“L’opera della Filosofia appare così come è realmente, e risulta anche evidente nello stesso tempo quanto quest’opera sia preziosa, giacché spetta soprattutto a questa eliminare dall’anima tutto intorno gli effetti della generazione e purificare la sua potenziale attività intellettiva. E’ questo dunque il miglior modo di vivere, vivere e morire esercitando la giustizia ed il resto delle virtù. Seguiamo dunque questa regola, se vogliamo essere realmente felici.”
(Giamblico, Esortazione alla Filosofia, 16, 83)
Avendo dedicato il precedente articolo alla ri-scoperta dell’autentica “iniziazione ai Misteri” secondo la via proposta dalla ‘Straniera di Mantinea”, ossia la scala ascendente di Eros, non posso non dedicare l’articolo immediatamente successivo alla seconda virtù/via svelata dai Maestri per ascendere e ricongiungersi al divino: l’amore divino per la Sapienza. Gira infatti voce da tempo che la Philo-Sophia sia un passatempo per annoiati o, secondo la migliore delle ipotesi, una bella disciplina, bella quanto inutile sia per la vita pratica sia per l’elevazione spirituale di ciascuno. Ci tengo particolarmente a sfatare tutte le falsità che sono state divulgate a proposito di questo bene concesso dagli Dei ai mortali, in quanto, essendo menzogne sparse ad arte da ‘amanti volgari’ e da coloro che non amano affatto ‘lo spettacolo della verità’, non contengono nulla di buono e sono estremamente dannose per i viventi, che vengono in tal modo incoraggiati ad ignorare una delle più belle ed autentiche vie di liberazione. Quelli che vanno in giro a dire che dedicarsi alla “scienza di tutte le scienze” sarebbe solo una perdita di tempo, poiché in definitiva si tratta di una conoscenza priva di qualsiasi utilità, io li paragono, senza mezzi termini, agli atei che nell’antichità cercavano di dissuadere le persone dal farsi iniziare ai Misteri, in quanto il fine è identico: privare il vivente della vera felicità e renderlo schiavo a tutti gli effetti, in modo che non possa mai sfuggire al peggio e sia condannato a rimanere nella caverna, in uno stato di inenarrabile miseria. Se qualcuno si chiedesse il perché di tutto questo, la risposta sarebbe un invito a ricordare: perché gli atei fecero di tutto per affrettare la caduta dell’Impero? Perché tanta distruzione, tanto accanimento, e, ancora una volta, tanta miseria e sofferenza? Molto semplice: uomini felici, giusti, e perciò liberi, sono straordinariamente vicini agli Dei, anzi, “vivono la stessa vita degli Dei” – in una tale condizione l’empietà non ha modo di prosperare e gli empi subiscono la sorte che meritano; viceversa, quando gli uomini si lasciano sopraffare dalla disperazione e perdono di vista i beni divini, allora è facile per l’empietà potenziarsi sempre di più e per gli ingiusti dominare tutti coloro che sono saldamente imprigionati nel ‘carcere’. Ecco dunque che la distruzione di un Tempio e la negazione dell’importanza della Filosofia per la liberazione dell’anima (e per molte altre cose, che analizzeremo in seguito) hanno la medesima causa ed il medesimo fine: allontanare gli uomini dalla possibilità di essere felici in modo completo. Sapendo ciò e vedendo spesso all’opera questo modello perverso ed ingiusto, è mio dovere trasmettere una serie di illuminanti esortazioni alla pratica della vita filosofica, esortazioni che il sapientissimo Giamblico ha raccolto nel II libro della Summa Pitagorica, intitolato appunto “Esortazione alla Filosofia” – fra i molti testi a nostra disposizione, ho scelto questo di proposito perché l’autore non si rivolge ad un pubblico di “addetti ai lavori” o ai discepoli di una specifica scuola, parla piuttosto a tutti gli esseri umani, anche a coloro che sono totalmente digiuni di questa scienza divina, dimostrando in modo totalmente chiaro come essa sia una via certa verso la felicità e la perfezione e come il trascurarla sia una deliberata follia. Con le parole dello stesso Giamblico: “… come nelle Isole dei Beati. Lì infatti non si ha bisogno di nulla né alcuna altra cosa può essere utile, ma rimane soltanto il ragionare ed il contemplare, cosa che anche ora noi diciamo essere una vita libera. Ma se questa è la verità, come potrebbe non vergognarsi giustamente chi di noi, avendo la possibilità di andare a vivere nelle Isole dei Beati, se ne rendesse incapace a causa di se stesso?” [EF 9, 35]
