Le cronache estive abbondano di notizie enfatizzate ad arte per sopperire alla scarsità di informazioni importanti. Nell’anno di grazia 2016, purtroppo, tra guerre al portone di casa, sbarchi di finti profughi, proteste di cittadini infastiditi non dal loro arrivo, ma dalla vicinanza fisica alle loro abitazioni od ai luoghi di vacanza, crisi bancaria e giochi olimpici con annesse nuotatrici italiane lesbo, le “news” (chiamarle così fa tanto cosmopolita…) abbondano. Ciononostante, nella cronaca che una volta si sarebbe definita bianca, quella, per intenderci, da chiacchiere leggere sotto l’ombrellone, una notizia colpisce e costringe a qualche riflessione. Nell’isola di Formentera, la sorellina minore della vicina Ibiza, e meta turistica quasi altrettanto gettonata, cresce l’ostilità contro i turisti italiani, con liti e scritte sui muri “fuera los italianos”.
Sappiamo tutti per esperienza personale quanto le giovani generazioni europee vivano in maniera totalizzante i periodi di vacanza, di cui parlano per mesi prima e dopo, a cui affidano sogni e desideri, e durante le quali dormono pochissimo o non dormono affatto per giorni e giorni, pur di cogliere tutte le occasioni di un divertimento elevato a scopo della vita. Molti inglesi si distinguono in negativo per l’ubriachezza e per le continue risse, tedeschi e nordici sfogano nell’Europa meridionale le pulsioni represse dalle loro parti e sembrano godere nell’infrangere quelle regole che per tutto l’anno in patria seguono come soldatini.
Gli italiani, sino a pochi anni fa, erano apprezzati, da turisti, per la propensione a spendere con liberalità ed anche perché il loro comportamento, al netto di qualche eccesso o caso isolato, era generalmente migliore rispetto a quello di molti altri. Non è più così: siamo diventati europei anche in questo, evviva! Sarà l’omologazione consumistica, l’ascolto della stessa musica ritmata ed obiettivamente fracassona, sarà che viaggiamo di più, ma gli italiani, ed innanzitutto la generazione Erasmus si distingue in negativo. In particolare, si diffondono due difetti distinti, ma complementari: l’ignoranza e la volgarità.
Nel suo Diario intimo, lo scrittore svizzero Henri Fréderic Amiel scrisse un aforisma di bruciante verità: “Se l’ignoranza e le passioni sono i nemici della moralità nel popolo, bisogna confessare che l’indifferenza morale è la malattia delle classi colte.” Nella realtà italiana contemporanea, rispetto a queste parole, occorre prendere atto che non esistono più classi colte, o aristocratiche, ma solo ricche, e che alla parola cultura si può sostituire la più generica “istruzione”. Molti italiani, infatti, sono istruiti, ed ostentano il titolo di dottore con enfasi ben maggiore di quanta ne avesse un eroe di guerra mostrando le medaglie conquistate sul campo. Eppure, la decadenza italiana è frutto del combinato disposto di volgarità ed ignoranza.
Un’ ignoranza di tipo nuovo, quella che sperimentiamo ogni giorno tra i connazionali; non si tratta più della modesta istruzione, o dell’analfabetismo delle precedenti generazioni, ma di qualcosa di assai peggiore. Innanzitutto esiste l’ignoranza del finto colto, i cui titoli di studio sono stati acquisiti (evito di scrivere conquistati…) in una scuola di mediocre livello, con insegnanti troppo spesso interessati solo agli orari più favorevoli (sabato o lunedì devono essere liberi, perbacco!), alle graduatorie per i trasferimenti, alle infinite riunioni che organizzano per i più disparati motivi, e, all’università con il grottesco sistema dei crediti e l’ossimoro della laurea breve. Si tratta in genere di persone persuase che il pezzo di carta li abbia proiettati di diritto nella classe dirigente, con gli onori relativi – denaro e prestigio sociale- ma senza le responsabilità ed i doveri connessi.
Poi ci sono gli ignoranti “strutturali”, o funzionali, quelli che se ne infischiano di tutto, vivono alla giornata, felici di sé più di sazi bovini d’allevamento, pronti a tutto, perché “si vive una volta sola”, decisi a rivendicare ogni diritto, pretendere di decidere su tutto, quelli che hanno un’opinione precisa su qualunque cosa – inevitabilmente la più diffusa e promossa dal potere- specie su ciò di cui non sanno nulla. Uno di costoro, alla vista dell’immagine sullo schermo del p/c di chi scrive (il grande quadro La scuola di Atene di Raffaello) ha esclamato: quanti bei colori, sembra fatta col computer! Un altro esponente della categoria, analizzata con tanta perfezione dall’opera di Ortega e di cui ha dato la più fulminante definizione Maurizio Blondet, selvaggi con telefonino, tra i tanti tatuaggi che ornano il corpo accuratamente depilato, ne ostenta uno con il nome del suo cane in alfabeto maori, utilissimo in Nuova Zelanda. Madamina, il catalogo è questo.
