Quando nella storia umana ci si trova in periodi di rapidi cambiamenti, di distruzioni, di trapassi e di crisi profonda, nasce prepotente quello che Hegel chiamava “il bisogno di filosofia”, poiché solo il pensiero filosofico riesce a leggere il proprio tempo: esso, infatti, non si accontenta di raccontare le illusioni, ma cerca di trovare la verità che appare nella sua essenza. Un’essenza che è il riflesso di ciò che accade nella sua interezza universale, in cui tutti gli aspetti particolari vengono sussunti, cioè riportati ad una unità sistematica. Il pensiero che riesce a cogliere l’intiero si chiama speculativo, ed è un pensiero col quale vengono superati tutti i dualismi, in quanto è in grado di vedere l’intimo legame tra gli opposti discordanti e la loro relazione con-causale. Solo il tal modo si può “leggere” il proprio tempo.
Tuttavia, oggi, proprio nel momento in cui c’è il massimo bisogno di filosofia e di comprensione della verità del presente storico, si può accertare che il sapere filosofico è quasi del tutto assente, tranne in alcune nicchie della società occidentale, in quanto esso è stato ridotto a pura critica e supporto dei fondamenti del sapere scientifico, a cui è di fatto sottomesso come epistemologia. La metafisica è scomparsa: negli ambienti universitari essa è considerata come un “flatus vocis”, un insensato gioco di parole. E poiché essa è comunque la filosofia prima, la filosofia dell’Essere, risulta chiaro che essa è stata del tutto accantonata dal suo ruolo di costituire il sapere rivelativo dell’Essere stesso, ossia il sapere che cerca di spiegare il rapporto di coappartenenza con l’esserci umano.
Un tempo le società storiche erano basate sui grandi testi filosofici, che in taluni casi avevano anche un rilievo religioso: la “Repubblica” di Platone, la “Politica” di Aristotele, il “Tao-te-ching” di Lao-tzu, “I saggi” di Confucio, le “Upanishad vediche” e così via. Le classi aristocratiche si formavano su questi testi. E’ sconcertante notare che nel nostro tempo non c’è nessun riferimento culturale da parte di coloro che amministrano il potere, in quanto esso è ormai inteso come Tecnica, come Gestell fine a se stesso, svincolato da ogni sapere sapienziale. Forse l’unico libro oggi fatto proprio (ma abbiamo molti dubbi anche su questo) dalle classi dominanti è “La società aperta e i suoi nemici” di Popper, che però di contenuti filosofici ne esprime ben pochi, poiché si tratta solo di una critica ideologica precostituita contro filosofi come Eraclito, Platone, Hegel e Marx.
Comunque, a prescindere da questa premessa, il tema di questa nostra riflessione verte su una precisa domanda. Ossia, come è potuto accadere che la filosofia sia scomparsa quasi del tutto come sapere guida delle società umane che nel passato la consideravano come riferimento basilare? E perciò come si è concettualmente realizzata la distruzione del pensiero metafisico?
Rispondere a questa domanda è praticamente impossibile in un breve saggio. Si cercherà allora di focalizzare l’attenzione prendendo in esame un tema filosofico ben preciso, ossia il tema riguardante la critica che, in varie epoche, ma soprattutto in epoca moderna, si è attuata contro il principio di causa. Esso è il principio di ragione più potente che la nostra mente usa per comprendere i fatti che ci circondano e che perciò costituisce la base di ogni costruzione filosofico-sistematica concernente il divenire della stessa storia umana. La distruzione del valore ontologico-razionale del principio di causa implica perciò la distruzione di ogni possibile metafisica e invero di ogni sistema.
