Riprendiamo il discorso sulle nostre origini da dove l’avevamo lasciato le volte precedenti. Io vi ho parlato di una storia che sembra destinata a diventare una telenovela infinita, quella degli hobbit, i piccoli uomini dell’isola indonesiana di Flores. Come abbiamo già visto, la loro esistenza rappresenta un colpo mortale alla – chiamiamola teoria – dell’Out of Africa, della presunta origine africana della nostra specie, perché essa presuppone che tra 70 e 50.000 anni fa una gigantesca eruzione vulcanica del vulcano Toba nell’isola di Sumatra, anch’essa indonesiana, avrebbe portato all’estinzione tutti gli esseri umani allora viventi, tranne un gruppetto di africani dai quali si suppone tutti noi discenderemmo.
Chiaramente, se a pochi passi dall’epicentro della presunta catastrofe planetaria, i nostri hobbit hanno continuato a vivere indisturbati, “la teoria” crolla miseramente.
Per togliersi dall’imbarazzo, alcuni hanno supposto che gli hobbit fossero umani di origine molto più recente, oltre che nani, affetti dalla sindrome di Down, idea semplicemente ridicola: UN’INTERA POPOLAZIONE di down? E perché non di ciechi o di paraplegici?
La cosa deve essere sembrata grottesca anche a coloro che l’hanno formulata, perché subito dopo è arrivata “la scoperta” che “stando agli ultimi rilevamenti” gli hobbit di Flores sarebbero molto più antichi di quel che finora si era ipotizzato, e sarebbero vissuti intorno ai 300.000 anni fa. Strano, vero? Una simile scoperta capita troppo tempestivamente e troppo “a fagiolo” a togliere i sostenitori dell’Out of Africa dall’imbarazzo, per poter essere persuasiva.
Ora, voi capite senz’altro che se le cose stanno in questi termini, la questione si allarga di parecchio, infatti, se non è più questione di interpretazioni, ma sono gli stessi dati a essere manipolati con disinvoltura, allora l’interrogativo diventa: quanta credibilità si potrà attribuire a tutta la costruzione intellettuale che conosciamo come “scienza”? Non ci sarà più nulla che non dovremo considerare con sospetto!
La cosa peggiore è quando si vede il palese ricorso all’escamotage che consiste nel creare un clima di suggestione che serve a suggerire qualcosa che non è né provato o provabile, né contenuto nelle premesse iniziali, è il tipo di trucco a cui ricorrono i ciarlatani. Questo è il caso dell’Out of Africa (o OOA, come spesso si dice, seguendo l’abitudine americana di siglare tutto, quasi che l’usare espressioni “troppo” lunghe implichi il pericolo di pensare “troppo” profondamente, prassi altamente sconsigliata per le buone pecore del gregge democratico); essa infatti SEMBRA SUGGERIRE che il nero africano sia il tipo ancestrale della nostra specie, che noi stessi non saremmo altro che dei “neri sbiancati”, che tutte le vistose differenze che possiamo riscontrare fra bianchi caucasici e neri subsahariani siano una sorta di abbaglio visivo (e non oso pensare a come le popolazioni mongoliche dovrebbero porsi rispetto a questo schema pazzesco), che le razze non esistono, e tutta la coorte delle fallacie democratiche che l’ortodossia di regime tende a imporre anche con la censura e la repressione.
Ora, non solo tutto ciò non è dimostrato né dimostrabile, ma E’ FALSO!
A parte la questione completamente diversa dell’origine africana degli antichi ominidi di milioni di anni fa (ma anche su di essa, come abbiamo visto altre volte, ci sono delle riserve), non si può escludere, anzi la cosa appare verosimile, che l’Africa settentrionale, sahariana, abbia giocato un ruolo importante nella nostra origine, ma anteriormente alla desertificazione del Sahara avvenuta 15-12.000 anni fa, la regione, il Sahara verde era abitato da una popolazione gromagnoide (simile all’uomo di Cro Magnon), quindi con caratteristiche sostanzialmente caucasiche, mentre il nero subsahariano sembra essere il frutto di una specializzazione relativamente tarda, per di più – pare – originatosi nel plateau arabico, poi migrato nel continente africano attraverso lo stretto di Aden. In epoca storica, questa migrazione era ancora in corso, al punto che popolazioni di ceppo bantu si insediarono nell’Africa del sud dopo l’arrivo degli Europei, i Boeri di origine olandese, che per questo motivo chiamano se stessi “Afrikans”, considerandosi i veri africani autoctoni.
