Il Razionalismo Italiano, tutti lo studiano ma in Italia c’è il “barone” Portoghesi che lo denigra.
La nostra università è il solito feudo fazioso
“Mussolini urbanista? No, usò l’architettura per soggiogare”, così scrive un po’ senza pudore – quasi come al risveglio dopo una nottata di cattiva digestione, a causa di una non perfetta impepata di cozze – Paolo Portoghesi il 22 maggio scorso sul sito del Corriere della Sera. Il professore – o “barone”, come si definiscono nel linguaggio corrente questi accademici dal grande potere politico-culturale – ha firmato un articolo che, ci rincresce, di scientifico ha poco, di ostilità invece molto, trasudando di quell’antifascismo dalla “bava alla bocca”. Potremmo pure non parlarne, ma Portoghesi è uno studioso assai conosciuto nel campo della Storia dell’Architettura, dunque un pezzo scritto con palese faziosità da parte di un accademico va in qualche modo stigmatizzato. Inoltre, egli non è che disdegni nel far sentire il suo peso: quel Padiglione Cosenza, che marcisce da decenni dietro alla GNAM a Valle Giulia, è stato da lui strenuamente difeso, malgrado chiuso e abbandonato. Calma calma, non che il professore abbia fatto qualcosa di concreto per incoraggiare tale scempio sia chiaro e, pare, che ora il Ministero voglia finalmente restaurarlo. Purtuttavia, lui e la koltissima élite gauchiste che lo circonda, quando a suo tempo il progetto per l’abbattimento del suddetto padiglione, così da ampliare la Galleria, venne affidato agli svizzeri Diener & Diener, qualche pressione intellettuale l’hanno esercitata, ma, ripetiamo, questo è lecito: chi ha delle competenze specifiche ha tutto il diritto di esprimerle e divulgarle, ci mancherebbe. Fatto sta, che il progetto dello studio di architetti con sede a Basilea venne finanziato e però mai portato a compimento; eravamo nel 2000! Per qualche anno, vicino ai bagni all’interno della GNAM (una collocazione casuale?) venne esposta la maquette del nuovo progetto, per poi sparire. Ecco, diciamo, e non pensiamo di essere ingiusti, che la nostra università talvolta non agisce sempre per il bene di tutti: si sa che in Italia la sinistra fa sovente confusione tra cultura e politica, le quali, da Gramsci in poi, raramente non si influenzano.
Quello che invece ci trova decisamente meno “comprensivi” è il nervosismo manifestato sempre da Portoghesi nel sopracitato scritto apparso sul sito del Corriere, nel commentare il libro di Paolo Nicoloso, Mussolini architetto: propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista (Torino, Einaudi, 2011). Qui si è chiaramente rivelata quella “malattia intellettuale” che spinse anni fa Goffredo Parise a definire la nostra Nazione come il: “Paese della Politica”.
Parole eccessive, a nostro parere, quelle del noto accademico; il quale non ha mai fatto mistero delle sue idee politiche. Ecco, allora, che egli condivide con Nicoloso un disagio verso la crescente tendenza a celebrare il ruolo di grande urbanista del Duce, giudicandola come: “l’ennesimo paradosso italiano”. Portoghesi si spinge oltre, mostrando addirittura una preoccupazione verso l’aumentare di numero di coloro che rivendicano per Mussolini un ruolo di abile ideatore di città, ritenendo che: […] la unica idea urbanistica che lo guidò nell’occuparsi di Roma non fu la costruzione di una città nuova, ma la costruzione di edifici pubblici e l’intervento del ‘piccone demolitore’ sulla città antica”. E via nel citare, in modo acritico, tutti gli “scempi” del Regime: per costruire via dell’Impero venne sacrificato un intero quartiere, quello della via Alessandrina e i suoi abitanti “deportati” (un termine inadatto questo di Portoghesi) nelle borgate o nelle baraccopoli; si distrusse inoltre la Spina di Borgo; si isolò il Mausoleo di Augusto collocandolo in mezzo a ‘casermoni indecorosi’”.
