17 Luglio 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, trentacinquesima parte – Fabio Calabrese

Riprendiamo il nostro periodico appuntamento con la tematica delle origini e l’eredità degli antenati. Nei nostri ambienti le questioni relative a esse sono sempre molto vive e suscitano interesse, né vi è motivo di stupirsene. L’idea che ci facciamo delle nostre origini, del lungo percorso che, nel bene e nel male, ha portato a noi quali oggi siamo, è una parte integrante ed essenziale dell’idea che abbiamo di noi stessi.

Forse la novità più interessante della seconda metà del 2016 è quella che si deve al nostro valido collaboratore nonché carissimo amico Michele Ruzzai che ha creato un gruppo facebook, “MANvantara” dedicato appunto a queste tematiche, riguardo alle quali lui stesso ha illustrato il proprio punto di vista in svariati articoli sulle pagine di “Ereticamente”.

Tutto sommato, non credo che questa iniziativa si ponga in concorrenza con questa mia serie di articoli che ambirei a considerare ormai una vera e propria rubrica: sono due strumenti diversi, un gruppo facebook ha probabilmente minore visibilità rispetto a “Ereticamente”, ma ha il vantaggio di poter raccogliere contributi di diversi collaboratori (e naturalmente il sottoscritto già ora non ha resistito e certamente non resisterà in futuro, alla tentazione di metterci lo zampino).

Ora, io vorrei evitare di presentare qui una sintesi dei molti e interessanti articoli che sono già apparsi su questo gruppo, anche perché semmai toccherebbe a Michele farlo, in modo da garantire al suo lavoro la maggiore visibilità possibile, tuttavia c’è almeno un pezzo che proprio non posso non menzionare: un articolo pubblicato in data 21 agosto a firma di SelvanFauno Rudel, La teoria dell’Out of Atlantis. La cosa singolare, è che l’autore riprende un brano da un sito ufologico (ufoforum.it), ma si sa, ci dobbiamo accontentare, con i siti, le riviste, i testi “ufficiali” e “seri”, occupati dall’ortodossia democratica intenta a propagandare in suo mistificante dogmatismo…

L’autore fa notare che tenendo presenti gli spunti interessanti contenuti in quest’ultimo articolo e scartando le evidenti fantasticherie appartenenti a un repertorio ormai consolidato a base di UFO e di Annunaki, nondimeno ne esce una teoria molto interessante, basata sulla constatazione che la diffusione e le linee di irradiazione del DNA sia paterno (aplogruppi del cromosoma Y) sia materni (DNA mitocondriale) suggeriscono un centro di irradiazione posto NON nell’Africa ma nel centro dell’Atlantico.

Il mito platonico di Atlantide potrebbe allora avere una base storica più solida di quella a cui abbiamo sinora pensato, e qui, nell’antica grande isola scomparsa andrebbero forse ricercate le nostre remote origini, non “Out of Africa” ma “Out of Atlantis”!

Delle altre cose presenti in questo gruppo facebook non vorrei dirvi nulla, non vorrei togliere a Michele l’onere e soprattutto l’onore di illustrarvele, sappiate però che si tratta di un vero piccolo scrigno di tesori.

La questione delle origini, lo abbiamo visto diverse volte, può essere suddivisa in diverse sotto-questioni a seconda di come ci si sposti sulla scala del tempo: l’origine della specie umana, quella delle popolazioni caucasiche (che un tempo si osavano chiamare nel loro insieme “razza bianca”), dei popoli e delle culture indoeuropee, della civiltà del nostro continente, per arrivare magari a concentraci sull’origine degli abitanti di quella peculiare penisola posta al centro del Mediterraneo che lo taglia quasi trasversalmente da nord a sud e che (chissà perché?) a noi interessano in maniera particolare.