Tuttavia, ciò non toglie un fatto fondamentale, che a fare veramente di noi quello che siamo, non sia stata l’Africa, ma il ben più rigido e selettivo ambiente del nord. Involontariamente, anche la teoria dell’origine africana stabilisce un punto di frattura fra coloro che si avventurarono in aree ricche di incognite e quelli che rimasero nel più accogliente grembo africano dove non c’era la necessità di affrontare temperature rigide o variazioni stagionali che potevano creare penuria di risorse (e quindi sviluppare preveggenza del futuro per poter sopravvivere).
La verità pura e semplice, è che noi non siamo figli dell’Africa ma dell’Eurasia. L’ambiente più rigido ha costretto per poter sopravvivere, a sviluppare una tecnologia più ingegnosa, a costruire ricoveri, a migliorare l’organizzazione sociale, a rendere più attenta la cura della prole. Io penso che in questo processo abbiano giocato un ruolo chiave le variazioni stagionali, la consapevolezza che ai periodi di abbondanza seguono quelli di penuria, e quindi la necessità di accantonare scorte. Ancora oggi, la differenza è molto visibile: il bianco fa progetti per il futuro, il nero vive alla giornata.
Se, come abbiamo visto, tutto l’edificio “scientifico” va considerato con sospetto non solo riguardo alle teorie e alle interpretazioni, ma agli stessi dati, sarà bene guardare con attenzione a cosa c’è sul tavolo, soprattutto a quelle teorie e a quelle ipotesi che “l’ortodossia scientifica” ha messo ai margini non perché non abbiano, prove a loro sostegno, ma perché non conformi al dogmatismo ideologico “ortodosso”.
Un esempio estremamente chiaro in questo senso l’aveva fatto Gianfranco Drioli nel suo bel libro Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta, riferendosi alle ricerche controcorrente di uno studioso indiano, il Tilak, che si è dedicato a uno studio approfondito delle informazioni contenute nei Veda (che a loro volta raccoglierebbero tradizioni antichissime, tramandate oralmente da molto prima dell’invenzione della scrittura).
Ora è chiaro che qui ci si riferisce a un’epoca successiva a quella dell’origine più remota della nostra specie, ma si tratta di un capitolo importante della nostra storia che è stato deliberatamente ignorato, con tutta probabilità proprio perché colloca le nostre radici il quel nord tanto schifato dai santoni della democrazia.
Secondo l’analisi dello studioso indiano, i Veda offrono la testimonianza del ricordo di un’epoca remota in cui gli antenati degli Arii sarebbero migrati verso l’area indo-iranica dal lontano nord che un tempo godeva di un clima mite, favorevole all’insediamento umano, e dove dopo la catastrofe climatica regnerebbero invece dieci mesi d’inverno e due mesi d’estate. L’Avesta iranica attesterebbe una tradizione o un ricordo ancestrale assolutamente analogo. Ora si dà il caso che dieci mesi invernali, di clima rigido e due estivi, sono precisamente la situazione che si riscontra nelle regioni artiche. Questo potrebbe anche non impressionarci più di tanto, ma bisogna osservare che, sempre secondo il Tilak, nei Veda è descritta una serie di fenomeni astronomici che nella maniera in cui sono presentati, avrebbero potuto essere osservati solo al di sopra del circolo polare artico.
Un discorso assolutamente analogo esce dalle ricerche di Felice Vinci. Il testo più noto di questo autore, Omero nel Baltico, ci disegna una avanzata e oggi sconosciuta civiltà nordica preistorica collocabile nell’Età del Bronzo o in tempi antecedenti. Sviluppatasi durante un optimum climatico in cui le terre settentrionali erano di gran lunga più abitabili di oggi, sarebbe stata distrutta dal mutamento delle temperature che, portatesi gradualmente ai livelli attuali, avrebbero costretto le popolazioni dell’area a migrare verso meridione, dando origine agli Europei attuali. Sia le tesi di Tilak sia quelle di Vinci sono ricollegabili al mito della leggendaria terra Iperborea come origine delle popolazioni europee e indo-iraniche, cioè quei popoli che conosciamo nel loro insieme sotto il nome di indoeuropei.
