Questa rubrica dedicata alla tematica delle nostre origini è molto condizionata dalle novità che al riguardo offre di volta in volta il web. Questo è ovvio, direi. Occorre tenere sempre presente che ci confrontiamo con un sistema propagandistico-mediatico dove è continuamente presente la menzogna “di stato” (in realtà non si tratta dello stato, ma di un sistema internazionale profondamente pervaso dalle menzogne della democrazia), essa pervade i media, la carta stampata, le istituzioni scolastiche e accademiche, solo il web, per sua natura difficile da controllare (ma non è escluso che prima o poi non si arrivi a censurare anche “la rete”), rimane uno spazio in cui almeno per ora è possibile trovare un’informazione effettivamente libera, non piegata e plagiata dal sistema.
Di volta in volta le cose possono variare, e questa rubrica riflette l’eterogeneità delle cose che si presentano. Come vi ho fatto notare più volte, la tematica delle origini si può suddividere in una molteplicità di ambiti a seconda di quanto si decide di risalire indietro nel tempo. Noi ne abbiamo individuati almeno quattro: le nostre origini come italiani di ceppo romano-italico, le nostre origini come civiltà europea, come popoli indoeuropei caucasici, e infine le origini stesse della nostra specie homo sapiens. Come avrete notato, nella trentottesima parte, sempre basandoci sulle informazioni e sulle novità fornite dal web, ci siamo concentrati sul primo e sul quarto di questi ambiti, escludendo per così dire la fascia mediana, e anche stavolta dovremo procedere nello stesso modo.
Io non vorrei che la mia fosse una vanteria, ma pare che questa rubrica e le cose che di volta in volta scrivo su “Ereticamente” stiano ottenendo un notevole seguito nei nostri ambienti. In particolare, stando alle reazioni che ho potuto verificare, sembra che nella trentottesima parte io abbia toccato un punto veramente nodale, riguardo al quale si sentiva la mancanza di una trattazione seria e onesta, la questione delle nostre radici romane-italiche.
Il legame che giustamente sentiamo con il mondo europeo e indoeuropeo non deve indurci a dimenticare o a non tenere nella debita considerazione la nostra specificità in quanto romani e italici, come discendenti di una civiltà che al suo apogeo è giunta a unificare sotto di sé tutto l’ecumene antico.
Fra le reazioni suscitate da questo articolo, vorrei citarvi un commento molto ampio e di generale apprezzamento dell’amico Ettore Malcagni, e soffermarmi su di un punto solo apparentemente marginale. Come ricorderete, avevo messo in luce “la stranezza” di una narrazione storica sul periodo romano quale è quella che ci fanno i media ufficiali, che ricordano sempre i rovesci di Canne e di Teutoburgo o le fasi finali della decadenza dell’impero, con il collasso determinato dalle invasioni barbariche, come se Roma avesse potuto costituire un impero esteso dalla Siria alle Isole Britanniche accumulando solo sconfitte.
Riguardo al celebre episodio di Attila “fermato” da papa Leone I, Ettore scrive:
“Gli Unni che erano i più potenti dei popoli che ambivano a conquistare l’Italia furono sbaragliati ai campi Catalaunici dal grande Ezio, Attila invero ci riprovò un anno dopo ma con i resti di quello che era il suo esercito e quando incontrò il Papa, a sole sei ore di marcia si trovavano le legioni fresche di Ezio tornato rapidamente in Italia da Costantinopoli”.
“L’azione” del papa è dunque stata notevolmente sopravvalutata da parte degli storici che nel corso dei secoli hanno avallato e continuano ad avallare l’interpretazione ecclesiastica di questo episodio.
Un particolare di importanza solo apparentemente marginale, che apre un discorso di portata ben più ampia, l’azione di surroga che il potere ecclesiastico esercita da due millenni in qua, di un’autorità civile il più delle volte assente o impotente/sottomessa. C’è solo un piccolo dettaglio: il confine fra la surroga e l’usurpazione è quanto mai labile. E’ un discorso che si morde la coda, infatti, la mancanza per un lunghissimo arco di secoli nella storia italiana di un potere civile, oppure il fatto che esso era rappresentato da un dominatore straniero, si deve proprio all’usurpazione ecclesiastica, alle arti e al peso di un’autorità presentata come religiosa ma usata per fini politici, allo scopo di tenere l’Italia divisa e permettere la sopravvivenza dello staterello papale.