Vediamone perciò i contenuti che gli sono propri. Tradizionalmente in tale principio (a ogni causa corrisponde un effetto e viceversa) si possono constatare due aspetti principali, ossia: a) la successione temporale, in quanto la causa viene prima dell’effetto, che è perciò il poi; b) la necessità, perché ad ogni precisa e determinata causa corrisponde un preciso e determinato effetto. Tale principio fu individuato per primo da Anassagora (la causa finale) e poi da Democrito (la causa efficiente), sebbene la sua formulazione complessiva fu stabilita da Aristotele, il quale individuò 4 principali cause: materiale, formale, efficiente e finale. Famoso è l’esempio dello scultore e della statua, in cui si chiarisce che il marmo è causa materiale, la configurazione della statua la causa formale, lo scultore la causa efficiente e il perseguimento della fama da parte dello scultore la causa finale. Perciò si può facilmente capire che, partendo da queste definizioni generali, il principio di causa è un principio di relazione fra eventi, come ad esempio quando si dice che la pioggia è causata dall’umidità, l’umidità dall’evaporazione dell’acqua, l’evaporazione dal calore, e così via. Ora la successione temporale è evidente, e così dovrebbe essere anche la necessità necessitata (ossia l’effetto è per forza causato da una precisa causa). La necessità necessitata implica sempre che un effetto è causato da altro, cioè da una determinata causa, e ciò comporta in sé tre aspetti costitutivi: la previsione, la reversibilità e il determinismo assoluti.
Tuttavia già nel mondo antico il determinismo causalistico, applicato nella descrizione la necessità necessitata degli eventi fattuali, fu messo in discussione per primo dallo scettico Sesto Empirico. Costui affermava che se la causa produce l’effetto, essa, in quanto causa, dovrebbe per forza precedere l’effetto e sussistere prima di esso. Ma se sussiste prima di produrre l’effetto, essa è causa prima di essere causa. Inoltre, come causa essa non può seguire l’effetto, nè essere simultanea con esso, perché un effetto deve nascere obbligatoriamente da una causa e quindi venire dopo. Una critica per niente risibile, a cui solo Hegel seppe rispondere.
In epoca medievale Guglielmo d’Ockham escluse che gli eventi naturali divenissero in virtù di una legge finale voluta da Dio: il fuoco si accende se qualcosa lo fa accendere, non certo per un fine nascosto teleologico. Lo stesso Spinoza riconobbe la validità di queste argomentazioni: le montagne si innalzano per motivi meccanici senza alcuna finalità intrinseca. Tuttavia tale critica riguardava solo la causa finale, non il principio di causa in sé. Il primo grande e complesso attacco condotto a tale principio fu senz’altro opera dello scozzese David Hume.
Per costui le percezioni sensibili (perceptions) sono alla base di tutte le nostre conoscenze, tra cui gli stessi oggetti esterni. Tali percezioni sono di due specie: impressioni e idee. Le prime sono emozioni, passioni e sensazioni, le seconde solo immagini illanguidite, indebolite, delle prime. Non esistono idee generali o universali (es.: essere, umanità, Dio, nulla, ecc.) ma solo idee particolari legate alle impressioni. La “filosofia” di Hume è pertanto da considerarsi puramente empirica e scettica, in quanto nessuna verità stabile è possibile, perché le percezioni sono sempre soggette al mutamento. La ripetizione frequente delle impressioni fa sì che la nostra mente si abitui a osservare un presunto legame fra di esse. Dall’abitudine scaturisce una facoltà di stabilire relazioni fra impressioni e idee, ossia l’immaginazione da cui nasce una forza che Hume chiama “gentle force”, una forza gentile che è capace di unire le singole impressioni fra loro, alla stregua della forza gravitazionale. Questa forza si chiama capacità di associazione, la quale agisce secondo tre criteri principali: la somiglianza, la contiguità spazio-temporale e la causalità. Su come si “formi” questa forza gentile Hume non dice, se non che essa nasce dall’abitudine empirica. Egli ritiene che le percezioni immediate si riferiscano solo a un contenuto relazionato alla contiguità del tempo e dello spazio, che fra l’altro non sono intuizioni pure, universali e necessarie come dirà Kant, ma semplici maniere del sentire soggettivo. Noi percepiamo singoli fenomeni, singole sensazioni, percepiamo questo e così, o in altro modo. Possiamo inoltre percepire la stessa determinazione varie volte, ma essa non ci darà mai l’universale. Tutto ciò che si conosce è sempre