Come il precedente articolo, anche questo non ha alcuna pretesa di completezza: mi limito solamente a tramandare alcuni insegnamenti di un sapiente straordinario, che ‘cantò’ la verità sul divino e sull’anima, per cercare di offrire ai lettori alcune basi salde su cui poter sviluppare delle meditazioni proficue per il progresso spirituale, di ciascuno così come della società in senso generale. Fra le numerose esortazioni che Giamblico presenta, ne ho scelte perciò solamente alcune, quelle che mi sono sembrate più efficaci ed anche, per così dire, applicabili subito dopo aver letto le sue parole divinamente ispirate. In effetti, dopo aver ricevuto l’insegnamento circa l’essenza di tutte le cose ed essere stati iniziati alle beate visioni, è anche necessario ‘danzare’ noi stessi, preda del “furore bacchico di tutte le virtù”, e non c’è miglior modo per apprendere a “danzare attorno al divino” che praticare la vita filosofica – questo è quanto diventerà evidente nel seguito di questa breve nota … “La filosofia in sé è un’elevatissima forma di musica (cfr. Fedone 64a3), come anche di amore, anzi, se preferisci, la forma più intensa di amore, in quanto la filosofia non accorda una lira, ma l’anima stessa con la forma più perfetta di armonia, grazie alla quale l’anima è in grado di dare ordine a tutto ciò che riguarda gli uomini e, al medesimo tempo, di levare in modo perfetto inni in onore delle divinità, imitando la stessa Guida delle Muse, che celebra il Padre con i canti intellettivi e tiene insieme l’intero universo con legami indissolubili, muovendo insieme ogni cosa, come afferma Socrate nel Cratilo.” (Proclo In RP. 57, 10)
Straordinariamente, anche nell’acquisizione di educazione e virtù, la scala attraverso cui bisogna salire è assai simile a quella di Eros: la vera educazione, quella completa, esorta l’essere umano ad “impegnarsi interiormente … in tutto ciò che partecipa del bello”, dalle scienze matematiche a tutte le “azioni belle e nobili della vita.” In altre parole, questo discorso deve avere la forma di un’esortazione al bello e al bene sia perché, senza di essa, difficilmente qualcuno sentirebbe un impulso verso le azioni belle di per sè, sia perché l’anima non può godere del più alto dei beni “senza aver prima preparato l’anima attraverso l’esortazione” – l’anima deve venire anch’essa educata, a piccoli passi, “dalle cose minori alle maggiori”, finché non abbia attraversato tutte le cose belle e buone e sia allora in grado di partecipare del bene più grande: “elevandoci dal basso verso il punto più alto come attraverso un ponte o una scala” [EF 1], metafora che ritorna spesso nel testo, ad esempio: impadronirsi delle esortazioni proposte “come fossero un ponte o una scala che porta dal basso verso l’alto e tira su da una grande profondità verso la sommità ed innalza la mente di ciascuno di coloro che vi si applichino in maniera sincera.” [EF 21, 105] Detto in altri termini: “in realtà, fin dai tempi antichi, alludono al fatto che colui che giungesse nell’Ade senza iniziazione ai Piccoli e ai Grandi Misteri, rimarrebbe impantanato, mentre colui che si sia purificato e sia stato iniziato ai Misteri, una volta laggiù, vi abiterà in compagnia degli Dei.” [EF 13, 67]
Giacché, come ho spiegato fin dall’inizio, questo non è un discorso rivolto alla cerchia ristretta di coloro che sono già amanti della divina Sapienza né a coloro che già hanno raggiunto la pura vetta dell’estasi bacchica, è bene cominciare una simile esortazione dalle “cose evidenti e visibili a tutti … che risvegliano l’impegno secondo le nozioni comuni relative alla virtù … note alla maggior parte degli uomini.” Seguiamo pertanto il Filosofo nella sua analisi di queste nozioni comuni – primissime nozioni da comunicare agli aspiranti iniziati – che, per la loro auto-evidenza, hanno la proprietà di essere immediatamente accessibili a tutti e quindi assolutamente efficaci.
Come noi vediamo per mezzo degli occhi e vediamo bene grazie alla loro virtù, allo stesso modo noi viviamo per mezzo dell’anima – perché se non avessimo l’anima non saremmo “esseri viventi” – e viviamo bene per mezzo della sua virtù: “bisogna slanciarsi nella virtù come in un santuario inviolabile, allo stesso modo non dobbiamo arrenderci a nessuna ignobile tracotanza dell’anima.” Pertanto, risulta evidente che per vivere bene è necessario sempre scegliere le virtù proprie dell’anima e vivere in accordo con la sua parte migliore, il suo fiore o sommità, attraverso cui è possibile conoscere e riunirsi agli stessi Dei: “bisogna godere delle contemplazioni secondo sapienza, come fossero ambrosia e nettare (infatti, il “banchetto degli Dei” si tiene nella “pianura iper-urania” ed il Loro nutrimento è l’Intelligibile, e lo stesso vale per le “anime felici”), perché puro è il piacere che da esse deriva ed il loro carattere divino può rendere magnanimi, se non addirittura eterni, in quanto ci dà effettivamente la scienza delle cose eterne.” Sapienza e prudenza (capacità di raziocinio- phronesis) sono dunque quelle virtù che, se possedute, ci preservano liberi dagli inganni provenienti dalle nostre percezioni e da errori nel calcolo delle nostre azioni: “l’anima di ogni uomo è costretta a provare intensamente piacere e dolore e, nello stesso tempo, ritenere che ciò che subisce sia soprattutto questo, cioè che quello che subisce sia la cosa più evidente e più vera, ma le cose non stanno proprio così … proprio nel subire questo, l’anima viene incatenata al corpo.” [EF 13, 69]