Se non ci si addentra in una trattazione sistematica ma si esaminano i diversi contenuti su questo vasto parco di tematiche semplicemente in ordine cronologico così come sono apparsi sul web come faremo ora, ne esce un’esposizione un po’ a macchia di leopardo, ma questo è inevitabile, perché in fondo ormai non si tratta altro che di aggiungere nuovi tasselli a un quadro che ci è ben chiaro nelle sue linee generali.

Parliamo di un altro amico i cui post hanno dato dei contributi fondamentali che mi hanno permesso di stilare i miei articoli finora apparsi su “Ereticamente” o altrove: Luigi Leonini. Il 15 agosto, Luigi, che è un infaticabile ricercatore di tutto ciò che può riguardare la nostra Weltanschauung, quasi una Wikipedia dell’ “Area”, ha postato un brano che è un estratto del libro di Nicholas Wade Una scomoda eredità, La storia umana tra razze e genetica pubblicato da “Le scienze” nel 2015.

L’estratto riportato da Luigi riguarda la “teoria” di Richard Lewontin che avrebbe “dimostrato” l’inesistenza delle razze basandosi sul fatto che in tutta la specie umana si trovano più o meno gli stessi geni.

Wade riporta il fatto che questa “teoria” è stata messa alla prova da Noah Rosenberg della University of Southern California e da Marcus Feldman con una ricerca sul patrimonio genetico di oltre mille individui provenienti da ogni parte del mondo. Se è vero che in tutti si ritrovano più o meno gli stessi geni, a seconda delle popolazioni e delle aree continentali di origine, variano in maniera considerevole le frequenze relative e le correlazioni fra essi che tendono a raggrupparsi in “costellazioni” ben definite. In altre parole la ricerca genetica ha dimostrato non l’inesistenza ma L’ESISTENZA delle razze, anche se il mistificante dogmatismo democratico cerca di persuaderci del contrario.

Non dimentichiamo nemmeno il fatto che la “teoria” (anche se chiamarla così è un’autentica presa in giro) di Lewontin, per quanto assurda, scorretta e non supportata da ulteriori studi, è stata assunta come “dottrina ufficiale” dalle Nazioni Unite.

Abbiamo UN DOGMA che il buon democratico è tenuto a credere a dispetto dell’evidenza, sia scientifica, sia fisica e percettiva (perché in ultima analisi le differenze razziali sono facili da riconoscere a colpo d’occhio). Un dogmatismo dello stesso tipo di quello che l’inquisizione imponeva con la violenza nel XVII secolo. Le concezioni che cercano di imporsi in questo modo, rifiutando il confronto delle idee, sono quelle di cui i loro stessi portatori riconoscono in ultima analisi l’intrinseca debolezza, sono cioè concezioni FALSE, e il complesso di “idee” (di suggestioni) democratiche-antirazziste-progressiste-sinistrorse, lo è.

C’è poi la circostanza davvero bizzarra che Richard Lewontin, così come Claude Levi Strauss e molti altri esaltatori di tutto ciò che non è europeo, appartiene a un gruppo etnico-religioso (chiamiamolo così) che mentre predica l’inesistenza delle razze e – per tutti gli altri – la bontà del meticciato, al proprio interno pratica la più rigorosa, esclusiva e RAZZISTA endogamia.

Il 20 agosto il sito Keltic World ha riportato la notizia ripresa dall’inglese Daily Mail che nella zona di Karaganda nel Kazakistan un team di archeologi guidato da Igor Kukushkin e Viktor Nohozenov ha trovato i resti di una piramide simile a quella a gradoni egiziana di Saqqara fatta costruire dal faraone Djoser, ma di almeno mille anni più antica, e che in effetti sarebbe la più antica piramide conosciuta al mondo.

Il Kazakistan, lo ricordiamo, è una repubblica ex sovietica che si trova a cavallo fra la Russia meridionale e l’Asia. Questa collocazione geografica della “nuova” piramide, a tutti gli effetti, rende sempre più inverosimile l’idea che la civiltà umana si sarebbe originata in Medio Oriente.