A Formentera, un piccolo guappo italiota ha sparato un razzo dal suo yacht (il pane a chi non ha denti…) provocando un incendio in una zona protetta di grande pregio, l’isolotto di Espalmador con i fanghi naturali, le dune, il mare dal colore straordinario. Un isolano ha detto, molto opportunamente, che i cretinetti italiani dal baccano facile (e non solo gli italiani) sono inconsapevoli di dove si trovano, ignari della bellezza che sfiorano e calpestano. Un’ignoranza soddisfatta, unita all’indifferenza morale che imitano dalle classi agiate, di cui in vacanza vedono da vicino barche, ville, luoghi di ritrovo, modi di vita.
Gli unici interessi di queste neoplebi consumiste e desideranti (Costanzo Preve) sono la cura maniacale per il corpo, che mostrano con compiaciuto esibizionismo, compresi naturalmente costosi tatuaggi senza significato, o con simbolismi imbarazzanti, il presenzialismo, che spazia dalla spiaggia alla moda come Formentera sino alla sagra delle frittelle, al concerto di massa, alla frequentazione di discoteche, palestre e centri benessere. Arrivano nelle località prescelte con i voli “low cost” muniti di zaini o trolley dalle misure rigorosamente entro i limiti della gratuità del trasporto, dormono quel poco sulle spiagge. Nel caso di Formentera, sembra che le loro principali occupazioni, oltre alle urla scomposte, ai giochi rumorosi in spiaggia, alla musica a tutto decibel e naturalmente a contorsioni ed approcci fisici al limite dell’osceno, sia quello di partecipare ad aperitivi nei locali trendy, esibire le tenute più bizzarre, ridere sguaiatamente.
E’ l’Italia di oggi, ancora di più lo sarà quella di domani, se non prevarrà, tra i “nuovi italiani” immigrati, una dignità ed un decoro che per ora non si vedono. In uno dei suoi articoli più belli, Massimo Fini paragonava due fotografie di folle, scattate nella stessa città, Milano, in circostanze analoghe a decenni di distanza. La foto più antica mostrava uomini e donne modestamente vestiti, ma puliti e ordinati, con atteggiamenti dignitosi e contegno serio. Un popolo, con i suoi pregi e difetti. L’immagine recente dava conto di una massa informe, malvestita, disordinata, stazzonata e sbracata negli abiti come nei gesti. Un paragone che non lascia dubbi, eppure quelle persone degli anni Sessanta avevano modesta istruzione, pochi diplomi ed ancor meno lauree. Numerosi erano certamente gli operai ed i contadini ritratti, ma l’immagine che se ne ricavava era di un popolo pulito, dentro e fuori, vitale ma controllato, dignitoso senza ostentazione di orgoglio.
Il quadro odierno, aggravato dalla stagione estiva in cui si allentano gli ultimi freni e cadono le residue barriere della buona educazione, ci mostra plebi scarmigliate coperte di stracci firmati (la moda impone pantaloni strappati), non di rado seminude anche lontano dalle spiagge – si sprecano gli ombelichi al vento con perline, anelli o disegni – arroganti e inutilmente rumorose, che non si siedono ma si stravaccano, che non cedono il passo, si muovono in branco e sembrano vivere in una dimensione di noncuranza per tutto e tutti. Se si recano nei locali o nelle discoteche, mostrano le acconciature più bizzarre, indossano gli abiti più strani o azzardati, l’atteggiamento da gran donne navigate e un po’ sgualdrine, o, per gli uomini, quello dei tamarri vestiti a festa e gran conquistatori. Tutti ostentano l’ultimo modello di i-phone, per cui sono stati disposti a code interminabili, e smanettano accanitamente sui tasti del display.
Michelangelo Antonioni fece la sua fortuna artistica sul tema dell’incomunicabilità, ma tutti costoro, che cosa hanno di così urgente o definitivo da comunicare al mondo via sms o mms? In genere l’ultimo autoscatto o selfie, realizzato dovunque ed in qualsiasi situazione o postura, con l’aiuto dell’apposita bacchetta-prolunga venduta dagli ambulanti di colore, da commentare accanitamente, massimo 140 caratteri su Twitter, e consegnare all’eternità attraverso le reti sociali, come Facebook o Instagram.