Perché queste virtù possano risplendere e guidare in modo perfetto un’anima, liberandola così dalle suddette catene, si deve preservare puro l’intelletto da qualsiasi forma di kakia: questa è l’educazione che conduce alla Filosofia, la purificazione e l’insegnamento preliminare dei Misteri di Persephone. Infatti, “allo stesso modo, bisogna insegnare i Piccoli Misteri prima dei Grandi Misteri, e bisogna educare prima di insegnare la filosofia.” Necessariamente, si svela poi un’analogia di fondamentale importanza: come chi ha ottenuto in sorte una terra ricca, che potrebbe produrre ricchissimi “raccolti”, deve prendersene cura in modo speciale per avere “gli annuali frutti della terra”, allo stesso modo “bisogna fare anche con l’anima, affinché produca il frutto che è degno della sua natura.” [EF 2]
Come dicevamo, sono necessari cura ed impegno al massimo livello: il “grano” non cresce da solo e tutte le arti connesse con l’agricoltura richiedono sforzi – ma sono anche alla base della vita civilizzata e della pietà religiosa (l’ira di Demetra blocca sia la crescita dei raccolti sia i sacrifici nei confronti degli Dei, così come il Suo rallegrarsi riporta agli uomini entrambi i beni, aggiungendovi anche i Misteri e le Thesmophoria, festa delle Dee ‘Portatrici di Leggi’), ed è per questo che nessun uomo potrebbe mai abbandonare gli sforzi rivolti alla cura dei suoi campi, perché da essi dipende la sua sussistenza stessa, fisica e spirituale. Nello stesso modo dovrebbe perciò, per analogia e a maggior ragione, comportarsi con la propria anima: Demetra infatti non ha solo fornito i mezzi di sussistenza per vivere, bensì ha concesso i mezzi per vivere bene, in modo civile, il che porta alla conclusione che due sono le forme di “agricoltura” concesse agli esseri umani, una relativa alla terra e ai bisogni connessi con la materialità, l’altra relativa all’anima e alla sua educazione, da esercitare affinché essa produca il frutto migliore. Bisogna perciò ben distinguere e ricordare che ‘la vita è come una spiga che porta frutto, e che l’una sia e l’altro non sia’, ovvero: “per questo suo adeguarsi alle opinioni del corpo e per il fatto che provi gli stessi suoi godimenti, credo che l’anima sia costretta a provare gli stessi impulsi e a nutrirsi degli stessi nutrimenti del corpo e a non giungere mai nell’Ade purificata, ma ad uscire dal corpo sempre contaminata, in modo da ripiombare subito dopo in un altro corpo e a germogliarvi come se vi fosse stata seminata, e perciò a non essere partecipe della compagnia di ciò che è divino, puro ed uniforme.” [EF 13, 69]
Sulla ‘via di kakia’, Giamblico fa un’affermazione praticamente identica a quella che troviamo nella Gita(capitolo 16, Daivasura-Sampad Vibhaga yoga, ossia la distinzione fra divino e asurico): esistono due modelli, “quello di chi è divino e felicissimo, dall’altro quello di chi è ateo ed infelicissimo, e coloro che non vedono che le cose stanno così, non si accorgono che in conseguenza della loro stoltezza ed estrema dissennatezza, a causa delle loro ingiuste azioni, somigliano al secondo e non al primo di tali modelli … e, se non si liberano della loro ‘abilità’, anche da morti non li accoglierà quel luogo che è puro da ogni male, e anche quaggiù avranno sempre uno stile di vita che somiglia a se stessi, vivranno cioè da malvagi ed in compagnia di malvagi.” [EF 14, 77]
Così, anche Pitagora afferma: “fatica su queste cose, praticale, occorre che tu le ami: esse ti porranno sulle tracce della divina virtù”: con pochissime parole, il Sapiente riesce ad indicare l’idea basilare che la vera pratica della virtù è “l’impegno per le cose belle” e l’amore verso di esse. Tale virtù è quella che, poco a poco, allontana il vivente dalla natura mortale e lo avvicina progressivamente alla “divina essenza e alla conoscenza e all’acquisizione della divina virtù.” Giunti al vertice di tale “scala”, si ottiene lo stesso risultato che abbiamo già incontrato diverse volte, e non certo casualmente: infatti, è ancora la Massima Delfica più nota che prende forma … “conoscerai il cosmo e gli Dei” – in vista di questo fine è anche l’esortazione alla Filosofia: “conoscerai la costituzione (systasin) di Dei immortali ed uomini mortali, dove ciascuna di tali realtà si sviluppa liberamente e dove viene trattenuta, e tu conoscerai, per quanto ti è consentito, che la natura è la medesima.” Giustamente, con grande entusiasmo, Giamblico afferma che davvero non esiste conoscenza più straordinaria di questa per colui che si “slancia nobilmente verso la Filosofia contemplativa, perché la conoscenza degli Dei è perfetta virtù e sapienza e felicità (areté– sophia– eudaimonia) che ci rende simili agli Dei (tois Theois homoious)”. Nè si pensi che tale forma di conoscenza sia inutile per la vita umana: essendo la conoscenza relativa all’umano inferiore a quella del divino, è evidente che, possedendo la seconda, si possiede anche la prima. Si è dunque dotati non solo della virtù divina, ma anche di quelle umane, che ci permettono di discernere ciò che è nocivo e ciò che non lo è, come si sviluppa la vita umana e tutti i suoi vari aspetti, e in definitiva “quali siano le sue parti migliori e come siano trattenute ed impedite, al punto che non si possa facilmente uscirne svincolandosi dai legami” (ton desmon apoluesthai– ritroveremo ancora questo “sciogliersi dalle catene” nel corso dell’analisi del testo: del resto, che la Filosofia abbia a che fare con la liberazione dell’anima è cosa già detta diverse volte). [EF 3, 11- 12]
