Il 28 giugno 1914 l’erede al trono degli Asburgo si trovava in visita nella città di Sarajevo, prima visita ufficiale da quando, quattordici anni prima, era stato designato a succedere all’imperatore Francesco Giuseppe, dopo un lungo contenzioso ed ostilità, motivata dall’aver voluto sposare una nobile donna boema, Sofia Chotek, ma non di pari dignità aristocratica come imponeva la complicata e rigorosa gerarchia della scala aristocratica, ereditata dal Congresso di Vienna. Visita scelta e, per una ragione politica, non a caso. Forse non sapeva che in quello stesso giorno, nel lontano 1389, nella cosiddetta Piana dei Merli (oggi Kosovo Polje) l’esercito serbo guidato dal principe Lazzaro, era stato sterminato dai turchi. In quel Kosovo che, reso così sacro dal sacrificio dal sangue dalle ossa calcinate nel terreno, sarebbe rimasto ed è tuttora una ferita mai rimarginata, tanta parte del sentimento di identità di tutto un popolo. Era, però, il giorno di San Vito, celebrato con particolare attenzione dalla Chiesa ed elevato a festa nazionale serba proprio per quel lontano avvenimento storico.
(Un Kosovo dove sventola la bandiera a stelle e strisce su ogni edificio pubblico, dove campeggia una mostruosa statua del presidente Clinton ad ammonire chi la fa da padrone, dove s’è realizzata la base USA più grande in Europa per digrignare i denti e irrigidire i muscoli verso la Russia di Putin e tutto questo con un plebiscito – e si sa come è facile manipolarne l’esito, cosa che in Italia conosciamo bene fin da quello per la cessione di Nizza e Savoia alla Francia al tempo del Risorgimento e, poi, il fasullo referendum del ’46 tra repubblica e monarchia –. Oggi, con un analogo plebiscito, questo con precise motivazioni storiche ed etniche, s’è reso in Crimea. E, ovviamente, il democratico Obama strilla allo scandalo insieme ai servitorelli del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Europea, che dell’Ucraina se ne fregano salvo avere mano d’opera a buon mercato e stringere ancor più la Russia in accerchiamento).
Dicevo d’una ragione politica. L’arciduca Francesco Ferdinando era il fautore del cosiddetto ‘trialismo’, che intendeva inserire il ceppo slavo con pari diritti nell’Impero già suddiviso in quello austriaco e ungherese. Vi era palese ostilità verso le comunità italiane, nel Trentino a Trieste in Istria e Dalmazia, tutte a guardare in chiave irredentista il Regno d’Italia, sì alleato nella Triplice Alleanza, ma consapevole che troppe erano le spinte centrifughe di quell’accordo. Il capo di stato maggiore, il barone Conrad von Hoetzendorf, in linea con il medesimo convincimento, non s’era fatto scrupolo di esprimere in modo plateale la totale avversione all’Italia tanto da spingersi a programmare una spedizione preventiva che, durante la guerra, verrà definita ‘punitiva’ per vendicarsi con le armi del tradimento, presunto o reale. (Il destino dell’Italia si chiama 8 settembre?).
Non è di questo scritto l’intento di ripercorrere le tappe del dissidio e poi del conflitto di cui quest’anno cade il centenario, nello specifico italiano l’anno prossimo. Solo rilevare, a premessa lunga e al contempo sintetica, quanto le intenzioni di Francesco Ferdinando si scontrassero con i popoli slavi del sud e, in primo luogo, i serbi che si adoperavano a dare corpo al sogno della grande Serbia, da alcuni storici definito come una sorta di ‘piemontesizzazione’ del Risorgimento nella penisola balcanica.
Andare, dunque, a Sarajevo era da una parte affermare qual’era la priorità della politica dell’arciduca al momento in cui sarebbe salito al trono al posto del vecchio imperatore Francesco Giuseppe (di fatto due anni dopo, nel 1916, a Vienna si svolgeranno i suoi funerali). Dall’altra, in questo gesto i serbi, l’ala estrema nazionalista, vi leggevano una provocazione, un tentativo d’infrangere le loro aspirazioni. Situazione tanto esplosiva che le autorità asburgiche avrebbero voluto limitare la visita in luoghi protetti, una sorta di presenza fugace e sotto tono. Cosa questa che, va da sé, venne rifiutata da Francesco Ferdinando che, in automobile, con a fianco la moglie si mosse incontro al suo destino (espresso dal sorriso enigmatico della Sfinge), costellato da una serie di eventi a concorso, tappe ineludibili o frutto dell’insorgere nella storia della casualità (alle cui spalle, ghignante il Caos si affaccia là dove ci si è illusi d’averlo relegato).
