è stata proprio la nascita di un mondo “unificato” e “globale” a determinare la nascita di nuove ideologie e aberrazioni intellettuali, e a una disamina di esse dedicheremo la quarta parte della nostra trattazione.
Fabio Calabrese
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