Segue poi una magistrale definizione di quello che potremmo definire come “principio di responsabilità”, esplicitato dal detto pitagorico: “tu saprai che gli uomini, quando sono sventurati, subiscono le sventure che si sono scelte.” Gli esseri umani sono tutti dotati di anima e della sua sommità razionale, e sono anche tutti responsabili delle proprie azioni: hanno pertanto sempre il potere, che viene da se stessi, di scegliere ciò che è bene e di fuggire ciò che è male, “perché colui che non si serve di questo potere, è indegno dei vantaggi che la natura gli dà.” Penso che l’esempio migliore che si possa fornire a tal proposito si trovi nell’Odissea: Odisseo avvisa i suoi compagni che le vacche che vedono di fronte a sè appartengono a Helios e che pertanto non devono assolutamente toccarle. Odisseo è l’anima razionale, ma anche quell’entità divina che chiamiamo Agathos Daimon: è lui ad indicare agli sventurati che non sanno, cosa è veramente bene e cosa invece li porterebbe alla rovina- è quindi evidente che i compagni di Odisseo hanno esercitato in modo pessimo il loro potere, scegliendo il male peggiore pensando di evitarlo. Sono pertanto gli unici responsabili della loro sciagura finale, in quanto hanno ceduto alla via che conduce alla mera soddisfazione degli appetiti materiali, invece che dare ascolto al comando del migliore fra loro.
Come dice anche il sommo Platone: “La virtù non ha padrone , e ognuno ne avrà in misura maggiore o minore a seconda che la onori o che la disprezzi. La responsabilità è di chi ha fatto la scelta; la divinità è incolpevole.” (Rep. 617d2) e Giamblico ne trae la tremenda – per certi versi, data la responsabilità individuale che comporta per ciascuna anima incarnata – conclusione che, dal momento che siamo noi a scegliere il nostro Daimon, spetta a noi agire in conformità ad esso ed essere “per noi stessi nel ruolo della Fortuna (Agathe Tyche) e del Demone (Agathos Daimon) … cosa che esorta alla sola bellezza”- è pertanto necessario, obbedendo al “proclama della vergine Lachesi, figlia di Ananke”, inseguire e acquisire ed agire sempre secondo la virtù, in modo da procurarci “da noi stessi la nostra felicità”, senza causare invece la nostra rovina in modo volontario.
Meravigliosamente chiara è anche la seguente sentenza pitagorica, collegata alle ultime conclusioni dedotte: “coloro che, da un lato, quando sono vicini ai beni nè li guardano nè li ascoltano, raramente, dall’altro lato, comprendono come liberarsi dai mali.” I beni sono “connaturali a ciascuna anima”, non così i mali: il male è dotato solamente di ‘esistenza collaterale’ – in altre parole, non esiste un cosiddetto ‘male-in-sè’ o principio del male, o simili assurdità – è solo perché le anime non “guardano nè ascoltano” i beni che sono loro propri, oppure, come dice Platone nel Fedro, perché distolgono lo sguardo dai puri beni guastandosi le ‘ali’, ricadendo così nei legami della mortalità, che esse non sanno trovare nessun rimedio ai mali che hanno causato a se stesse. “E la liberazione dai mali, che pochi osservano, esorta a liberarci dal corpo e a vivere la vita dell’anima in se stessa, che noi chiamiamo “meditazione sulla morte.” Si valuti la fonte di questa espressione: è sempre il divino Platone (Fedro66b ss.) “a noi viene così dimostrato che se vogliamo mai conoscere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo distaccarci da esso (il corpo) e guardare con l’anima di per se stessa le cose nella loro essenza”; e poco prima: “la parola che viene detta a questo riguardo durante i Misteri, che noi uomini ci troviamo come in una sorta di carcere e che non è detto che uno se ne liberi da solo o che nemmeno fugga, mi appare come parola di una sua grandezza e non facile da penetrare.” Nell’iniziazione più segreta, i Teurghi ordinano di seppellire tutto il corpo dell’iniziato sotto terra ad eccezione della testa- lo stesso simbolismo ha compreso Platone “sotto l’ispirazione degli Dei stessi”: dice infatti “essendo puri e non sepolti in questa tomba che ora ci portiamo appresso e che chiamiamo corpo” – ecco in che senso la Filosofia è “meditazione sulla morte” ed ecco perché l’iniziazione è simile alla morte: “anche il verbo ‘morire’ come anche l’azione che esso esprime sono simili al verbo ‘essere iniziato’ e all’azione da questo denotata.” (Plut. fr. 178 Sandbach) “Se dunque è la filosofia che ispira la meditazione sulla morte ed il conseguente disprezzo di essa, e d’altra parte la filosofia conduce ad una vita immortale ed eterna ed insegna discorsi eterni … allora essa sarà anche l’attività più vantaggiosa.” [EF 20, 100]