Quella che è forse la tesi più ardita e più cara a Vinci, cioè che i poemi omerici siano basati sul ricordo di epoche così remote, e le loro vicende narrate oralmente per millenni sarebbero poi state trasposte nell’ambiente mediterraneo dove i nomi delle località nordiche abbandonate sarebbero stati esattamente replicati, che è nel Baltico che andrebbero cercate la Troia omerica e l’Itaca di Ulisse, è stata vivacemente contestata da un altro studioso la cui opinione penso si debba tenere nella massima considerazione, Ernesto Roli, già amico e collaboratore, e oggi continuatore dell’opera di Adriano Romualdi, e che, come già lo stesso Romualdi, ritiene piuttosto di collegare la vicenda omerica alla storia degli Ittiti, popolo per cui quest’ultimo aveva una particolare predilezione, in quanto in età antica ha rappresentato una sorta di antemurale indoeuropeo in faccia al mondo mediorientale semitico.
Io al riguardo non me la sento di pronunciarmi in maniera definitiva né per le tesi dell’uno né per quelle dell’altro; ciò invece su cui mi pare sussistano pochi dubbi e su cui entrambi i ricercatori concordano, è la rivalutazione della civiltà antica europea e nordica, respingendo nel limbo delle favole tutte le idee “moderne” e “progressiste” che troviamo snocciolate nei libri di storia, che ci vorrebbero dipingere il nostro continente come arretrato e barbaro, solo gradualmente incivilito da influssi orientali e mediorientali. Ernesto Roli, per dirne una, ha collaborato con Romualdi alla traduzione e alla stesura di quell’ampia e bellissima introduzione, ben meritevole di essere considerata un’opera a sé stante, che accompagna l’edizione italiana di Religiosità indoeuropea di Hanns F. K. Gunther.
In Omero nel Baltico, Felice Vinci riporta un ampio brano dell’insigne archeologo Colin Renfrew:
“Per coloro che non sono esperti, sarà bene ricordare che il radiocarbonio o carbonio 14 è un isotopo radioattivo del carbonio. Esso è presente nell’atmosfera in proporzioni fisse rispetto al carbonio normale. Quando un organismo (animale o vegetale) muore cessano gli scambi gassosi con l’esterno. Mentre il carbonio normale rimane invariato, quello radioattivo decade secondo tempio di dimezzamento costanti e precisi, e costituisce quindi un ottimo “calendario” per datare la materia organica. Ora, confessa Renfrew, le ricerche condotte con esso sconfessano del tutto la tesi della “luce da oriente”:
“Molti di noi erano convinti che le piramidi d’Egitto fossero i più antichi monumenti del mondo costruiti in pietra, e che i primi templi fossero stati innalzati dall’uomo nel Vicino Oriente, nella fertile regione mesopotamica. Si riteneva anche che là, nella culla delle più antiche civiltà, fosse stata inventata la metallurgia e che, successivamente, le tecnologie per la lavorazione del rame e del bronzo, dell’architettura monumentale e di altre ancora, fossero state acquisite dalle popolazioni più arretrate delle aree circostanti, per poi diffondersi a gran parte dell’Europa e del resto del mondo antico (…)
Fu quindi un’enorme sorpresa quando ci si rese conto che tutta questa costruzione era errata. Le tombe a camera megalitiche dell’Europa occidentale sono ora considerate più antiche delle piramidi e sono questi, in effetti, i più antichi monumenti in pietra del mondo, sì che una loro origine nella regione mediterranea orientale è ormai improponibile (…) Sembra, inoltre, che in Inghilterra Stonehenge fosse completata e la ricca età del Bronzo locale fosse ben attestata, prima che in Grecia avesse inizio la civiltà micenea (…) Le nuove datazioni ci rivelano quanto abbiamo sottovalutato questi creativi “barbari” dell’Europa preistorica, i quali in realtà innalzavano monumenti in pietra, fondevano il rame, creavano osservatori solari, e facevano altre cose ingegnose senza alcun aiuto dal Mediterraneo orientale.
Pertanto i collegamenti cronologici tradizionali si spezzano e le innovazioni del Mediterraneo orientale che si supponeva portate in Europa per diffusione, si trovavano ora ad essere presenti in Europa prima che in Oriente. Crolla così l’intero sistema diffusionista e con esso cadono i presupposti che hanno retto per quasi un secolo l’archeologia preistorica.
