L’agricoltura interiore della poliedricità dell’anima
come semenza e germoglio,
embrione e fermento della foresta urbana,
umido ecosistema simbiotico della collettività umana,
rigonfio della propria millenaria opera tradizionale,
è soppiantata dalla coltivazione intensiva di piante infestanti,
superficiali ortiche radicate di banalità,
sterili di cultura, senza frutto; senza seme e terra fertile.
Svuotate dalle profonde radici che si nutrono di sapienza, intuizione,
stimolante ricerca dell’acqua Regia,
attingono dal palustre apparire,
il bello svuotato dal fascino della saggezza,
stagno maleodorante di pochezza,
immondizia intellettuale omogenea,
spalmata su sette miliardi cubici di entità senzienti.
Quando il Petrarca ci suggerisce l’allegoria dell’ape e del miele
“le opere del passato sono come i fiori da cui le api traggono il nettare per fare il miele”
noi lo dissacriamo deificando il fascino del moderno,
non più veicolo dell’uomo e per l’uomo,
ma protagonista nell’altare del quotidiano,
plastificazione e ibernazione del genio creativo più intimo.
E vilipendiamo il Dante, nel suo convivio, che ci suggeriva di unirci alla sua mensa, dove il pan delli angeli si manuca; auspicio del poeta per una migliore umanità, sazia, dove quel pan dell’angeli sono le squisite pietanze culturali e spirituali del nostro bagaglio ancestrale.
La tavola dello Splendor Solis che allego a questo rigo, con quel suo sole bruciante e severo sulla città, è un invito al destarsi dal sonno plumbeo, la dormienza delle genti naufraghe nella corrente volgare delle distrazioni, rappresentate dal grigio teatro boschivo nel basso della tavola, una foresta mutilata, dai rami spezzati, privata dalla sua forza solare vivificante.
Alessandro Caredda ©® Copyright 2016 All rights reserved, tutti i diritti riservati.