Siamo perciò tutti invitati “alla divina perfezione e alla migliore collocazione nel seguire gli Dei” attraverso l’ormai celebre scala ascendente – questo è ciò che rivela questa bellissima sentenza/preghiera: “Padre Zeus, Tu ci renderai tutti liberi da molti mali se indicherai a noi tutti di quale Demone dobbiamo servirci. Ma tu abbi coraggio, perché divino è il genere dei mortali.” [EF 3, 13- 14]
Come spiega Giamblico in modo perfetto, in queste parole si nasconde in primo luogo “una raccomandazione alla felicità divina”, contenuta nell’invocazione al Sovrano degli Dei – dal momento che lo scopo finale della preghiera è l’henosis con la divinità e la partecipazione ai suoi puri beni, ossia la completa e perpetua eudaimonia– infatti, noi tutti dobbiamo in modo speciale “esercitare la pietà. Questa non verrà se non si assimila il culto al suo oggetto, e questa assimilazione non è fornita da altro se non dalla filosofia”, che perciò è anche invocazione agli Dei e guida alla felicità suprema. [EF20, 94] In secondo luogo, rivela una fondamentale considerazione a proposito del Daimon “concesso in sorte, e dell’ascesa per mezzo di lui di nuovo verso gli Dei”. Questo Daimon è sempre Eros, come viene chiarito subito dopo: “non si potrebbe per nulla risalire … se non per mezzo di tale Demone, di cui ci si serve come guida, e che ha il compito di rendere autenticamente puro ogni amante degli Dei.” Dunque, ‘semplicemente’ questo è il percorso che causa, per tutte le anime incarnate, una “prima cessazione dei mali” – solo a partire da questa condizione è poi possibile “conoscere veramente la vita divina e beata … ed innalzandoci insieme ad essa, noi osserveremo la primigenia e divina natura degli uomini … ed in essa possiederemo il fine della vita più beata che è stata proposta dagli Dei agli uomini.” Il fatto davvero straordinario è che questa non è solo la via per la “liberazione dal cerchio” ma anche per ottenere una tale liberazione mentre ancora si vive in un corpo mortale: infatti, la massima successiva ci esorta a “prendere come auriga l’ottima intelligenza” (potentissima immagine dell’auriga dell’anima!) che viene “dall’alto” ossia dagli Dei, abbandonando così tutte le disposizioni naturali, l’intemperanza e la “contesa” che vengono dal corporeo. Allora “giungerai al libero etere, sarai immortale come un Dio, non più un uomo mortale” – impossibile non notare l’incredibile somiglianza con le iscrizioni delle lamine auree (ad esempio, IG XIV 641):
“Vengo pura dai puri, o Regina degli inferi,
Eukles ed Eubouleus e voi Dei, e quanti altri siete Demoni;
infatti, anche io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe beata,
ma scontai una pena per azioni affatto giuste,
che mi soverchiasse la Moira oppure il bagliore dei fulmini.
Ora supplice giungo al cospetto di Persephone casta,
perché benigna mi invii alle sedi dei puri.”
In altre parole, se l’ “ariston noun”, l’eccellente intelletto, si trova alla guida – in analogia con Zeus, Nous Demiurgico e Signore/Guida dei dodici Dei – esso preserva e mantiene intatta la somiglianza dell’anima agli Dei, permette cioè all’anima di seguire da vicino la sua divinità ed il coro corrispondente. Il vivente ha preso la decisione migliore: ha fuggito il peggio, ciò che è inferiore, la vita mortale, e ha fatto dirigere saldamente la sua anima verso la realtà divina, cui appartiene veramente. “Tutto questo consente di restituire (l’anima) all’essenza degli Dei e alla rivoluzione in Loro compagnia che noi avevamo prima di giungere alla forma umana.” A proposito della rivoluzione, ciò è spiegato in modo eccellente dal divino Proclo, quando delinea le varie ascese dell’anima al seguito degli Dei, dalla realtà intellettiva fino ad Adrasteia, alle “beate visioni” e alla “pianura della verità dove gli Dei e le anime felici banchettano e si allietano.” (cf. Theol. IV, 9)
Concludendo questa serie di esortazioni alla vita vissuta in accordo con il nous e con la pietà religiosa, non possiamo che trovarci estremamente d’accordo con la conclusione del sapientissimo Giamblico: “è chiaro che il metodo di tali raccomandazioni ci esorta a tutti i generi dei beni e ad ogni forma di vita migliore.”[EF 3, 15- 16]
L’esortazione successiva è formulata attraverso un’analogia, immediatamente comprensibile per qualsiasi essere vivente e per questo straordinariamente efficace nel riconvertire l’anima verso l’amore per la conoscenza: la sapienza è superiore a tutte le cose umane, nello stesso modo in cui la vista è superiore a tutti gli altri sensi; così l’intelletto è superiore all’anima come lo è il Sole rispetto ai corpi celesti. Notando dunque che la vista è il senso che raggiunge gli oggetti più lontani, che l’intelletto è superiore alla ragione discorsiva in quanto solo l’intelletto è “visione e potenza delle cose più preziose”, e che il Sole è il sovrano di tutto il cosmo visibile in quanto “occhio e anima delle cose naturali”, si rivelano la natura e l’attività della sapienza: l’esortazione invita ancora una volta ad assegnare il ruolo di guida al nous (“che l’intelletto sia a capo dell’anima, lo abbiamo già assunto fra le nozioni comuni”), affinché possa condurre l’anima al vertice della conoscenza divina. Del