Il Tempo è un’Entità che ha sempre attratto la mente umana. Nella Teogonia di Esiodo, era rappresentato da Kronos (che in greco significa, appunto, Tempo), che divora i suoi figli, chiara metafora del tempo che porta via tutto. Perché l’Uomo, fin da quando ha cominciato ad acquisire la capacità di astrarre, si è reso conto che esiste un’Entità astratta che muta le cose, che fa crescere le piante, gli animali, gli stessi uomini, e che poi li fa decadere. Si è quindi iniziato a distinguere, in questa Entità astratta, un passato, un presente ed un futuro. Il problema è stato identificare queste tre sotto Entità. Per Leonardo, il Presente non esiste, è il Nulla, che sta il ciò che è stato (preterito) e ciò che sarà (futuro).
“Appresso del tempo il Nulla risiede infra ‘l preterito e ‘l futuro, e niente possiede del presente, e apresso di natura e’ s’accompagna infra le cose impossibili. Onde per quel ch’è detto e’ non ha l’essere, imperò che, dove fusse il nulla, sarebbe dato il vacuo” ((Leonardo da Vinci. I suoi aforismi sono stati raccolti in varie edizioni. Tra le tante, si possono segnalare “Pensieri Filosofici”, Acquaviva, Milano 2008; “Scritti”, Mursia, Milano 1992)).
Per Goethe, viceversa, l’unica Entità è il Presente, che dev’essere còlto nella sua essenza, riprendendo il Carpe Diem oraziano, come viene ampiamente enucleato nel primo Carmen proposto nella traccia.
“Tieniti sempre saldamente legato al presente. Ogni situazione, anzi ogni attimo, ha un valore infinito perché rappresenta l’eternità nella sua interezza” ((Wolfgang Goethe, conversazione con Eckermann del 3 novembre 1823,riportata da Pierre Hadot “Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali”, traduzione di Anna Chiara Peduzzi, Cortina, Milano 2009)).
È curioso notare che Leonardo sia pressoché contemporaneo di Lorenzo de’ Medici, il quale – invece – portava alle estreme conseguenze il Carpe Diem oraziano:
“Chi vuol esser lieto sia
di diman non v’ha certezza”
Agostino d’Ippona, invece, cristianizzando la dottrina platonica dell’Iperuranio, sosteneva:
“In te, anime meus, tempora metior. Noli mihi obstrepere, quod est: noli tibi obstrepere turbis affectionum tuarum. In te, inquam, tempora metior. Affectionem, quam res praetereuntes in te faciunt et, cum illae praeterierint, manet, ipsam metior praesentem, non ea quae praeterierunt, ut fieret; ipsam metior, cum tempora metior. Ergo aut ipsa sunt tempora, aut non tempora metior. Quid cum metimur silentia et dicimus illud silentium tantum tenuisse temporis, quantum illa vox tenuit, nonne cogitationem tendimus ad mensuram vocis, quasi sonaret, ut aliquid de intervallis silentiorum in spatio temporis renuntiare possimus? Nam et voce atque ore cessante peragimus cogitando carmina et versus et quemque sermonem motionumque dimensiones quaslibet et de spatiis temporum, quantum illud ad illud sit, renuntiamus non aliter, ac si ea sonando diceremus. Voluerit aliquis edere longiusculam vocem et constituerit praemeditando, quam longa futura sit, egit utique iste spatium temporis in silentio memoriaeque commendans coepit edere illam vocem, quae sonat, donec ad propositum terminum perducatur: immo sonuit et sonabit; nam quod eius iam peractum est, utique sonuit, quod autem restat, sonabit atque ita peragitur, dum praesens intentio futurum in praeteritum traicit deminutione futuri crescente praeterito, donec consumptione futuri sit totum praeteritum” ((È in te, animo mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L’impressione che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l’estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato)).
Il tempo è una dimensione dell’anima. Nel mondo di Dio il Tempo non esiste, come non esiste nell’Iperuranio platonico, i cui archetipi sono al di fuori di ogni dimensione spaziale e temporale. Lo stesso Anassimandro, ponendo quale ἀρχή (arché – principio di tutte le cose) l’ἄπειρον (apeiron, l’indefinito),anticipava la dottrina platonica, assumendo l’esistenza di un’Entità al di fuori della dimensione spazio-temporale. Proprio la dottrina di Anassimandro costituisce il substrato dell’intero sistema filosofico di Martin Heidegger, che nel distinguere tra Sein (Essere) ed In-Sein (termine intraducibile, ma che potrebbe essere inteso come “Esserci”), distingue i due stati dell’Uomo: quella del Sein, Esseresé stessi, al di fuori della dimensione spazio – temporale e quella – invece – dell’In-Sein, calato in quella dimensione. Da quando l’Uomo ha assunto la capacità di astrarre ed ha individuato l’Entità astratta che chiamiamo Tempo, ha anche affrontato il rapporto dell’Uomo con tale Entità. E la dottrina stoica, ben delineata dalle Lettere a Lucilio di Seneca ((Ep. Luc., I, 1-3: « Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris attendere, magna pars vitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus. Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. Dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, imputari sibi cum impetravere patiantur, nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere » (Fa’ così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’agire diversamente dal dovuto.Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va.Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire))), individuando la natura iperumana del Tempo, considera un Male non utilizzarlo per scopi che non siano teleologicamente legati al proprio miglioramento. L’espressione “sprecare il tempo” deriva proprio dalla dottrina stoica. Ma, soprattutto, è il rapporto dell’Uomo con il passato che ha attratto, sia nel senso del rapporto con il proprio “vissuto”, sia nel senso del rapporto con il Passato della propria stirpe, della propria gente e dell’Umanità intera. Il Gilgamesh sumero è una continua ricerca del rapporto tra il re di Ur ed il passato della sua gente. La sua ricerca dell’immortalità passa attraverso la ricerca del tempo passato. L’incontro con il suo antenato Utnapishtimè sì il tentativo di “carpire” il segreto della sua immortalità, ma anche il ri-percorso del passato della sua gente. La stessa Odissea, è sì Nostos (ritorno a casa), ma è anche un continuo frugare nel passato: Itaca, la guerra di Troia.