Nell’immagine che correda questo articolo, vediamo appunto i resti della piramide di Karaganda confrontati con la piramide egizia a gradoni di Saqqara.

Diciamo però che se altri studi condotti su altre piramidi fossero confermati, quella di Karaganda perderebbe molto presto il suo primato, parliamo infatti delle piramidi di Visoko in Bosnia Erzegovina, dove il ricercatore Semir Osmanagic è arrivato ormai all’ottavo anno della campagna di scavi. Su “Il navigatore curioso” è apparso con sorprendente contemporaneità a quello del Daily Mail che riferisce della piramide kazaka, un articolo che illustra gli esiti delle ultime ricerche intorno a Visoko.

In questo caso non si tratta di costruzioni come quelle egizie, ma di colline di origine naturale artificialmente rimodellate, tuttavia studi e analisi compiuti da quattro studi di ricerca indipendenti hanno confermato la loro origine parzialmente artificiale, non solo ma esse sarebbero ancora più antiche di quel che si pensasse, risalendo a ben 20.000 anni or sono.

Quanto meno, l’origine mediorientale della civiltà è una leggenda che diventa sempre più inverosimile, anche se è improbabile che qualcosa di tutto ciò filtri sui media, né tanto meno arrivi sui testi scolastici.

Io non so tuttavia se vi è chiaro quello che significa tutto ciò, se questi dati fossero confermati, non se ne andrebbe in pezzi soltanto il dogma dell’origine mediorientale della civiltà ma l’intero impianto del pensiero progressista: esso ammette per la civiltà umana un’età massima di 5000 anni: ora questa estensione temporale potrebbe essere quadruplicata. Questo significa che interi cicli di civiltà possono essere sorti e poi svaniti nel nulla, e niente e nessuno garantisce che lo stesso destino non possa toccare anche a noi e a tutte le realizzazioni di cui gli uomini della modernità vanno così tanto fieri.

Un’altra delle favole, di quelle favole a cui davvero si farebbe un onore immeritato chiamandole miti, su cui si regge la mentalità democratica-progressista-di sinistra sta cadendo miseramente a pezzi, anche se in realtà a suo sostegno non ha mai avuto il minimo elemento concreto ma solo la volontà di credervi di illuministi e “compagni”, quella del buon selvaggio cara a Rousseau.

Il 17 agosto è apparsa su “Il giornale” la recensione a firma di Camillo Langone del libro Incontri con i selvaggi di Jean Talon. In quest’ultimo l’autore (che a dispetto del nome era italiano, e per la precisione bolognese) fa un excursus storico che non ha la pretesa di essere un testo politico, degli incontri con le popolazioni selvagge ed extraeuropee degli europei dalla scoperta dell’America fino al XIX secolo. Quello che si può dire, è che il quadro che ne esce per chi voglia credere alla  bontà di queste popolazioni extraeuropee, è sinceramente sconfortante: lo schiavismo, ad esempio era larghissimamente praticato in Africa, assai prima che gli Europei si inserissero nel mercato degli schiavi per reperire manodopera per le piantagioni di cotone. Era praticato anche dagli indiani del Nord America che trattavano i prigionieri come bestie da soma (vi ricordate Un uomo chiamato cavallo?). In Mesoamerica i sacrifici umani andavano per la maggiore, e il cannibalismo non era diffuso solo in Africa ma anche nel Pacifico (come sperimentò a sue spese James Cook finendo nelle pance dei suoi prediletti hawaiani), nelle Americhe (è da Caribe che viene il termine “cannibale”), e gli indigeni della Terra del Fuoco all’inizio della brutta stagione usavano macellare le donne anziane, come ci ha testimoniato Darwin ma non solo lui.