resto, come la vista coglie gli oggetti più lontani, anche la sapienza è in grado di ‘vedere’ come presenti le cose che sono più lontane e “contiene in sè le forme di tutti gli enti”; come l’intelletto è superiore al discorso e alla ragione, allo stesso modo la sapienza può contemplare gli enti attraverso intellezioni più pure e semplici rispetto alle altre facoltà razionali, infatti è “visione degli Intelligibili nonché potenza delle attività più divine e più perfette”; come il Sole è occhio e anima delle cose naturali, così la sapienza è “occhio e vita degli enti intellettivi”, grazie a cui gli oggetti di intellezione possono essere pensati e contemplati, e grazie a cui esistono tutti gli enti “perché è principio fondante dell’intera creazione e della prima generazione e dell’ordine di ciò che è nel mondo, e allo stesso modo, quindi, anche di ciò che è in noi.” Dopo una simile dimostrazione, risulta chiaro perché si debba avere la massima cura e venerazione per un Dono simile, “di natura simile e che offre beni così grandi”, in quanto, tramite le evidenti analogie presentate, è chiaro e manifesto che si tratta della più certa via per “partecipare della migliore felicità.” [EF 4, 17- 19]
A tal proposito, si mediti sul detto di Archita: “l’uomo è nato ed è strutturato per contemplare la ragione della natura dell’universo; ed è opera della sapienza acquisire e contemplare la ragione degli enti.” Ciò significa che, da un lato, la ragione dell’uomo è in grado di contemplare ‘dall’interno’ la ragione della natura universale, e dall’altro, che la sapienza è in grado di cogliere la causa degli enti- e si dimostra in tal modo l’accordo perfetto fra la natura individuale della ragione e quella intellettiva dell’universo. Ne consegue che l’essere umano, per vivere realmente in accordo con la sua natura, “che è ciò a cui noi tutti miriamo particolarmente”, debba vivere in perfetto accordo sia con la ragione individuale sia con quella divina, ed è evidente che non “saremo felici in altro modo se non acquisiremo e contempleremo attraverso la filosofia la causa degli enti.” Bisogna però sottolineare, a scanso di equivoci, che l’esortazione deve spronare tanto verso la filosofia contemplativa quanto verso quella pratica: attraverso la filosofia teoretica, che riguarda tutti gli enti in senso assoluto, si contemplano e colgono sia la natura sia le proprietà sia i principi di tutte le cose- riconducendo “tutti i generi ad un solo genere” si avrà la contemplazione del Bene in sè e per sè. Dotati di questa forma universale di scienza, che “scopre i principi di tutti gli enti ed è capace di rendere ragione degli stessi suoi propri principi”, bisogna dedicarsi anche alla filosofia pratica, il cui fine sommo non è più l’esclusiva contemplazione del Bene in sè, bensì “il conseguirlo attraverso le azioni”. Tale è l’essenza delle virtù contemplative, da un lato la contemplazione dei “modelli della mente divina”, dall’altro un’incessante attività pratica di diffusione dei beni, perché “dobbiamo lasciare a coloro che verranno in seguito memoria delle beate visioni.” (Pr. Theol. I 7, 14) [EF 4, 20- 24]
Il divino Giamblico esalta poi decisamente il discorso di incitamento alla filosofia creato dalla scuola Pitagorica, in quanto risulta ‘credibile’ per tutti grazie alle sue “dimostrazioni assolutamente scientifiche” : come si è spesso accennato, le dimostrazioni della dialettica e delle scienze matematiche sono inconfutabili ed in questo si manifesta la loro profonda bellezza, simile all’adamantina verità divina – ne diamo subito una prova, continuando a seguire il discorso di Giamblico.
L’assunto di base è che tutti gli uomini desiderano essere felici e perché questo sia possibile, è necessario possedere molti beni (relativi al corpo, esterni al corpo, relativi all’anima, tutti da associare alla riuscita nelle azioni) ed è anche necessario impiegarli e farlo nel modo corretto, perché “è un male in più servirsi male di qualcosa piuttosto che rinunciare a servirsene.” L’unica cosa che può guidare al corretto uso di questi beni, sia quelli materiali sia quelli spirituali, è la scienza: “non solo la buona riuscita, ma anche l’agire bene è la scienza che li fornisce agli uomini”: possedere molti beni e fare molte cose, ma essere privi di sapienza è un male ancora più grande del non possedere alcun bene e del non far nulla. Dunque, i beni cui i viventi aspirano per essere felici non sono beni in sè e per sè, ma dipende sempre se a guidarli è la sapienza oppure l’ignoranza: perché, se a guidarli è l’ignoranza, essi sono mali ancora peggiori (facilissimo pensare a numerosi esempi: basti considerare quali sciagure potrebbe compiere un uomo dotato di beni fisici quali salute e bellezza fisica, e di beni esterni quali ricchezza e nobiltà di nascita, essendo però privo di temperanza e saggezza o pietà religiosa) in quanto sarebbero potentissimi alleati di un’anima empia nel conseguire i suoi turpi scopi, dettati dall’ignoranza del bene: “in verità, solo la sapienza è bene e solo l’ignoranza è male.”
