Improbabile parallelismo tra unificazione tedesca ed unificazione italiana
Nella retorica risorgimentale, tra i vari “miti”, c’è ogni tanto qualcuno che, sulle orme di Plutarco, traccia le “vite parallele” di Bismarck e Cavour. Sostanzialmente, chi si lancia in questa operazione, sostiene che:
1) La Prussia fu detta “Piemonte di Germania”
2) Bismarck ebbe Cavour come modello.
Ma è vero questo? Di recente (2009), tutti i luoghi comuni sul parallelo tra Prussia e Piemonte, tra Bismarck e Cavour, sono stati ripresi da Gian Enrico Rusconi ((Gian Enrico Rusconi, “Cavour e Bismarck. Due leader fra liberalismo e cesarismo” – Il Mulino, Bologna 2009, ristampa 2011)). Nel libro, Rusconi, pur non essendo quello il “nocciolo” della sua trattazione, rispolvera tutta la retorica risorgimentale sul parallelo tra l’unificazione italiana e quella tedesca, tra l’espansionismo prussiano e quello piemontese, tra Bismarck e Cavour. Si sostiene che i tedeschi “invidiavano” l’Italia perché aveva conseguito la sua unità, ma non si perita di indicare alcuna fonte a sostegno di tale affermazione, limitandosi a dire che “nei caffè” i tedeschi parlavano della raggiunta unità d’Italia auspicando che anche la Prussia trovasse il suo Cavour ed arriva a sostenere che i tedeschi invidiavano la Realpolitik di Cavour, che poi fu presa ad esempio da Bismarck quando divenne Capo del Governo. A sostegno di ciò, fa riferimenti generici e riporta le dichiarazioni di un esponente politico dell’epoca, come se l’opinione di uno e uno solo possa costituire quella che Aristotele chiamava ἔνδοξα ed i giuristi romani communis opinio. Viceversa, il dato è smentito, semplicemente, dalla pubblicistica dell’epoca. Basti pensare che:
1) Il termine Realpolitik è stato coniato dal pubblicista tedesco Ludwig August von Rochau in un libro del 1853 ((“Grundsätze der Realpolitik. Angewendet auf die staatlichen Zustände Deutschlands” (Principi di Realpolitik. Applicato agli stati di governo in Germania) – cfr. Angelo D’Orsi, “Prontuario di storia del pensiero politico” – Maggioli Editore – Sant’Arcangelo di Romagna, 2013)), in cui lo utilizza per indicare un tipo di politica che tiene conto della “realtà effettuale”, come avrebbe detto il buon Machiavelli (non a caso indicato dal Rochau come teorizzatore della Realpolitik). In questo saggio, Rochau non cita in alcun modo il nome di Camillo Benso come esempio di Realpolitik, indicando – viceversa – quale paradigma prossimo il grande Klemens Metternich. Anzi, nella ristampa del libro nel 1859, sostiene la necessità che la Prussia scenda in guerra contro il Piemonte a fianco dell’Austria, in funzione antifrancese ;
2) Il tedesco Heirich von Treitschke, grande ammiratore dell’Italia ed entusiasta della sua unità, scrive una biografia agiografica su Cavour ((“Il Conte di Cavour” – traduzione di Anselmo Guerrieri Gonzaga – Barbera, Firenze 1873)). È talmente entusiasta che afferma che l’Italia è stata consegnata “al suo figlio più illustre” (cioè Vittorio Emanuele II …). Il carattere agiografico della biografia si vede in ogni parola. Faccio un esempio: “La liberazione d’ Italia apparve sin dai primi anni il supremo scopo dei pensieri politici di Cavour. Egli aveva il sentimento storico dell’aristocrazia, sentiva sé e la sua casa strettamente legati allo Stato del Piemonte; è questo un privilegio della nobiltà, più volentieri riconosciuto dai democratici italiani che dai tedeschi. Era biondo e bianco di carnagione, come la maggior parte de’ suoi; nell’aspetto non avea di comune col pretto sangue italiano che il fuoco degli occhi; preferiva di parlare il francese; il suo italiano non ha mai potuto piacere al dilicato orecchio di un abitatore della Toscana” (ne ho solo un’edizione del 1873, tradotto da Guerrieri Gonzaga nell’italiano dell’epoca). Eppure … nonostante la sconfinata ammirazione, nonostante l’esaltazione di Cavour e di Casa Savoia ad ogni rigo del libro, non si sogna mai, neanche di sghimbescio, di tracciare un parallelo tra Cavour e Bismarck o di chiamare la Prussia “Piemonte di Germania”. Non solo, ma quando parla della situazione italiana nel momento in cui pubblica il libro (1869) scrive: “i difetti dell’unità italiana acquistata precocemente e con l’aiuto dello straniero sono a tutti palesi”.