La volgarità è in quello che fanno e come lo fanno, nella condotta quanto nell’atteggiamento, nel linguaggio fatto di parolacce a raffica e poche parole multiuso, nel disprezzo evidente di tutto e nell’indifferenza stolida, ignara della bellezza e della complessità. Paiono a loro agio solo nei non luoghi: aeroporti, supermercati, locali di divertimento: quelli sono tutti uguali, Milano, Ibiza, Vladivostok, che meraviglia il mondo globale a taglia unica!
Arrivano le ferie, e se scelgono Ibiza o Formentera, giro dei locali notturni con sballo, consumo compulsivo di alcolici o droghe- bisogna pur tenersi svegli per la settimana low cost, spiaggia al pomeriggio, e, sempre, urla, maleducazione, fastidiose risate di gruppo che forse Freud attribuirebbe ad una forma di isterismo mimetico, poi gelato ed aperitivo alla moda, ci si cambia, e via, verso nuove avventure, nuove precarie conoscenze, esperienze sempre più estreme. Lo cantava Vasco, Voglio una vita spericolata, una vita come Steve Mc Queen, una vita che non si dorme mai. Ogni epoca ha i suoi maestri.
Quel che c’è attorno, non interessa nessuno, i colori dei tramonti mediterranei come le meraviglie della natura o le opere d’arte, solo i parallelepipedi delle discoteche, le luci psichedeliche, il ritmo scandito dai disc jockey, al massimo le colorate elaborazioni dei creatori di cocktails e la fantasia dei gelatai. Dinanzi alle Tre Cime di Lavaredo, dal lato di San Candido, spettacolo della natura che commuove ed ispira pensieri profondi, stupore e meraviglia, un chiassoso gruppo disceso dal torpedone turistico compì, in successione, due gesti: il primo fu scattare compulsivamente foto con il cellulare, il secondo posizionare in gran fretta figli, amici o parenti di fronte alle straordinarie montagne dolomitiche. La comitiva risalì frettolosamente sul bus ad un cenno della guida, ma tutti potevano dimostrare, foto alla mano, di essere stati proprio lì, davanti ad un maestoso monumento del creato.
La volgarità è quella: non guardare, non voler capire, non avere alcun interesse duraturo, passare oltre rapidamente, trascurare tutto ciò che non interessa, anzi non intriga in quell’istante. Altrettanto volgare è imporre la propria presenza con schiamazzi o urla, esattamente come ostentare il corpo o la bizzarria del vestiario.
Quanto ai tatuaggi, rappresentano assai bene la regressione della specie. Arte antichissima e non di rado pregevole, nelle civiltà a noi più vicine è stata utilizzata quasi sempre da categorie o gruppi sociali marginali, o stigmatizzati, come carcerati o marinai. Generalmente, l’iconografia aveva un simbolismo preciso e riconoscibile. Oggi, indipendentemente dall’indubbio talento di certi professionisti, si tratta per lo più di arabeschi astratti, oppure, ed è persino peggio, di qualsiasi disegno che accontenti manie, ghiribizzi o preferenze improvvise dei committenti: ecco allora coloratissime ciliegie dietro le orecchie, stemmi di squadre di calcio, nomi di fidanzati/e, disegni di animali, adesso anche frasi da Baci Perugina, da sottocultura di gruppo o da suburra. Di frequente, la presenza di tatuaggi si accompagna ad anelli al naso, orecchini e piercing. Primitivismo puro, ritorno allo stadio tribale, e non si parli dell’inesistente buon selvaggio di Rousseau.
Può, una generazione siffatta, comportarsi civilmente a Formentera o altrove? E comunque, chi si sarebbe incaricato, negli ultimi decenni, di insegnare qualcosa, o, orrore massimo, trasmettere buona educazione? Il problema più complicato è far comprendere la negatività di molte condotte: si viene derisi, nel caso migliore non ascoltati, più spesso tacciati di essere prigionieri del passato, e, massimo del ridicolo, di essere conformisti. Neppure li sfiora l’evidenza che i conformisti sono loro, gli urlatori tatuati pieni di alcool, arroganti e triviali. Becerume. La presente è una generazione becera, inconsapevole, vittima di quella precedente, vissuta nella dogmatica della libertà senza limiti (libertà “da” qualunque cosa) che, a furia di aborrire i divieti, ha proibito il pensiero libero, la decenza, il decoro, il rispetto per sé e per il prossimo, spacciato e scambiato per anticaglia borghese. Non sanno che proprio la gente semplice era quella che più teneva ad indossare l’abito ben tenuto, il cappello perfettamente calzato, ad essere pettinati e sbarbati: magari solo per imitazione, ma era così.