La conseguenza inconfutabile di tutto questo ragionamento è pertanto la seguente: dato che tutti vogliamo essere felici, e dato che abbiamo dimostrato che è possibile diventarlo solo usando in modo corretto tutti i vari beni e che è solo la sapienza a poterci fornire tale correttezza, occorre dunque che ciascuno si preoccupi in primo luogo non di acquisire beni ma di diventare il più sapiente possibile, in quanto non esiste altra via per realizzare compiutamente la naturale aspirazione alla completa felicità. In definitiva, un modello assolutamente antitetico rispetto a quello seguito dall’uomo contemporaneo, che ne spiega anche la profonda infelicità ed insoddisfazione: costui, preda dell’ignoranza, cerca naturalmente di essere felice, però dà la caccia all’eudaimonia cercando solo di accumulare quanti più beni possibile. Non si accorge però quasi mai che tali beni, presi di per sè, non danno alcuna gioia al mortale, in quanto è solo il possesso di una scienza che non crea beni che possono anche essere dei mali (i “beni presunti tali”) che può condurre alla vera felicità, perché il Bene cui la sapienza divinamente ispirata giunge non è presunto ma Bene in sè e fonte unica di tutti i beni, divini ed umani. [EF 5, 25- 26]
Dalle precedenti dimostrazioni, possiamo così definire tutto ciò che noi siamo: anima, corpo, e le cose che appartengono al corpo – ed è palese, a questo punto, l’ordine gerarchico che intercorre fra di loro. E’ per questo che “non fanno nulla di ciò che dovrebbero” (per il loro stesso bene e anche per il bene comune) coloro che ammassano ricchezze, senza però curarsi della sapienza che permetterebbe loro di impiegarle in modo corretto e giusto; o coloro che curano la salute del corpo, ma ignorano la scienza che porterebbe ad un vantaggioso e proficuo possesso di tale bene – in una parola, occorre fare qualsiasi cosa e predisporre qualsiasi bene solo in vista dell’anima e delle “sue facoltà che ne hanno il comando” (facoltà egemoni dell’intelletto che contempla e conosce le Forme e le Cause).
Ne consegue anche che occorre ben distinguere quel che noi siamo veramente da ciò che ci è proprio e da quello che ci appartiene solamente, secondo la gerarchia prima esposta: è indiscutibile, ancora una volta, che “ciascuno di noi è la sua anima, ciò che è proprio di ciascuno di noi è il corpo e ciò che appartiene al corpo, e ciò che appartiene a ciascuno di noi è la ricchezza, ossia le cose che noi acquistiamo in vista del corpo.” Tre sono anche le scienze, in base a tale suddivisione: chi conosce le cose del corpo (ad esempio, un medico), conosce ciò che gli appartiene, ma non conosce se stesso; identico ragionamento per chi conosce i mezzi che servono al corpo (ad esempio, un contadino) ma non conosce se stesso; quindi, la vera sapienza, che è conoscenza dell’anima e quindi di se stessi, vera sophrosyne divina, è l’unica forma di conoscenza e somma virtù che può condurre alla conoscenza di sè e del Bene celato in noi, potendo, da qui in poi, ordinare la nostra vita “in modo conforme alla nostra essenza”, divenendo così “belli e buoni” e prendendoci realmente cura di noi stessi.
Perciò, fra tutti i beni che abbiamo, a parte gli Dei, l’anima è quello più divino ed è per questo che l’anima deve sempre essere stimata, a parte gli Dei, più di qualsiasi altra cosa. Segue un elenco eccellente degli ‘spregiatori dell’anima’: chi la rende peggiore (seguendo la via di kakia e spezzandole le ‘ali’); chi “la riempie di mali e di pentimento”; chi fugge, quando messo alla prova, le fatiche, i dolori ed i timori; colui che teme la morte (perché non riesce a tollerare che l’anima e la vita si sciolgano dal corpo); chi stima i beni apparenti più dell’anima (in quanto privilegia ciò che è inferiore rispetto a ciò che è superiore). Per converso, non c’è che un solo modo per essere un ‘estimatore’ dell’anima, giungendo così alla perfezione dell’anima stessa: “l’assimilarsi a quelli che sono i modelli migliori e il far sì che le cose peggiori, o almeno quelle tra esse che siamo in grado di migliorare, vengano dopo le migliori, e ancora fuggire il male, e il cercare e scegliere il meglio di ogni cosa, e una volta scelto, viverci insieme per tutto il resto della vita. Tutto ciò non è altro che praticare la filosofia come si deve, sicché, in ogni caso, chi vuole essere felice deve filosofare.” [EF 5, 27- 29]