l’individuale, poiché le percezioni non ci danno mai l’universalità. Le idee astratte non esistono, ma sono solo convenzioni insensate (cioè prive di conoscenza sensibile). In base a ciò Hume riteneva che la connessione causa-effetto fosse operata solo dall’abitudine. Il principio di causa si trasformava così da principio ontologico-razionale in principio emotivo a-razionale. La dimostrazione che egli ritenne decisiva per demolire la necessità del nesso causale fu il famoso esempio delle biglie del biliardo. Quando vediamo una biglia che corre verso un’altra le possibilità che si succedono dopo lo scontro possono essere molteplici, poiché la biglia colpita può andare ovunque sul biliardo: in buca, sulle sponde, sui birilli, ecc. Il punto centrale del discorso humeano verte su questo: poiché tutte le possibilità sono possibili, una possibilità non impedisce a un’altra di verificarsi, poiché tutto può accadere. A livello fattuale non esiste nessuna contraddittorietà fra una possibilità o un’altra. E poiché non c’è, né ci può essere nessuna relazione contraddittoria fra fatti, relazione che implicherebbe la necessità assoluta (o l’uno o l’altro), risulta chiaro che le verità fattuali avvengono perché avvengono, senza un perché. La connessione fra causa ed effetto rimane arbitraria e non può essere assunta come fondamento per nessuna previsione e per nessun ragionamento sui fatti futuri. Si possono trovare conferme fattuali solo osservando il passato, poiché impariamo dall’esperienza e dall’abitudine che a ”cause” che ci appaiono simili ci aspettiamo “effetti” simili. Così anche per il passato vale la considerazione che tutto poteva accadere e che solo l’abitudine ci può far da guida. Per Hume quindi tutta la conoscenza è basata sull’abitudine ed è senza fondamento logico-razionale. Egli scrive, per affermare il suo pensiero, che:
“… ciò che chiamiamo mente, non è altro che un fascio o collezione di percezioni differenti, unite da certe relazioni, e che si suppongono, sebbene erroneamente, dotate di una certa semplicità e identità. Ora, siccome ogni percezione è distinguibile una dall’altra, e può essere considerata come esistente separatamente, ne viene come conseguenza che non c’è nessuna assurdità a separare una percezione particolare dalla mente, a spezzare cioè tutte le relazioni con la massa collegata di percezioni che costituisce un essere pensante…” (1).
La conseguenza è che l’io è pura finzione. Non esiste l’anima intesa come sostanza permanente, e neanche un soggetto pensante (es.: il “cogito” cartesiano) che unisca tutti i dati provenienti delle percezioni. Per fare un esempio, si potrebbe dire che la nostra mente è come un film in cui “crediamo” ci sia un’unità delle percezioni, ma che, invece, non c’è altro che una successione di fotogrammi separati l’un con l’altro, che solo una telecamera (l’abitudine per Hume) le unifica a una certa velocità. Due secoli dopo Ludwig Wittgenstein ribadirà questa concezione, affermando nel suo “Tractatus logico-philosophicus” che “il nesso causale è pura superstizione” . Il mondo dei fatti, un mondo muto, è composto di fatti atomici (atomic facts) che la mente può rappresentare attraverso il linguaggio. Il linguaggio sensato è solo quello che rappresenta i fatti. Se dico “questo libro sta sul tavolo” e così è, la mia proposizione è corretta e vera. Se dico “piove o non piove” la proposizione è vera, ma insensata, (come sono le proposizioni matematiche), poiché non rappresenta un fatto. Se dico “questo scapolo è sposato” la proposizione è falsa. L’etica, la metafisica, l’arte, le religioni sono insensate e non vere. Wittgenstein le chiama il “Mistico”, che è ciò di cui non si può parlare. Le uniche scienze che sono tali sono le scienze naturali, che hanno il compito di descrivere in modo sensato ciò che accade.
Queste “filosofie” di Hume e di Wittgenstein in particolare sono in realtà sono le antifilosofie radicali che sono dominanti nel nostro tempo. Il “Tractatus”, per esempio, è stato uno dei libri più studiati nel Novecento, da cui è nato il neopositivismo logico, e che poi ha influenzato lo strutturalismo, il “pensiero debole” e così via.
Ora, se è esatto affermare che nessun pensiero, nessun concetto universale o astratto, ci è dato dall’esperienza, poiché essa percepisce qualcosa che esiste, e perciò essa si riferisce sempre al particolare, bisogna chiarire che si tratta di esperienza esterna, che in quanto tale ci fornisce solo il particolare e mai l’universale. Dell’esperienza interna non si dice nulla.