Scusate, ma su questo punto mi sembra che sia impossibile insistere troppo, né per la verità insistere abbastanza. Finché pensiamo che il cristianesimo sia qualcosa di “nostro”, tanto più che coincida con le “nostre” tradizioni, saremo inevitabilmente su una strada sbagliata.
Il 23 dicembre 2016, in occasione del solstizio d’inverno, la nostra Cristina Coccia ha pubblicato su facebook questo estratto del La rivoluzione pagana di Luca Lionello Rimbotti del 2006, su cui vi invito a meditare:
“Riandare al paganesimo, riaprirsi al politeismo dei valori, reincentrarsi nel relativismo e nel particolarismo delle forme etniche, reimmergersi nei flussi geo-storici che sono la fonte dell’appartenenza, significa re-integrarsi nella propria storia, nella sacralità del proprio suolo, nella comunanza di stirpe. Significa custodire un bene che non è proprietà, non è un possesso, ma dono proveniente dalla catena genealogica che crea l’affinità, un bene che è reciprocità di arricchimenti spirituali, culturali, materiali, da condividersi con gli eredi solidali del destino della comunità. l’istinto dell’appartenenza etnica proviene dalle più insondabili profondità delle stirpi”.
Paganesimo significa prima di tutto appartenenza etnica, spirito identitario, sangue e suolo, laddove cristianesimo significa cosmopolitismo.
Come vi ho detto, questo articolo avrà una struttura “a ponte” così come lo ha avuto la trentottesima parte, cioè passeremo dal considerare la nostra realtà storica di italiani alle questioni relative alla nostra più remota origine preistorica. Così va il web. I nostri prossimi articoli avranno probabilmente un taglio diverso.
Vi ho parlato più volte dell’ottimo lavoro compiuto dall’amico Michele Ruzzai con il suo gruppo facebook “MANvantara”, ma preferisco non citarlo anche per non creare doppioni, e rimandarvi direttamente alla lettura degli interessanti articoli che “MANvantara” ospita (ce ne sono anche di miei che rovinano un po’ la cosa, abbiate pazienza!). Stavolta però sarà il caso di fare un’eccezione.
Recentemente (fine dicembre 2016), il nostro Michele ha pubblicato una sua recensione del testo Manuale di preistoria, paleolitico e mesolitico di Daniela Cocchi Genik, edito nel 1993 dall’Assessorato alla Cultura del comune di Viareggio.
Ve ne riporto uno stralcio:
“Pag. 63: L’autrice ricorda le ipotesi di Peyrony che attribuì i diversi fenomeni culturali dell’Aurignaziano tipico e del Perigordiano – entrambi comunque riferibili al Paleolitico Superiore – anche a distinti tipi umani.
Pag. 173: Peyrony riunì l’Aurignaziano inferiore (o Castelperroniano) e quello superiore in un unico complesso che definì Perigordiano e che collegò all’uomo di Combe-Capelle, mentre l’Aurignaziano tipico ritenne fosse attribuibile all’uomo di Cro-Magnon.
Pag. 175-176: La cultura dell’Aurignaziano è documentata su un’area molto vasta (dall’Atlantico al Don) e presenta tratti fortemente omogenei; sembra essere alloctona rispetto alle zone di attestazione e probabilmente va collegata alla diffusione di Homo Sapiens Sapiens”.
Vi è chiara l’importanza di questo tipo di discorso? Denis Peyrony, a cui la Cocchi Genik fa riferimento, era uno studioso di preistoria, deceduto nel 1954, che ha espresso delle posizioni abbastanza isolate, cercando di mettere in correlazione le diverse culture litiche coi diversi tipi umani preistorici attestatici dalla paleoantropologia. Se ci pensate bene, è una posizione piuttosto inconsueta, perché sembrerebbe, guardano la maggior parte degli studi preistorici, che abbiamo a che fare da un lato con l’evoluzione fisica umana, dall’altro con un processo in cui strumenti generano altri strumenti quasi senza l’intermediazione di un artefice umano.
Questa non è altro che l’applicazione alla preistoria di quel “principio” della democrazia che vede “la cultura” e l’eredità biologica come due realtà del tutto separate ed estranee, e ritiene che la prima possa procedere per conto proprio senza essere strettamente legata alla seconda, cioè esattamente il contrario di tutto ciò che ci rivela la conoscenza reale dell’uomo concreto, storico o preistorico che sia.