Perché da sempre l’Uomo ha voluto la Storia? Perché da quando ha imparato a comunicare ha “tramandato” i ricordi di sé e della sua gente? Perché da quando ha imparato a scrivere ha scritto di Storia? Perché “sapeva” che ogni Uomo avrebbe frugato nel passato proprio e dell’umanità intera. Ed il rapporto tra l’Uomo ed il “ricordo” è ben presente, sia in filosofia, sia in letteratura. Il “conoscere è ricordare” che Platone pone a base della sua dottrina, è il “ricordo” della Vita vera, quella dell’Iperuranio (Il Sein di Heidegger) che si acquista nella vita terrena (l’In-Sein di Heidegger).
Abbiamo già detto dell’Odissea.
“Infandum, regina, iubes renovare dolorem” ((En., II, 3 – Tu vuoi ch’io rinnovelli disperato dolor))
dice Enea a Didone. Il ricordo può provocare dolore, perché si ricordano i dolori passati, anche se lo stesso Enea aveva ammonito i suoi compagni:
“Forsan et haec olim meminisse iuvabit”((En., I, 203 – Forse un giorno sarà grato ricordar ancor ciò))
Anche ricordare un dolore può essere di aiuto, ricordando come lo si è superato. Il tema del ricordo è ben presente anche in Dante, che – da esule – lo vede sempre come doloroso:
“Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice nella miseria
gli dice Francesca nel V canto dell’Inferno. E, quando viene la sera, lo coglie la nostalgia dell’esule:
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more” ((Purg., VIII, 1-6))
Nella Récherche proustiana è il “ricordo” che sorregge l’intero impianto. La madeleine che intinta nel tè gli riporta all’improvviso alla mente tutta la sua fanciullezza passata là dove abitava Swann è la “molla” che lo porta alla “ricerca del tempo perduto”. Quanti di noi hanno rivissuto le sensazioni di Proust?
Quante volte un motivo di una canzone, il sapore di un cibo che non assaggiavamo da tempo, un vestito fuori moda, un’auto d’antan, ha fatto in noi riaffiorare ricordi che credevamo ormai sepolti? E a quanti esuli risentire la parlata natìa ha fatto immediatamente ritornare in mente la propria Patria, come Sordello nel VI canto del Purgatorio? Pablo de Sarasate nella sua “Romanza Andaluza” descrive in musica quali siano i ricordi dell’emigrato: le sonate popolari della sua terra gli balzano alla mente e le trascrive nella romanza. Ma anche nella letteratura odeporica (la letteratura che si occupa di viaggi) troviamo questo rapporto dell’Uomo con il Ricordo. Chi scrive di viaggi, che sia Il Milione di Marco Polo o le cronache del gran tour di Norman Douglas, o il celebre Viaggio in Italia di Guido Piovene o quella sorta di enciclopedia geografica della contemporaneità che sono i lavori sui paesi del mondo scritti negli anni Settanta del secolo scorso da Enzo Biagi, rievoca i “ricordi” dei viaggi, delle cose che si sono conosciuti e, sulle orme di Ulisse, la conoscenzadella νόον degli uomini che si sono incontrati. Anche in musica: cosa è la “Sinfonia italiana” di Mendelssohn se non il “ricordo” del suo viaggio in Italia, con le “citazioni” delle musiche popolari italiane ascoltate durante il viaggio? Il Ricordo è ciò che lega l’Uomo al suo passato e, mediatamente, al passato dell’intera umanità. Il Ricordo è il rapporto più diretto tra l’Uomo ed il Tempo, ma non può essere un ricordo meramente nostalgico. Ulisse ricorda, ma vuole raggiungere Itaca e, nella versione dantesca, vuole ripartire a cercare ancora. La quest medievale su cui si è scritto tanto, è la ricerca continua non solo del tempo passato, ma di qualcosa che si vuole “trovare”. E, come nella piccozza di Pascoli, quando si è trovato ciò che si cercava, non è finita la quest: si va avanti, a trovare sempre. Anche Proust, nel suo decadentismo, ritrova il Tempo che aveva perduto, ma da lì riparte. Perché la Ricerca dell’Uomo non può limitarsi al Tempo Perduto. Continuerà sempre, finché l’Uomo esisterà.
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