«È arrivato l’Ambasciatore» è il titolo di un’operetta “minore” degli anni ’20, di quelle che non hanno lasciato un segno, di cui è difficile anche scovare libretto e spartito.
Maggior fortuna ebbe senz’altro una canzone dallo stesso titolo, lanciata dal Trio Lescano alcuni anni dopo. Faceva, grosso modo, così: «È arrivato l’Ambasciatore / con la piuma sul cappello / è arrivato l’Ambasciatore / a cavallo d’un cammello…»
Nessuna parentela tra le due composizioni: diversi i soggetti, diversi i testi, diverse le musiche. Unico punto di contatto: in entrambi i casi ‒ soprattutto nel secondo ‒ si trattava di storielline senza senso, poco più di barzellette in musica, nient’altro che un pretesto per canticchiare motivetti allegri ed orecchiabili.
Chissà perché, quando qualche giorno fa l’Ambasciatore americano (di nomina obamiana) a Roma, John Phillips, ha esternato il suo non apprezzato pistolotto pro-riforme… quando l’Ambasciatore ha esternato ‒ dicevo ‒ mi sono ritrovato a fischiettare il refrain del Trio Lescano. Eppure, in questo caso, c’era poco da ridere, il fatto era estremamente serio. E a ridimensionarlo non è bastato certo la “ferma risposta” del Presidente della Repubblica, il quale ‒ scoprendo l’acqua calda ‒ ha ribadito che l’esito del referendum sarà deciso dal voto degli italiani.
Il fatto è che quello di questi giorni non è il primo scivolone di mister Phillips, un diplomatico con il vizietto delle esternazioni. Solo pochi mesi fa ‒ a marzo ‒ l’ambasciatore di Obama aveva illustrato al “Corriere della Sera” i compiti che gli strateghi USA avevano assegnato all’Italia in Libia. Washington voleva da noi «fino a cinquemila militari»; e questo senza neanche un accenno al fatto che sull’argomento avrebbe dovuto pronunziarsi il parlamento italiano.
Come del resto già avvenuto per l’Irak, dove i militari italiani sono stati mandati ‒ ufficialmente ‒ per proteggere una nostra ditta che lavora alla diga di Mosul.
E come giudicava l’eccellentissimo signore il clima generale in materia di collaborazione militare? cosa pensava ‒ per esempio ‒ dei ricorsi contro l’istallazione del MUOS in Sicilia? Qui il diplomatico poco diplomatico si era lasciato andare: «Abbiamo aspettato troppo. Una corte locale ne ha ritardato ripetutamente la realizzazione. (…) Il governo italiano faccia il possibile perché sia operativa.» Non è per essere pignolo, ma si notino i particolari, i dettagli (tutti virgolettati nell’intervista al Corrierone). Il governo italiano non «dovrebbe fare il possibile», ma «faccia il possibile». Il tono era perentorio, ultimativo, imperativo, di quelli che nell’Ottocento le potenze coloniali usavano con i rappresentanti dei popoli assoggettati.
Ma v’era di più, molto di più, nell’intervista senza piuma sul cappello. Allora l’attenzione di tutti era stata richiamata dall’argomento Libia, ma l’intervista abbracciava anche altre materie, anticipando puntualmente i temi che sono venuti fuori in questa nuova esternazione. Si iniziava con un peana all’attivismo riformistico del Vispo Tereso: «da Obama e dal vicepresidente Joe Biden ho sempre sentito appoggiare la sua agenda di riforme.» Seguivano gli ordini di scuderia: «Serve flessibilità nel lavoro. I manager americani interessati a investire si dicono scoraggiati da come funziona il sistema giudiziario: troppo tempo per far entrare in vigore i contratti.» E concludeva: «Il referendum sulla riforma costituzionale in ottobre sarà importante. È una riforma necessaria.»
Non v’è motivo di meravigliarsi, dunque, se mister Phillips queste stesse cose le abbia ripetute l’altro giorno, nel corso di un convegno diplomatico-mondano: «Il NO al referendum sulla riforma costituzionale sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia.» E sùbito dopo, in giornata, ecco arrivare di rincalzo l’illuminato giudizio di una nota agenzia di “rating” americana, secondo la quale una vittoria del NO sarebbe «uno shock per l’economia italiana».
Sono ‒ più o meno ‒ gli stessi ambienti che qualche anno fa avevano pronosticato sfaceli per la Svizzera se fosse passato il referendum contro l’immigrazione selvaggia; e ‒ più recentemente ‒ sfaceli ancor maggiori per l’Inghilterra se fosse passato il referendum per il Brexit. Anzi, in piena campagna elettorale era arrivato a Londra nientepopodimeno che Lui, il fulgido Premio Nobel per la Pace e Grande Dispensatore di bombe e crociate democratiche, Lui in persona, a mettere in guardia i cittadini britannici contro l’avventura di un’uscita dall’Unione Europea. Altrimenti, per l’economia inglese sarebbe stato il caos. Esattamente come ‒ sentenziano Phillips e la Ficht ‒ sarebbe per l’Italia un referendum che sbugiardasse la favola colonialista delle riforme e della miseria necessarie per “attrarre gli investimenti”.
Naturalmente, i fatti hanno già fatto giustizia delle bugìe della propaganda anti-populista. L’economia svizzera va a gonfie vele, e quella inglese ha subìto soltanto lievi contraccolpi dal terremoto del Brexit e viaggia verso una ripresa neanche tanto lontana.
Certo, per chi vuole venire a fare shopping con le nostre imprese e con il nostro lavoro, meglio sarebbe se “le riforme che l’Europa ci chiede” fossero le più “strutturali” possibili, le più infami, le più antipopolari. D’altro canto, lo hanno anche messo nero su bianco quelli del Citigroup, la più grande azienda di servizi finanziari del mondo, con quartier generale a Wall Street. Nel 2012 il Citigroup (ove per qualche tempo ha lavorato in posizione di alta responsabilità il figlio del nostro amato Mario Monti) approntò un report di 130 pagine sull’Italia. Anzi, i più attenti fra i miei lettori ricorderanno forse un articolo ‒ «Lo scenario preferito delle banche americane» ‒ che ebbi a dedicare all’argomento su “Social” del 16 novembre di quell’anno. Orbene, qual’era lo “scenario favorito” per chi volesse venire a fare affari qui da noi? Semplice: un paese lubrificato dalle “riforme”, ove le massime cariche dello Stato fossero “garanti degli equilibri europei ed internazionali”, ove il governo fosse infarcito da “tecnici” alla Monti, ed ove la nostra politica finanziaria venisse dettata da quella stessa “troika” che ha affamato la Grecia. Per ottenere ciò, i banchieri “d’affari” non temevano di spingersi pure nel dettaglio, arrivando finanche a chiedere una riforma del sistema elettorale.
Che dire? Non hanno ottenuto il commissariamento delle nostre finanze, ma un nuovo Messia degli “investimenti” ha recato loro in dono l’Italicum (oltre al Job Act e ad altre cosucce).
E, di fronte a tutto ciò, di fronte a uno scenario così a stelle e strisce, volete che l’Ambasciatore del Papa Nero trattenga il suo entusiasmo? Eccolo qua, con tanto di piuma sul cappello e a cavallo di un maestoso cammello, fare il suo ingresso trionfale negli affari interni italiani. Seguìto da un corteo di scudieri, palafrenieri e cortigiani di vario lignaggio.