La notizia più sorprendente di questo periodo di fine 2016, tuttavia non viene dall’Area. Un collaboratore di “MANvantara” ha pubblicato nel gruppo proprio il 25 dicembre un articolo su di una scoperta fatta in una grotta che non è esattamente quella della natività, ma la fonte è “La Repubblica” del 25 maggio. Un team di archeologi francesi dell’università di Bordeaux guidati da Jacques Jaubert avrebbe individuato all’interno della grotta di Bruniquel nella Francia meridionale la più antica costruzione architettonica conosciuta, un doppio cerchio di stalagmiti all’interno dei quali venivano forse accesi dei fuochi. La fotografia di questo doppio cerchio di stalagmiti della grotta di Bruniquel è appunto l’immagine che correda il presente articolo.
Le concrezioni depositate sulle stalagmiti dopo la loro collocazione artificiale dimostrerebbero che la costruzione ha 176.000 anni. In Europa all’epoca non c’erano homo sapiens, non esistevano proprio. Gli autori della costruzione non possono essere stati altro che gli uomini di neanderthal.
“Il fatto che gli anelli siano stati realizzati con pezzi di dimensioni simili”, hanno spiegato i ricercatori francesi, “indica che la costruzione è stata progettata attentamente”. Non solo, spiega Francesco D’Errico, archeologo italiano che lavora presso il CNRS di Bordeaux, “Per illuminare la grotta e lavorare per ore sotto terra non basta un tizzone, ci vogliono torce molto efficienti”.
La costruzione infatti si trova a 366 metri di distanza dall’entrata della grotta, il che porta a escludere che fosse semplicemente un rifugio o che gli uomini che l’hanno eretta si fossero spinti fin lì semplicemente alla ricerca di cibo. La spiegazione più probabile è che lo scopo della costruzione fosse di natura rituale-religiosa. Una scoperta che ci induce a comprendere come il mondo di questi nostri lontani progenitori fosse ben più complesso di quel che ci eravamo finora immaginato.
A questo punto io provo una tentazione fortissima: quella di mettere in correlazione questa precoce creatività dimostrata dai nostri antenati neanderthaliani con quel surplus di creatività che caratterizza l’uomo europeo e gli ha dato modo di generare civiltà superiori, cosa che nell’Africa subsahariana non è mai avvenuta, infatti è accertato che nel nostro DNA abbiamo l’1-2% di geni riconoscibili come di origine neanderthaliana che invece nei neri africani sono del tutto assenti.
Questo 1-2% può sembrare molto poco, addirittura irrilevante, invece è tantissimo. La maggior parte del nostro genoma, infatti, ci individua come organismi pluricellulari, animali, metazoi, vertebrati terrestri, mammiferi, primati, si pensi che solo l’8% di esso si differenzia da quello dello scimpanzé.
Vi allego anche la ricostruzione del volto di un bambino di neanderthal, un’immagine che da sola fa giustizia di tante ricostruzioni fantasiose che ancora oggi pullulano nei testi di preistoria nei quali questi nostri progenitori sono raffigurati come dei bruti scimmieschi. Francamente, dispiacerebbe averlo nel nostro albero genealogico (e in effetti ce lo abbiamo) molto meno di tanti ceffi che oggi l’immigrazione porta nelle nostre strade.
Di passata, vorrei ricordare un articolo già apparso nel 2014 su un sito di sinistra, “Wolfstep”, Dialettica e propaganda di Uriel Fanelli, dove si parlava proprio dell’uomo di neanderthal, e l’autore l’aveva scritto precisamente allo scopo di sconsigliare i compagni dal ricorrere ad argomenti di paleoantropologia per “contrastare i razzisti”, perché alla luce delle scoperte più recenti, questi finiscono per trasformarsi in autentici boomerang dal loro punto di vista:
“Nessuna delle argomentazioni prodotte per contrastare i razzisti è integra. Nessuna e’ più efficace. Nessuna funziona più. E’ possibile, assolutamente possibile, che continuando a ricostruire i tasselli della specie umana salti fuori quel che molti sospettano sempre di più e sempre più spesso”.
Soltanto che tutto quello che circola nel web non lo leggono solo “i compagni” e, detto in tutta franchezza, ADORO quando si danno la zappa sui piedi.
Altro che “madre Africa” secondo una locuzione cara a sinistrorsi e antirazzisti, madre Europa, potremmo dire, che già poco meno di duecentomila anni fa aveva imboccato la strada che ha portato alla realizzazione di civiltà superiori.
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