L’esperienza esterna ci fornisce i dati materiali esistenti, e per questo essa ci sembra, come diceva Hegel, “la conoscenza più ricca, quando invece è la più povera”. In questo nostro scritto, tuttavia, non riporteremo le critiche alla “filosofia” di Hume svolte con grande profondità di pensiero da parte di Kant, Hegel, Heidegger, i quali hanno rivisto e riformato il principio di causa (2).
Quello che invece era il nostro scopo era di mostrare come la critica del principio di causa, non fosse una mera critica gnoseologica e ontologica fine a se stessa, ma una critica che è strettamente connessa alla realtà sociale del nostro tempo. Separare gli enti l’un dall’altro, come fossero fatti atomici senza nessun legame fra loro, in quanto non esistono né cause, né effetti, ma solo accadimenti che l’abitudine, e non il pensiero, collega, significa avere una visione del mondo totalmente individualista, in cui non solo le cose, ma anche gli esseri umani sono nettamente separati fra loro. Non a caso Hume riteneva che non esistesse la società, che è un’idea astratta, ma solo individui che per spontaneo sentimento di simpatia dovuto alla loro natura umana e per convenienza utilitaristica decidevano di convivere fra loro. Perciò non c’è nessun contratto, nessun motivo razionale che li lega, se non l’utile e questo non ben definito sentimento di simpatia. Hume, molto più di Locke, è il vero fondatore della visione liberal-capitalistica del mondo, una visione che fu accolta pienamente da Adam Smith che la applicò alla nuova teoria economica. Egli dirà, in una frase citatissima, che è il mercato, organizzato da individui in concorrenza fra loro, grazie alla sua “mano invisibile”, la guida della “società”.
All’interno di questa veduta del mondo l’unica logica considerata corretta è quella che usa il principio di non-contraddizione, che è la logica dell’intelletto astratto, che appunto separa e divide. E’ la logica della fisico-matematica, che per quanto sia importante, è una logica che non riesce mai a fornire una visione d’insieme o a spiegare un perché. Tutto il resto è empirismo. “La scienza non pensa” scriverà Heidegger; una scienza che spiega nulla della vita individuale e sociale degli uomini.
Questa veduta del mondo è in realtà strettamente connessa con la logica capitalista, che ha ridotto le società comunitarie a folle solitarie. Ritenere, come diceva Wittgenstein, che si possa parlare solo attorno ai fatti che accadono, peraltro solo descrivendoli, significa distruggere ogni spiritualità umana. Così si ottiene una “reductio hominis ad animalem”, che è poi quello che il potere finanziario capitalistico vuole.
La filosofia non è una scienza, sebbene il pensiero filosofico richieda grande rigore logico. Non è una scienza perché essa si occupa di etica, di politica, di esistenza, di Dio. Il declino di questa disciplina è dovuto sicuramente al potere del denaro e all’avidità sconfinata, che poi è l’essenza stessa del capitalismo: ad esso non conviene la presenza un sapere filosofico diffuso e condiviso, poiché questo tipo di sapere tende a porre un freno alla tracotanza e alla dismisura e perché si presta alla critica del presente. La filosofia nacque per questi motivi circa 2.500 anni fa, come ricerca di un equilibrio armonico all’interno delle comunità; il suo ritiro, oggi, segna il regresso del pensiero e del nostro rapporto con l’Essere. Ovvero segna il trionfo del nichilismo estremo e del caos.
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Note:
- HUME, Trattato sulla natura umana, libro I, sez. 4, ed. Laterza, Bari 1978, pp.220-1.
- Kant, ad esempio, ha concepito il principio di causa legandolo, nel suo “Schematismo trascendentale” e nella “Analitica dei principi”, capitoli presenti nella “Critica della ragion pura”, alla dimensione temporale; Hegel, ripensandolo nella “Scienza della logica” e in particolare nella “Logica dell’essenza”, lo inserisce in una dimensione speculativa dialettica; Heidegger collegandolo al fondamento, cioè all’Essere stesso, nel suo libro “Il principio di ragione” lo considera il principio più potente della ragione.
Flores TOVO
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