Ma, indipendentemente dal “chi l’ha detto”, assodato che non è vero, non risulta da nessuna parte che Bismarck abbia avuto Cavour come modello, è sovrapponibile il caso Prussia-unità di Germania con il caso Piemonte – unità d’Italia? Per “capire” dobbiamo fare un passo indietro. Il Medioevo europeo aveva conosciuto due universalismi: il Papato e l’Impero, in lotta tra di loro, ed in lotta con i particolarismi locali (soprattutto i Comuni). Per grandi linee, senza addentrarci molto nei problemi, si può così sintetizzare. La guerra dei trent’anni (combattuta dal 1618 al 1648), trovò una situazione consolidatasi soprattutto a partire dal Rinascimento, per la quale il baricentro si era spostato dagli universalismi non ai particolarismi, ma ad un’entità intermedia (che gli storici fanno coincidere con il “regno”), onde con il trattato di Vestfalia che concluse la guerra, si prese atto della situazione: anche giuridicamente, gli stati come si erano formati fino alla guerra dei trent’anni ebbero il loro riconoscimento (per il diritto feudale anche il re era vassallo dell’Imperatore). La situazione della guerra dei trent’anni è molto più complessa, si sta esaminando ciò che interessa per l’argomento di questo lavoro. Sennonché, alla fine del XVIII secolo, si fa strada un’idea; che a formare quegli stati sia stata un’entità, che viene chiamata “Nazione”, rispolverando, in un’accezione del tutto nuova, un termine che già era utilizzato (qualche decennio prima era stato utilizzato dal Vico), e vengono versati fiumi d’inchiostro per cristallizzare questo nuovo concetto, a partire da Johann Gottfried Herder, che attacca pesantemente Federico il Grande che ritiene troppo “francese”, rivendicando – viceversa – il ruolo della “nazione tedesca”.
In Germania questa idea si fa strada rapidamente, dalle “lezioni filosofiche” di Schlegel ai “Discorsi alla Nazione Tedesca” di Fichte. Dilaga la dottrina del “pangermanesimo”, dell’unione di tutti i popoli “tedeschi”. In Italia trova strada prima tra i poeti (Alfieri e Foscolo in particolare), poi tra i pensatori. La teoria dilaga, anche se i teorici non si mettono propriamente d’accordo sull’esatto contenuto del termine “nazione”. In Germania prevale il criterio “etnico”, altrove quello culturale, anche se Manzoni, partecipando al coro, dice che l’Italia è Una d’armi, di lingua, d’altare, di memoria, di sangue e di cor, quindi adottando – tra gli altri – il criterio etnico quale identificativo di una nazione. Viene adottato da Savigny il termine Volkgeist, lo “spirito del popolo”, già coniato da Hegel, che sarebbe il comune denominatore della Nazione. Viene – soprattutto – per quello che interessa il nostro discorso – distinta la Kulturnation, cioè la Nazione in senso proprio, dalla Staatnation, cioè la Nazione che si fa Stato. E, verticalizzando il vecchio Grozio, si afferma che è diritto “naturale” dei popoli quello di creare gli Stati che rispecchino le identità nazionali. In realtà, a mio avviso, non è la nazione che crea lo Stato, ma è lo Stato che crea la Nazione. Gli Stati di Vestfalia erano diventati “Stati Nazionali” perché il Principe aveva creato l’identità nazionale (intendo “Principe” nel senso di autorità statale: Svizzera e Province Unite – l’Olanda attuale – erano repubbliche), ma teniamo le opinioni separate dai “fatti”. Fatto sta che con l’idea che la Nazione abbia il “diritto naturale” di far coincidere Stato e Nazione dal 1821 in poi si assiste alle “rivoluzioni nazionali”. La guerra d’indipendenza greca vede partecipare volontari da tutta Europa. E qui s’inseriscono gli espansionismi di Prussia e Piemonte, che hanno – appunto – come sostrato ideologico il “diritto naturale” del popolo tedesco e del popolo italiano di avere uno “Stato” che coincida con la “Nazione”.
Detto questo, cerchiamo di capire se il processo di unificazione tedesca e quello di unificazione italiana siano tra di loro sovrapponibili, come sostiene Rusconi. Vediamo – innanzitutto – le analogie.
1. Hanno come sostrato ideale due Weltanschauungen sostanzialmente sovrapponibili;
2. Sono state entrambe realizzate mercé l’espansionismo di uno degli stati preunitari.
Però, le analogie finiscono qui.