A mezza mattinata il corteo, composto da sette automobili (nella seconda, scoperta, sedeva l’arciduca con sua moglie), iniziò il tragitto lungo le strade della città tra due ali di folla e un numero inadeguato di agenti di polizia (allertati i soldati della vicina caserma, non furono impiegati in quanto sprovvisti dell’uniforme da parata…). Dal confine erano arrivati sette giovani attentatori, appartenenti ad una delle società segrete anti-austriache, inesperti male armati con in tasca pasticche di cianuro per suicidarsi in caso di cattura, che risultarono scadute e inefficaci. Si posizionarono in vari punti dell’itinerario ufficiale, ma il primo, da una finestra, non sparò giustificandosi del cattivo campo visivo; il secondo, Nedeljco Cabrinovic, lanciò un ordigno esplosivo che mancò il bersaglio, ferendo però gli occupanti della macchina successiva e alcuni passanti. E, di fronte a tale situazione, il corteo decise di rientrare rapidamente nella struttura protetta del governatorato austriaco.
Scampato dal pericolo; fallito l’attentato… ma, a questo punto, Francesco Ferdinando volle recarsi all’ospedale per visitare i feriti, nonostante ogni invito contrario. Il suo autista, Franz Urban, ignaro dei percorsi cittadini, nei pressi del ponte latino, si vide costretto a fare retromarcia e, qui, si incontrò, a pochi passi, dallo studente Gavrilo Princip con la pistola ancora in tasca che, convinto ormai dell’insuccesso, usciva da un alimentari dove s’era andato a fare un panino (l’adrenalina mette fame!). Fu facile gioco colpire Sofia all’addome e l’arciduca sotto il collo, due proiettili entrambi mortali. O potevano essere salvati? Trasportati all’ospedale, i medici si interessarono immediatamente della donna che, in vaporoso abito bianco, mostrava l’espandersi del sangue dalla ferita. In effetti ben più grave era il marito, per una emorragia
interna, che non si vedeva in quanto compressa dall’uniforme (Francesco Ferdinando, soffrendo di una certa pinguedine, si faceva cucire la divisa perché gli contraesse la pancia. E, in ospedale, non riuscirono a trovare subito un paio di forbici per lacerare il tessuto…). Si racconta che spirasse volgendosi alla moglie ‘non morire, non morire! Chi si prenderebbe cura dei nostri figli?’ (un bel finale di una storia d’amore e non l’inizio di un conflitto che, al suo termine, vedrà quattro imperi nella polvere, nove milioni di soldati morti, cinque milioni di civili).
interna, che non si vedeva in quanto compressa dall’uniforme (Francesco Ferdinando, soffrendo di una certa pinguedine, si faceva cucire la divisa perché gli contraesse la pancia. E, in ospedale, non riuscirono a trovare subito un paio di forbici per lacerare il tessuto…). Si racconta che spirasse volgendosi alla moglie ‘non morire, non morire! Chi si prenderebbe cura dei nostri figli?’ (un bel finale di una storia d’amore e non l’inizio di un conflitto che, al suo termine, vedrà quattro imperi nella polvere, nove milioni di soldati morti, cinque milioni di civili).
Dal Così parlò Zarathustra: ‘Su tutte le cose sta il cielo Caso, il cielo Incolpevolezza, il cielo Accidente. Per caso: questa è la più vecchia nobiltà del mondo che io restituii a tutte le cose, liberandole dal giacere in schiavitù sotto il fine. Sopra esse ed in esse non vuole nessuna eterna Volontà; e in luogo di tale Volontà posi la pazzia, quando insegnai: una cosa è per sempre impossibile: la razionalità. L’eterno ragno-ragione e l’eterna ragnatela di ragione, non esistono affatto’(Parte terza, Prima che il sole ascenda). Ecco perché l’idealismo, vecchio e nuovo, guardò con diffidenza a Nietzsche e, accusato di non essere sistematico, lo espulse dal novero dei filosofi. Ed ecco perché (la citazione di Nietzsche è tratta da La filosofia dell’assurdo, 1937) Giovanni Gentile, così disponibile e attento verso le giovani intelligenze del suo tempo (che lo ripagarono facendogli esplodere contro alcuni colpi di una stupida pistola partigiana e, poi, con il successo all’ombra dell’antifascismo) vide quale avversario inconciliabile Giuseppe Rensi tanto che gli venne tolta la cattedra e isolato all’interno dell’oscuro centro bibliografico dell’università di Genova.
‘O il mondo, così com’è, e sempre fu e sarà, o il nulla. O questo mondo, o il nulla’(cap.V, Il significato della storia)… Il caso e l’assurdo e il male si manifestano qui ed ora senza un Dio senza una ragione a porci sotto il suo cappello protettivo e giustificatorio… Beh, senza dio e avendo posto le emozioni svincolate e antecedenti ogni pretesa di razionalità, folle e disperato, ‘faccia al sole e in culo al mondo’, io preferisco comunque e nonostante tutto il nulla…