Come avevamo anticipato, ci viene ora presentata una dimostrazione relativa alle tre parti dell’anima: il suo vertice, l’anima razionale; l’anima irascibile (quella del thymòs); l’anima appetitiva – insieme alla considerazione, importantissima, che le parti che non vengono ‘esercitate’ diventano deboli, quasi inerti e “se ne stanno tranquille”, e che per questo bisogna fare attenzione, soprattutto al fatto che le nostre anime rispettino sempre una certa proporzione armonica. Di queste tre forme poi, la prima è divina, quella che “il Dio ha donato a ciascuno di noi come Demone, che ci solleva da terra verso la parentela celeste, in quanto noi siamo piante non già terrestri, bensì celesti”, mentre le altre due sono mortali: è perciò evidente quale sia la parte dell’anima da ‘allenare’ maggiormente per avere “pensieri immortali e divini … e avendo in sè il Demone (reso consapevolmente più potente rispetto alle istanze mortali) che convive con lui in maniera bene ordinata (ossia, senza che il Demone sia stato disturbato dalle tensioni mortali delle altre due forme di anima), gode di straordinaria felicità.” Dal momento che, appunto, l’assimilazione avviene sempre tramite somiglianza, è impossibile avvicinarsi al divino se ci si sofferma a nutrire eccessivamente e a rafforzare “la multiforme bestia che è in noi”, l’appetito, ed “il leone che è in noi”, l’impeto e tutto ciò che lo concerne, mentre si lascia languire “l’uomo che è in noi”, l’intelletto. L’individuo migliore, sano, “colui nel quale si manifesta il bello”, è solo colui che, alleatosi con il leone, ha dominato tanto il leone stesso quanto la bestia dalle molte teste; tale bestia rappresenta proprio le passioni sfrenate (e non gli appetiti mansueti e soddisfabili senza bestialità), quelle che minacciano di distruggere l’uomo divino che è in ciascuno e di trasformare “il leone in scimmia.” Questo discorso, esattamente come nella Repubblica di Platone, è un modello che dall’individuo si deve trasferire all’educazione dei giovani (guidandoli finché non abbiano appreso a far dominare in loro la parte più divina), alle costituzioni (facendo sì che gli uomini divini guidino quelli più ‘animaleschi’) – questi, in definitiva, sono i “pensieri di un uomo libero”, di colui che è sempre dedito al rafforzamento della sua parte divina: “ciò non è niente altro se non praticare la filosofia, sicché, anche secondo questa divisione occorre soprattutto filosofare se si vuole essere felici.” [EF5, 30- 33]
Possiamo dunque concludere questa breve analisi con un’ultima considerazione, proprio a proposito dell’utilità della filosofia anche nelle attività pratiche e, in definitiva, in tutti gli aspetti dell’esistenza: avevamo detto che la cosa fondamentale è esercitare la pietà religiosa; un’altra cosa fondamentale è la verità, l’essere veritieri con gli Dei e con gli uomini, e chi se non il vero filosofo è colui che ama contemplare la verità? Pertanto, anche in questo, l’abitudine alla vita filosofica aiuta a raggiungere questa grandissima virtù; in più, occorre conoscere il potere delle leggi e come servirsene in vista della giustizia “e questo non è possibile apprenderlo senza sapere quale sia la virtù alla quale dobbiamo riferire sia il potere che l’uso della legge”: a questa conoscenza ci può arrivare solo il vero filosofo “perché la pratica delle virtù si ottiene attraverso la Filosofia.” E’ necessario altresì relazionarsi con gli esseri umani e anche questa necessità è soddisfatta in modo perfetto ed armonico grazie alla pratica della filosofia, in quanto permette di conoscere bene “la dignità o la mancanza di dignità di ciascun uomo, essendo così capaci di distinguere i caratteri e le nature di ciascuno e le facoltà dell’anima ed i discorsi adatti secondo ogni circostanza” Anche nel caso delle virtù guerriere, quando “la legge del coraggio impone di combattere gli uomini affini alle bestie e di soggiogare le bestie più nocive, e se bisogna andare incontro ai pericoli con ardimento e abituarsi a resistere ad essi, allora dobbiamo vedere quale scienza e quale facoltà ci prepara ad essere idonei.” Si tratta sempre della filosofia, in quanto, come abbiamo visto, insegna a sottovalutare piaceri ed appetiti e a soddisfarli quel tanto che basta, ma soprattutto insegna ad aver coraggio e a non temere assolutamente né le fatiche né la morte stessa.
In conclusione, è del tutto evidente che, qualunque sia il bene cui una persona aspiri, sarà la filosofia a procurarglielo: ponendo come basi indispensabili “l’essere desideroso delle cose belle e buone” ed il “sottomettersi nobilmente a tutte le fatiche, spendendo molto tempo nell’apprendimento”, non c’è bene e non esiste virtù che la filosofia, l’amore divinamente ispirato per la Sapienza, non sia in grado di concedere ai viventi [EF20, 96- 98] – anche nella attuale situazione degenerata e colma di oblio: nell’anima è già presente tutta la conoscenza necessaria, deve solo essere risvegliata bevendo l’acqua della Memoria …
“L’armonia delle Muse e gli strumenti di tutto
prima fece avere Mnemosyne e non si mostrò,
ma il tempo consumò e nascose con la dimenticanza.
Ora le arti, i discorsi, le leggi e tutte le opere che sono state realizzate,
ogni cosa è stata salvata per gli uomini grazie al ricordo.”
(Orph. fr. 297 Kern)
Daphne Varenya Eleusinia