Innanzitutto (e qui esprimo solo una mia opinione), il pangermanesimo è una dottrina che ha qualche fondamento storico. Solo per tacer d’altro, il Sacro Romano Impero dal 1512 si chiamava “della Nazione Germanica” (in tedesco Heiliges Römisches Reich Deutscher Nation), utilizzando – quindi – il termine “Nazione germanica” già 2 secoli e mezzo prima di Herder. Viceversa, il concetto di “nazione” italiana, prima del XIX secolo, è solo letterario e ideale (ne parla Dante, ne parla Machiavelli), non ha mai avuto alcun riscontro “politico” concreto, se si eccettua il tentativo di Ladislao di Durazzo all’inizio del XV secolo. Intendiamoci, anche il pangermanesimo ha i suoi momenti ridicoli. Ne accenno solo uno. Si diffonde il culto di Herman (l’Arminius dei romani, tra l’altro “adattando” il nome al tedesco moderno – il vero nome era Armin o Irmin), che sconfisse Varo nella selva di Teutoburgo. Non solo si celebra per “vittoria” (a Teutoburgo) ciò che fu un vile agguato, ma … contemporaneamente ad Armin, si celebra come eroe nazionale Etzel (il nostro Attila), un asiatico venuto dalle steppe che sottomise i discendenti di Armin … Misteri del nazionalismo ottocentesco …
Altra differenza è nel ruolo avuto dal “motore” dell’unificazione. La Prussia era stata una delle punte di diamante delle coalizioni antinapoleoniche (erano state le truppe prussiane di Gebhard Leberecht von Blücher a condurre l’azione decisiva nella battaglia di Waterloo); il prestigio derivante dalle vittoriose guerre napoleoniche era stato consolidato dalla vittoria del 1866 contro l’Austria e da quella del 1870 contro la Francia. Il Regno di Sardegna, al contrario, fu travolto dall’armata napoleonica e la Casa Regnante rientrò sul trono dopo molti anni di esilio grazie alla vittoria delle coalizioni dalle quali fu per lo più estranea (fecero parte – del tutto nominalmente – soltanto nella prima e nella settima); le “vittorie” contro lo “straniero” nel 1859 e nel 1866 furono dovute praticamente agli alleati (la Francia nel 1859 e la Prussia nel 1866 – ecco il significato della frase di Heirich von Treitschke citata sopra). Ma la profonda differenza è il modo in cui l’unità venne realizzata. Quando fu proclamato il regno d’Italia:
1. Fu il regno di Sardegna a cambiare nome, non fu creata una nuova entità giuridica. La legge istitutiva del Regno si compone di un solo articolo e recita: “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia”. Quindi, è il re di Sardegna ad assumere il titolo di “Re d’Italia”, non è creato un regno ex novo, tanto è vero che mantiene la numerazione (II) che aveva come re di Sardegna ((Nella seduta parlamentare di approvazione della legge, il milanese Giuseppe Ferrari, dopo una lunga digressione storica, arriva ad affermare: “Mantenete il titolo di Vittorio Emanuele II; questo titolo, dovendo pur avere un significato, dichiarerà che Vittorio Emanuele è passato da uno Stato maggiore ad uno minore; che più stima la sua Savoia per metà perduta, che non l’intera Italia”))
2. Fu estesa a tutto il neonato regno la legislazione del Regno di Sardegna (fece eccezione il codice leopoldino per l’ex granducato di Toscana);
3. Furono praticamente “azzerate” le autonomie locali dapprima con l’adozione del sistema prefettizio e poi con il corpus iuris del 1865 ((cfr. Salvatore Lupo, Introduzione a “L’Unificazione Italiana, Mezzogiorno e guerra civile”, Donzelli, Roma 2011))
Viceversa, dopo la sconfitta degli austriaci del 1866, la Prussia divenne leader della Confederazione degli Stati tedeschi del Nord, in cui tutti gli Stati conservavano la loro autonomia ed INSIEME, eleggendo un Reichstag, crearono una legislazione comune su alcuni punti. Nel 1867 fu varata una Costituzione (cioè, non fu estesa la costituzione prussiana agli altri Stati) e furono stabilite le “materie” su cui aveva competenza il Reichstag e quelle su cui avevano competenza i singoli Stati. Dopo la guerra franco – tedesca, nel 1871 gli stati tedeschi meridionali aderirono alla confederazione dando vita ad uno Stato federale, ancora una volta varando una nuova Costituzione. Viceversa, restò in vigore quale Grundnorm del Regno d’Italia fino alla Costituzione Repubblicana lo Statuto Albertino del 1848, costituzione “ottriata”, cioè “concessa” dal Re al regno di Sardegna ((Il preambolo dello Statuto Albertino recita: “Con lealtà di Re e con affetto di Padre Noi veniamo oggi a compiere quanto avevamo annunziato ai Nostri amatissimi sudditi …”)) . Altro che invocare un “Garibaldi tedesco”, come sostiene Rusconi!