Il quotato studioso conclude il suo pamphlet, nel quale è così evidente la volontà di far passare in secondo piano una doverosa analisi critica, rispetto a un personalissimo giudizio politico, con degli apprezzamenti quasi grotteschi sul cosiddetto Colosseo Quadrato (il Palazzo della Civiltà Italiana), un edifico che: “[…] ha certamente un suo fascino ma è un monumento-chiave solo in quanto con la falsità dei suoi archi e la inutilità dei suoi loggiati e delle sue scalinate è l’immagine artistica di un regime che troppo spesso ha usato (io direi profanato) l’architettura non come un mezzo per migliorare la vita degli uomini, ma come un mezzo per soggiogarli, per illuderli, per costringerli loro malgrado a ‘credere, obbedire, combattere’”. Purtroppo, siamo ancora messi così… male, molto male. Divisi e faziosi, sia a destra sia sinistra, questa è la classe culturale italiana!
Tali atteggiamenti raramente non generano sciagurate adesioni. È il caso di quanto è stato proposto per la Casa del Fascio di Predappio: “dividerla in due con un sentiero della Memoria”. A inizio luglio, l’ANPI di Londra (avete letto bene) ha diffuso questa ridicola idea, in vista della ristrutturazione l’edificio dopo settant’anni di chiusura. Aprire un varco nella struttura razionalista per farci entrare: “il sentiero della memoria e della lotta per la Liberazione”. Questi “reduci dei reduci” sono talmente accecati dai loro anacronistici dogmi, che ci credono davvero a quello che dicono: “Il sentiero attraverso il varco – spiega uno dei membri della associazione partigiana, Alfio Bernabei, giornalista da tempo trapiantato in Inghilterra – è inteso a rievocare i percorsi spesso su terreni impervi tra i boschi e le colline delle brigate partigiane impegnate nella lotta di liberazione”.
Siamo imbarazzati per loro, che ignorano quello che succede nel mondo, chiusi nelle torri d’avorio della sinistra radical. Ci fanno una tale brutta figura nel non sapere quanto l’architettura razionalista sia oggetto di attento e serissimo studio all’estero, e non certo da oggi; quando in Italia è talvolta ancora una specie di tabù. Basterebbe essere a conoscenza delle tante pubblicazioni in materia, nonché del crescente numero di mostre su questo argomento, come quella dal titolo: Esposizione Universale Roma. Una città nuova dal fascismo agli anni ’60, a cura di Vittorio Vidotto, ospitata presso il Museo dell’Ara Pacis (12 marzo – 14 giugno 2015); ricordiamola brevemente.
Parlare di questa mostra è utile per spiegare il senso del nostro articolo, poiché il “Caso EUR” rappresenta una vera macchia nella serietà di alcuni autorevoli architetti e ricercatori italiani che hanno dettato il canone del sapere nel Dopoguerra. Mentre celebri professionisti e studiosi stranieri quali Léon Krier e Peter Eisenman si interessano da tempo delle opere costruite durante il Ventennio, da noi solo di recente si è potuto cominciare a parlare della grandezza di quello che è, non solo a nostro avviso, il più raffinato progetto urbanistico del secolo scorso, l’EUR per l’appunto.
Vero, almeno su una cosa ci sentiamo di concordare con Nicoloso e Portoghesi, L’E42 (Il nome corretto dell’EUR), come molti altri interventi architettonici operati dal Regime, fu un progetto di chiara propaganda politica, per celebrare i fasti della Rivoluzione Fascista. Ciononostante, esso si presentò anche come una straordinaria occasione per reinterpretare lo spirito e l’arte della Roma Imperiale, rimanendo tuttavia fedeli al linguaggio moderno del Razionalismo. Una scommessa accettata da un gruppo di giovani architetti, convintamente fascisti, e in buona parte vinta. La storia del quartiere è allora indissolubilmente legata non solo al nome di Marcello Piacentini, ma pure a quelli di Adalberto Libera, Gaetano Minnucci, ma anche a grandi professionisti che per alterne vicende non videro mai portati a termine i propri progetti per l’E42, come Giuseppe Pagano e Giuseppe Terragni.
L’EUR ci ha regalato inoltre uno straordinario polo museale, prezioso quanto negletto. Verrebbe subito da pensare a quell’unicum museale che è il Museo della Civiltà Romana, con la sua serie infinita di calchi e repliche del periodo della Antica Roma, un contenitore meraviglioso, sebbene intriso della retorica del Regime. Vi è però molto di più: il Museo della Arti e Tradizioni Popolari, quello dell’Alto Medioevo, le collezioni di livello mondiale del Pigorini, in maggior parte nei depositi; nonché delle cicche come il Museo delle Poste e Telecomunicazioni e quello delle Auto della Polizia di Stato. Solo per quanto concerne i musei si è rispettata la vocazione espositiva e culturale dell’E42, che per il resto è diventata una zona direzionale.