In particolare, nel soffermarsi sulle conseguenze della datazione al radiocarbonio corretta con la dendrocronologia (cioè la calibrazione con gli anelli annuali degli alberi), il Renfrew afferma che “Si verifica tutta una serie di rovesciamenti allarmanti nelle relazioni cronologiche. Le tombe megalitiche dell’Europa occidentale diventano ora più antiche delle piramidi (…) e, in Inghilterra, la struttura definitiva di Stonehenge, che si riteneva fosse stata ispirata da maestranze micenee, fu completata molto prima dell’inizio della civiltà micenea”.
In sintesi, conclude il professore, “Quell’intero edificio costruito con cura, comincia a crollare, e le linee di base dei principali manuali di storia devono essere cambiate”.
Ora, occorre notare che il testo di Renfrew citato da Vinci, L’Europa della preistoria (Before Civilization, the Radiocarbon Revolution and prehistoric Europe), è del 1973, e da allora di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po’, ma di questa rivoluzione nei manuali di storia e nei libri di testo non abbiamo ancora visto la minima traccia. Il caso è assolutamente analogo a quello delle tavolette di Tartaria, scoperte dall’archeologo Nicolae Vlassa nel sito di Turda in Romania appartenente alla cultura Vinca che sono di almeno un millennio più antiche dei più antichi pittogrammi sumerici conosciuti, e dimostrano in maniera inoppugnabile che l’invenzione della scrittura è avvenuta in Europa e non in Medio Oriente.
Certe informazioni (perché non si tratta di idee, di teorie, ma di fatti documentati) possono circolare fra gli specialisti (ma meno circolano, ovviamente, meglio è), ma non devono assolutamente raggiungere il grosso pubblico a cui si continua ad ammannire la favoletta dell’origine mediorientale della civiltà, fra Egitto e Mesopotamia, oltre a quella dell’origine africana della nostra specie.
Non si sa mai che gli Europei, recuperando la consapevolezza del ruolo centrale dei loro antenati nella civiltà umana, con uno scatto di orgoglio decidessero di riprendere in mano il loro destino, ribellandosi alla morte per sostituzione etnica che è stata decretata per loro.
Una cosa è certa, se noi adesso non parliamo del divenire della specie umana nel suo complesso, ma restringiamo il discorso a quello della sua parte più nobile e creativa, non possiamo disconoscere il fatto che l’homo europeus è appunto figlio dell’Europa, modellato dalle difficoltà, dalle sfide e dalle opportunità che l’ambiente del nostro continente gli ha posto davanti. Non l’Africa né l’Asia ma madre Europa; è di questo continente, del suo ambiente, del suo clima, dei suoi paesaggi che noi siamo figli.
Questo stesso concetto è stato espresso in forma non di una rigorosa analisi scientifica ma poetica da Dominique Venner, uno stupendo brano che ci dimostra che quando si fanno parlare i sentimenti profondi, si possono raggiungere conclusioni altrettanto e più esatte di quelle che ci danno la ragione e la scienza.
Venner, con il suo suicidio come forma estrema di protesta contro l’uccisione dei popoli europei mediante immigrazione, meticciato e sostituzione etnica, per bypassare la censura dei mezzi “d’informazione” sul piano Kalergi, è stato un combattente, un samurai della causa europea, il cui sacrificio va messo sullo stesso piano di quelli di Ian Palach e di Yukio Mishima.
Ascoltiamo dunque con rispetto le sue parole:
“Io sono della terra degli alberi e delle foreste, delle querce e dei cinghiali, delle vigne e dei tetti spioventi, delle epopee e delle fiabe, del Solstizio d’inverno e di San Giovanni d’estate…Il santuario in cui vado a raccogliermi è la foresta profonda e misteriosa delle mie origini. Il mio libro sacro è l’Iliade così come l’Odissea, poemi fondatori e rivelatori dell’anima europea.
Questi poemi attingono alle stesse fonti delle leggende celtiche e germaniche, di cui manifestano in modo superiore la spiritualità implicita. Del resto non tiro affatto una riga sui secoli cristiani. La cattedrale di Chartres fa parte del mio universo allo stesso titolo di Stonehenge o del Partenone. Questa è l’eredità che occorre assumere. La storia degli Europei non è semplice. Essa è scandita di rotture al di là delle quali ci è è dato di ritrovare la nostra memoria le la continuità della nostra Tradizione primordiale”.
NOTA: Nell’illustrazione, il mito di Europa in un affresco pompeiano.
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