Un’altra fondamentale differenza è la politica economica dei due Stati dopo la conseguita unità. Il regno d’Italia adottò una politica fiscale oppressiva ((cfr. Guido Pescosolido, “Agricoltura e industria nell’Italia Unita”, Laterza, Roma/Bari 2004)), diretta a favorire alcuni particolari ceti, “impose” la moneta piemontese quale moneta del nuovo regno, nonché i cambi di essa con le “vecchie” monete ((La decisione di adottare la lira come moneta unica del non ancora nato Regno d’Italia fu presa a Palazzo Loup a Loiano, sull’Appennino tosco emiliano (attualmente ricompreso nella città metropolitana di Bologna) il 28 settembre 1859, nel corso di un incontro segreto tra Bettino Ricasoli, Carlo Luigi Farini, Marco Minghetti, Rodolfo Audinot e Lionetto Cipriani. Dell’incontro parlò all’epoca il “Monitore Toscano” del 12 ottobre 1859 ed è menzionato in una targa commemorativa a palazzo Loup, che – però – fa menzione solo dell’abolizione delle barriere doganali)), in modo del tutto svantaggioso per i possessori delle “vecchie” valute; non ebbe alcuna politica sociale. Viceversa, la fiscalità della Germania unita fu “leggera”, lasciando ai singoli Stati della confederazione di adottare ognuno la politica fiscale che riteneva più adatta al proprio popolo; adottò l’unità monetaria non della Prussia (tallero), ma di Amburgo (marco), “negoziandone” il cambio con i singoli Stati e adottando un abbandono progressivo delle vecchie valute; sul piano sociale, Bismarck attuò fra il 1881 e il 1889 il primo sistema previdenziale al mondo, che servì da modello per tutti gli altri paesi. Nel 1883 istituì l’assicurazione contro le malattie e nel 1884 quella contro gli infortuni. Nel 1889, infine, realizzò un progetto di assicurazione per la vecchiaia. Da tutto quanto detto, ritengo che parlare di Prussia come “Piemonte di Germania” sia assolutamente improprio.
Detto questo, è possibile un parallelo tra Bismarck e Cavour? Vediamo i due personaggi. Un aristocratico che disprezzava il sistema democratico, pur utilizzandolo per i suoi scopi il Bismarck, un massone che credeva nel sistema democratico il Cavour. Ma è – soprattutto – nell’azione di governo che le differenze sono sostanziali. Bismarck fu uomo di Stato nel senso più “alto” del termine. Salus reipublicae suprema lex era la sua stella polare. Le mire espansionistiche della Prussia non erano fine a sé stesse, ma s’inserivano in un disegno politico generale sugli equilibri dell’Europa intera. L’orizzonte politico di Cavour non si stendeva al di là dei confini piemontesi. Anche la Crimea, Plombières, ecc., non furono visti in un’ottica generale di assetti europei, ma solo in funzione di assicurarsi una “copertura” europea ai disegni espansionistici piemontesi ((Tutto ciò, accogliendo integralmente la retorica risorgimentale sul “grande tessitore”, indipendentemente dal fatto che le fonti storiche smentiscono un disegno preordinato di Cavour, che a Plombières si trovò in un gioco più grande di lui e fu solo abile ad approfittare della convergenza degl’interessi piemontesi con quelli di Francia e Gran Bretagna – cfr., in merito, Carmine De Marco, “Revisione della Storia dell’Unità d’Italia”, BookBaby 2011)). Bismarck seppe tenere rigidamente separata la politica dagli affari, vigilò sulla politica creditizia delle banche, e tenne rigidamente separato il mondo delle imprese dal mondo bancario, impedendo con legge ogni commistione. Nei suoi rapporti con Bombrini, invece, Cavour, attuò la commistione tra politica e affari, affidando all’Ansaldo appalti che si dimostrò incapace di realizzare, ricorrendo a cessioni dei contratti; permise la commistione tra banche e imprese, mediante le doppie partecipazioni di Bombrini alla Banca di Genova ed all’Ansaldo; creò un meccanismo perverso di “triangolazioni” finanziarie Ansaldo – Banca di Genova – Stato – Rotschild – Hambro per il quale il Regno s’indebitava con l’Ansaldo, che era a sua volta indebitata con la Banca di Genova; il Regno si faceva prestare i soldi dalla Rotschild, saldava l’Ansaldo che a sua volta saldava la banca di Genova, poi la Banca di Genova si faceva finanziare dalla Hambro ed infine prestava i soldi al Regno che saldava la Rotschild. È possibile tracciare le “vite parallele” di un gigante della politica europea che ebbe in politica interna il fine di evitare le commistioni tra politica e affari, tra banche e imprese, paragonandolo a chi non riuscì mai ad allargare i propri orizzonti al di là dei confini piemontesi ed inaugurò quella commistione tra politica e affari e tra banche e imprese che ancora ammorba la vita pubblica italiana?
No, con buona pace di Gian Enrico Rusconi, parva non licet componere magnis.
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