Gli edifici del quartiere sono stati amati da alcuni grandi registi, molti dichiaratamente di sinistra, è il caso di Elio Petri che girò proprio qui alcune memorabili scene di uno dei suoi capolavori: La decima vittima (1965); per non parlare poi delle ripetute manifestazioni di stima verso queste architetture da parte di Federico Fellini; come pure alcune mitiche sequenze di una pellicola cult di fantascienza: L’ultimo uomo della Terra (1964) di Ubaldo Ragona. Si può allora parlare persino di una vocazione cinematografica dell’EUR, che tra il 1945 e il 1970 diventa una importante presenza nel cinema italiano. Chiediamoci dunque da dove provenga il fascino che questo quartiere in fin dei conti incompiuto ha esercitato su vari artisti e cineasti. Il motivo va ricollegato al fatto che esso è l’unico tra le nuove aree urbane di Roma che viene riconosciuto come appartenente al tessuto storico della città, ovvero che la rappresenta; ecco il perché dell’interesse che ha suscitato in tanti registi. Non pensiamo che si possa dire lo stesso di quegli orrori urbanistici dell’Italia Repubblicana, come la Prenestina e la Tiburtina. Però i detrattori dell’EUR ignorano tutto ciò, ed è grave, giacché fanno prevalere la ideologia sulla ricerca, la quale prevede necessariamente due fattori: l’analisi di un determinato evento/tema e la sua imparziale contestualizzazione storica, insieme alla formulazione di una teoria critica. Se questa però, come nel caso della solita sinistra italiana, si risolve in una insensata damnatio memoriae, allora non ci siamo. Così non si aiuta per nulla il progredire dello Studio. Buttare sempre tutto in politica è nauseante. Un piccolo aneddoto personale al riguardo. Di recente abbiamo assistito a un concerto di musica minimalista, durante il quale, il direttore dell’orchestra, nonché docente presso il Conservatorio di Santa Cecilia, ha affermato che questo tipo di musica è “democratica”, visto che nessuno strumento prende il sopravvento sugli altri. Mah, è proprio vero quello che sosteneva Walter Benjamin: se il fascismo ha estetizzato la politica, il comunismo ha politicizzato l’arte.
In anni nei quali parlamentari impreparati e ostili al Bello e alla Storia parlano di cancellare scritte e abbattere l’Obelisco del Foro Italico (già Foro Mussolini), la mostra a cui abbiamo accennato ci ricorda quanto è stato grande il progetto dell’E42, così visualmente potente da diventare eterno, malgrado incompiuto. Esso è, e non potrebbe essere altrimenti, il simbolo stesso della parabola fascista. Ovvero, il sogno di una Italia classica, culla della Umanità, ma nel contempo moderna; dove l’interesse pubblico era nel Popolo e nel costruire per il Popolo. Alla stregua di questo quartiere realizzato solo in parte, anche la politica del Regime è in qualche modo rimasta inespressa, per poi corrompersi del tutto. Ciononostante, alcuni lasciti del fascismo sono riusciti a sopravvivere e a permeare la vita della Nazione e lo hanno fatto anche per merito di queste architetture e marmi che – come direbbe John Ruskin – si “mostrano onestamente”, rivelando una anima sincera e vitale; assai diversa da quella corrotta incarnata dagli edifici di oggi, facili al crollo e alla corrosione, come è del resto la nostra epoca. Ciò malgrado, nelle aule delle nostre università si continua a fare politica; poco male. Male è, invece, che la sia faccia con i paraocchi, ripetendo un inadeguato, visti i tempi, mantra sui soliti luoghi comuni, senza tenere conto delle nuove teorie elaborate dalla ricerca.
Abbiamo, perciò, ancora il coraggio di stupirci se le nostre università, dalla ineguagliabile tradizione, sono puntualmente relegate negli ultimi posti o quasi delle classifiche dei migliori atenei internazionali? Suvvia, da noi, tra le tante sciocchezze, si sta ancora a discutere sulla qualità del Razionalismo Italiano, e nessuno può schiodare i potenti dalle loro poltrone. Però, l’Italia è oggi un piccolo paese in tutti sensi, e costoro possono tranquillamente continuare a ciarlare, mentre il mondo va avanti. Consuetudo est altera natura e, questa, francamente, non è la prerogativa di un grande studioso.
Riccardo Rosati
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