8 Ottobre 2024
Punte di Freccia

La bellezza e la gioia dei vinti…

Rivolgendosi in versi – ‘su un ritmo di Boileau’ – al suo avvocato Jacques Isorni, Robert Brasillach scrive de ‘le prigioni dai grossi muri, e Fresnes brulicante/ di vinti che furono dei valorosi’. Amo raccontare dei vinti, non mi considero un vinto. Ho sempre difeso libri quali Atmosfere in nero e Ai confini del nero dal rischio d’essere intesi all’ombra funerea e funesta del pessimismo. Così aveva voluto lasciare a testamento Giano Accame con il suo La morte dei fascisti, rimasto monco dell’ultimo capitolo, perché non si può chiedere al tumore sconti o tregua. Irridere ‘la signora Morte’, farle la corte, con un gesto o una canzonaccia strafottente indossando la camicia  nera e il teschio a fregio sul berretto non è altro che un grido nobile e fiero verso la vita, un certo tipo di esistenza ove il rischio e la sfida coabitano al quotidiano esperire. Se non in nome del valore, contro la noia…

(Del resto già Nietzsche, parlando del nichilismo e di se stesso, affermava d’essere colui che per primo l’aveva denunciato e, al contempo, superato).

Ciò vale, dunque, anche per La guerra è finita, la quale lo è certamente per i due protagonisti – la ‘strage delle illusioni’ preserva, però, integra la consapevolezza d’aver combattuto ‘la bella battaglia’ –, ma ‘non’ è finita se la s’intende ‘del sangue contro l’oro’. Insomma, se proprio ci si vuole innamorare del termine pessimismo, si vada a tenere a mente la distinzione tra quello passivo (Schopenhauer) e quello attivo (Nietzsche). E si osservi, inoltre, l’utilizzo dell’aggettivo ‘bello’ e non di quello filologicamente più corretto ‘giusto’, come da citazione paolina.

Da La memoria bruciata di Mario Castellacci, già allievo ufficiale della GNR, scuola di Orvieto, autore di quella Canzone strafottente, meglio nota come ‘le donne non ci vogliono più bene’ e considerata da Giorgio Bocca come ‘la più bella canzone della guerra civile’, ricordando lo spettacolo di disfacimento del nostro esercito, immagine servile e indecente, nel giorno dell’8 settembre in piazza San Giovanni, su cui aleggiava ‘il colore sporco della vergogna’, annotava come i valori etici divenissero espressione di una estetica: ‘Premevano nell’idea di ‘bello’ parole fino a quel momento importanti, giunte in quel punto al limite storico estremo di un possibile riscatto: onore, decoro, lealtà, coraggio, patria contrapposti a vergogna, viltà, voltafaccia, sisalvichipuò. (…) Valeva dunque la scelta meno conveniente, la meno calcolata. La più bella, appunto’.

Un percorso a ritroso, se si cercano paragoni, un rovesciamento degli stadi proposti dal filosofo danese Soren Kierkegaard – l’estetico, attraverso la figura del don Giovanni di Mozart, l’etico, di cui è personificazione il borgomastro Guglielmo, il religioso, tramite Abramo e il sacrificio di suo figlio Isacco –. E non può essere altrimenti perché, se ‘Dio s’è ritirato’, come spiegava il filosofo esistenzialista cattolico Gabriel Marcel, in quanto l’idea della morte di Dio corre il rischio di contraddirsi messa a confronto con l’attributo dell’eternità, i valori morali si risolvono in insipide e fallaci maschere per nascondere il vuoto che è in noi e fuori di noi. Solo rimane l’estetica, attimo folgorante e trascendente l’umana consapevolezza dell’imperfezione, sua sublimazione, capace di permanere oltre il tempo finito e pur dissolversi come si dissolvono i sensi di coloro che ne sono facitori e ammiratori.

Ecco perché, prossimo al tracollo nella Torino tanto amata e suo estremo rifugio, componendo quella sorta di visionaria esaltata ed esaltante tragica autobiografia dal titolo emblematico Ecce Homo, Nietzsche può intitolare uno dei capitoli Perché scrivo così buoni libri (dove egli intende ‘belli’ e solo il contrapporsi con il cristianesimo lo ricaccia in una aggettivazione di ordine morale da lui superato nel collocarsi al di là).

La guerra è finita è, dunque, un ‘bel’ libro – e non sto qui, simile ad un attore a sponsorizzare il mio ultimo lavoro davanti alla telecamera e a un compiacente presentatore (‘ecco, ed io gitto con grazia il cappello,/ poscia comodamente, pian pianino,/ mi libero del mio vasto mantello/ che mi attabarra, e lo spadon sguaino…’. Ahi, mio amato cavaliere come t’hanno ridotto, strappato il pennacchio e denudato il mistero della luna, solo ti hanno preservato per il facile dileggio il grande naso e obliato il grande tuo cuore!). Ed è bello perché narra dei vinti sotto forma di romanzo. Ormai ad oltre settant’anni…

‘Vanitas vanitatum vanitas’… Nel 1936 Margaret Mitchell pubblica Via col vento, libro che avrà un successo strepitoso, anche per la realizzazione cinematografica del ’39. Sono passati poco più di settant’anni da quando, 1865, la Confederazione s’è dovuta arrendere allo strapotere degli stati dell’Unione (la più grande carneficina nella storia degli Stati Uniti, oltre 600.000 morti). Non un saggio, si direbbe oggi revisionista, un romanzo e dalla parte degli sconfitti, con una evidente nostalgia per un modello di civiltà scomparso (penso a Maurice Bardèche e al suo Fascismo ’70, il cui titolo originale è Sparte et les Sudistes o di Domenique Venner Il bianco sole dei vinti). Un’epopea, con al centro una protagonista, Rossella O’Hara ad incarnare ‘il mondo di ieri’, un’epopea a sanare le lacerazioni, ancora avvertite tali, di un conflitto. (Dostoevskij contro Nietzsche ove si ha nel romanzo lo scavo profondo dell’animo umano che, nella filosofia, tarda a compiersi).

La bellezza e la gioia si sposano con la scelta dell’essere contro, pur nella consapevolezza dell’imminente ed inesorabile disastro. Perché il bello ci avverte che siamo eredi dell’imperfezione e perché nell’inno, che eleviamo alla gioia, la danza s’interrompe vittima del principio di gravità… Salmo I: ‘E il nemico già si crede immortale/ ma egli solo spera nel lungo avvenire del suo potere./ E le sbarre, o Signore, non riescono a nasconderci il cielo’. La bellezza e la gioia si ergono nel deserto dei giorni, sulla solitudine del mondo – e, se gli dei ci sono stati avversi, carichi d’acciaio e avidi d’oro, beh, tanto peggio per loro…

Mario Michele Merlino

 

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