Torniamo quindi agli esempi, alle responsabilità drammatiche, davvero storiche delle classi dirigenti. Pensiamo a Lapo Elkann, colto strafatto tra le braccia di un transessuale, a cantanti ed attori che cambiano amanti come una ballerina i costumi di scena, a politici ladri e mentitori, alle trasmissioni televisive costruite sulle risse o le liti più grossolane, i modelli della velina e del tronista, o, al contrario del sedicente manager o finanziere in giacca e cravatta pacchiana per imbrogliare i gonzi, le cantanti truccate e pressoché travestite (Madonna docet), i docenti (ai paroloni ci tengono) che si fanno dare del tu, si vestono come i muratori al cantiere o le donne delle pulizie al lavoro, dall’aria infastidita, sovente sboccati.
Padri e madri, poi, quando ci sono, non vieterebbero ai rampolli neppure i baccanali o le fughe scolastiche, pagano senza fiatare tutti i capricci, con la scusa che tanto i soldi se li procurerebbero in modo peggiore o che loro, in giovinezza, non hanno potuto fare le stesse cose. Inutile attardarsi in analisi sociologiche sofisticate: questa è la terza generazione perduta, e non ce lo lasceremo dire dagli isolani di Formentera, i cui connazionali non sono migliori, tra bevute giovanili di massa (il “botellòn), il vandalismo di strada e la vasta adesione a movimenti che fanno dell’odio campanilistico una bandiera.
Dall’Italia meridionale si è diffuso ovunque l’epiteto di cafone, riferito a chi ha modi rozzi e comportamenti volgari. Ma i cafoni altro non erano che i contadini poveri, i dannati di un lavoro durissimo, ingrato e privo di reddito. Il termine derivò probabilmente dall’abitudine di molti contadini di recarsi alla fiere con una fune arrotolata alla vita (c’a fune), per portar via il bestiame. Ignazio Silone, lo scrittore di Fontamara, utilizzò molto quella parola, con affetto, riferita ai suoi amati contadini abruzzesi, illuso che nel futuro il termine avrebbe assunto una valenza positiva. No, si è solo trasferito a qualcuno che con la terra, faticosa e bassa, non ha niente a che fare, ma vive in uno vuoto spirituale ben peggiore di quei poveri braccianti analfabeti.
Quest’ampia generazione di beceri analfabeti funzionali potrebbe, ma non vuole. Ciò che vuole è rotolarsi tra ferie, acquisti compulsivi, tanto c’è il babbo, o, per chi ha un’età adulta, l’American Express o il credito al consumo, esperienze sempre nuove, ogni volta un po’ oltre, perché l’asticella, come nel salto alle Olimpiadi, va posta sempre più in alto, affinché ci sia il brivido, l’emozione, l’adrenalina.
Chiamiamoli cafoni, se proprio non ci sono altri vocaboli nella nostra lingua, impoverita proprio dalle semplificazioni da messaggini, dalle sigle e dalla pigrizia. Ma nel nostro caso cafone è parola del politicamente corretto: plebe è più netto e più vero. Come gli altri europei e più di loro – in qualcosa sappiamo ancora primeggiare – non siamo più un popolo e nemmeno una tribù, che ha comunque regole, capi e principi. Solo una plebe senza un volto ed un cuore, uomini a d una dimensione, come li descrisse Marcuse, uno dei peggiori responsabili dell’involuzione, aizzata da tribuni che non si chiamano più Tiberio e Caio Gracco, ma, per una paradossale inversione dei ruoli, sono i super potenti e super ricchi.
Quelli che controllano i nostri consumi, le nostre preferenze, i gusti, persino la forma dei nostri corpi, quelli che sanno dove ci troviamo e perché. Forse non meritiamo neppure il nome di plebe. Siamo ormai un gregge, indisciplinato solo in apparenza, ma in realtà fatto e vissuto come ci vuole il pastore: gli serviamo ignoranti, beceri, urlanti e sparsi. Era più difficile condurre al macello i cafoni di una volta, gente che sotto l’abito rozzo ed i modi spicci conservava l’anima.
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