Da dove nasce quest’idea, questa farneticazione del buon selvaggio, visto che passeggiando sulle sponde del lago di Ginevra Jean Jacques Rousseau non avrà avuto modo di incontrarne nemmeno uno? È semplicemente il contraltare dell’idea della civiltà come corruzione, come allontanamento sempre più marcato da una condizione di innocenza originaria mai esistita. Con il che, Rousseau ha dimostrato di possedere in sommo grado una delle qualità più importanti di un rivoluzionario di sinistra, quella di crearsi nella sua testa un mondo di pura fantasia, e poi volerlo imporre alla realtà a tutti i costi e con ogni mezzo.

Si potrebbe anche pensare che una visione così cupa della società e della storia sia in contraddizione con la mentalità progressista, ma in realtà non è così: “FINORA la storia delle società umane non è stata altro che perversione e corruzione, ma ADESSO arriviamo noi che metteremo ogni cosa a posto con le spicce – cioè con la violenza – e dopo ci sarà il paradiso in terra”.

Le tragedie e gli orrori del giacobinismo e del comunismo nascono tutti da qui, e Marx è, come ho già spiegato altre volte, molto più debitore a Rousseau di quanto di solito non si pensi.

Come ci spiega Langone, Rousseau è ancora una presenza forte nel DNA della sinistra con le sue idee totalmente infondate, e ricorda che ad esempio quelli del Movimento Cinque Stelle hanno chiamato Rousseau la loro piattaforma multimediale, non sarà quindi poco importante dimostrarne tutta l’infondatezza.

Se mai c’è stato qualcuno che ha mai avuto una comprensione profonda dei fenomeni della civiltà e della non civiltà, questi è stato certamente Oswald Spengler, il pensatore che ha teorizzato Il tramonto dell’Occidente. Ora, nemmeno a farlo apposta per legarsi con tutto il discorso precedente, in data 21 agosto il nostro infaticabile Luigi Leonini ha riproposto un articolo già apparso nel 2010 su “Fiamma futura”, Alcuni spunti e riflessioni per una rilettura di Oswald Spengler, di Alfonso De Filippi con una breve introduzione di Luca Cancelliere.

L’autore tedesco, lo sappiamo, è stato un deciso contestatore dell’idea che esista una cosa come il progresso o lo sviluppo complessivo dell’umanità: ogni civiltà si origina, si sviluppa o declina secondo ritmi che le sono propri e poco comunicanti con le altre, inoltre ciascuna di esse è destinata al declino dopo un periodo più o meno lungo di grandezza, secondo ritmi che ricordano su di una scala enormemente amplificata, quelli della senescenza biologica, e in questa prospettiva la stessa idea progressista non è che una risibile utopia.

Ora, il punto su cui De Filippi concentra la sua analisi, è proprio la riflessione di Spengler secondo la quale in epoche precedenti a quella attuale vi è stata nel nostro mondo la presenza contemporanea di civiltà in ascesa e altre in fase di decadenza, mentre oggi, con l’avvento della modernità questo non succede più, ma tutti i popoli del pianeta sono diventati tributari della cultura cosiddetta occidentale, e questo blocca in partenza la possibilità di un loro sviluppo autonomo, così che tutti quanti partecipano in varia misura del Tramonto dell’Occidente.

Se ci pensiamo, da questo punto di vista Spengler è stato davvero un profeta: alla sua epoca era ben lontana dal manifestarsi la globalizzazione come la conosciamo oggi, ossia la completa interrelazione economica, politica, culturale tra le varie aree del pianeta, sì che la decadenza occidentale coinvolge tutto e tutti.

Per un altro verso, è evidente che la decadenza, la perdita di creatività e di vitalità di una cultura, come ben vediamo negli Stati Uniti oggi, è strettamente connessa dal punto di vista demografico alla diminuzione della proporzione di sangue bianco, alla rarefazione di quella che è la frazione dell’umanità più intelligente e creativa.

E’ un destino che i circoncisi che governano dietro le quinte da settant’anni sull’una e l’altra sponda dell’Atlantico, hanno voluto estendere anche a noi imponendoci forzatamente l’immigrazione. E’ un destino che, se vogliamo avere un futuro, dobbiamo contrastare a ogni costo e con ogni mezzo.

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