Il rasoio di Occam populista
Quello che sembra sfuggire alle analisi di sociologi e politologi, e che è a monte dell’insorgenza populista c’è il cortocircuito ed il successivo smottamento della società “solida” e la prevalenza, provocata dalle stesse oligarchie, del mondo “liquido”. La scomparsa di Zygmunt Bauman, il sociologo anglo polacco ebreo inventore del fortunatissimo aggettivo per descrivere la post modernità stimola ad una breve analisi. La contemporaneità non si è liquefatta per caso, o per opera di forze astratte. Il processo è stato pensato, orientato, guidato, imposto dalle élite apolidi – meno dunque di cosmopolite! – a loro agio nei non luoghi descritti da Marc Augé, arroccate nei grattacieli direzionali delle grandi corporazioni finanziarie ed industriali multinazionali, ed affidato per la pratica esecuzione ad un clero secolare, quello degli intellettuali addetti all’educazione, alle accademie, all’industria culturale, mediatica e dell’intrattenimento. Ceti dominanti oggi profondamente, ancorché un po’ confusamente, disprezzate dalla grande maggioranza degli altri, le vittime della nuova condizione liquida.
In questo senso, lo sciame individuale di solitudini che proprio Bauman ha dipinto come figuranti dell’universo liquido (amore, politica, patria, morale, sesso, famiglia, lavoro, luogo e progetto di vita), comparse dell’ “omogeneizzazione” sono, almeno in parte, una profezia che si autoavvera per l’azione coordinata di ambienti e poteri cui la casta degli intellettuali di servizio ha fornito armi culturali, copertura ed assenso. Bauman ha rappresentato, nelle sue origini, nella sua vita, nelle scelte compiute e persino nell’aspetto fisico, il tipico intellettuale “deraciné”, lo sradicato pallido e febbrile che sradica a sua volta. Polacco di nascita, di ascendenza ebraica e cognome tedesco, poco interessato alla dimensione spirituale dell’uomo, marxista e quasi certamente collaboratore dell’apparato repressivo del regime comunista polacco, poi emigrato in Israele, per lunghi decenni docente in Inghilterra, paese di cui adottò la cittadinanza e la lingua, il sembiante emaciato ed apparentemente debole dello studioso. Una specie di idolo della Generazione Erasmus.
Il populismo si sviluppa come istinto reattivo al mondo “liquido” voluto ed amato dalle oligarchie. Esso è dunque una protesta, un sommovimento sismico della tramontata modernità solida, il vecchio mondo, che non sopporta l’assenza di punti di riferimento né possiede gli strumenti per un’esistenza liquida. Sussiste e persiste un bisogno naturale di radicamento, di identità, come capì Simone Weil in mezzo alle tragedie del secondo conflitto mondiale, ma anche di sovranità, autogoverno dei popoli e di socialità concreta, una domanda di comunità inevasa e lancinante come solo la nostalgia sa essere.
In quest’ottica, è innegabile che uomini e popoli siano stati mortificati dalla globalizzazione che ha spazzato via ogni ostacolo travolgendo idee, credenze, modi di vivere antichi, come la pesca con le reti a strascico imprigiona ogni forma di vita che incontra e distrugge progressivamente la fauna marina. Gli uomini, i popoli vogliono decidere qualcosa di ciò che li riguarda, non riescono più ad accettare, dopo averli visti all’opera, poteri oscuri, minacciosi e lontanissimi. La vecchia formula per rabbonire le masse, panem et circenses degenera l‘esistenza nel soggettivismo più cupo e nel criterio unico del prezzo.
Se è vero che i problemi della contemporaneità sono quelli dell’ardua gestione di mille complessità, che colpa hanno l’uomo e la donna della strada se non riescono a cogliere i nessi, le forzature, le torsioni di una società che non è in grado di padroneggiare neppure chi l’ha voluta? Forse le élite, chiamiamole così per non dare un giudizio di merito preventivo, hanno volato troppo in alto, magari hanno evocato e chiamato a raccolta, come Prometeo, forze che non erano in grado di dominare. Ma il popolo non c’entra, talora è stato ammesso allo spettacolo come pubblico pagante (il consumatore), più spesso è stato vittima o donatore di sangue. Adesso odia chi l’ha imbrogliato vendendogli a caro prezzo illusioni, bugie, finto progresso. E se la modernità ha prodotto su larga scala un tipo umano cinico e nichilista fra i peggiori della storia umana, i colpevoli stanno nel pantheon illuminista ed in quello marxista, come sempre uniti nella lotta.
La metafora del rasoio di Occam, francescano inglese del XIV secolo, esprime il concetto che sia opportuno, dal punto di vista metodologico, eliminare con tagli di lama e mediante approssimazioni successive le ipotesi più complicate. Il principio può essere formulato come segue: entia non sunt multiplicanda prater necessitatem, non si devono moltiplicare gli elementi più del necessario. Siete voi illuminati ad aver indotto in confusione i popoli, i quali reagiscono con normali riflessi: o vita o morte, o giusto o sbagliato, amico o nemico, come insegnò un grande come Carl Schmitt, da voi inascoltato. C’è di più: i popoli non odiano le oligarchie in quanto tali, tutto sommato ne comprendono la necessità, istintivamente hanno un’idea rozza ma veritiera della legge ferrea delle élite formulata da Roberto Michels nel 1921. Ciò che detestano è l’inadeguatezza, l’incapacità delle classi dominanti, unita alla rapacità ed all’arroganza. E’ allora che scatta la ribellione, che non è ancora aperta rivolta per l’antica abilità di chi sta in alto a dividere i propri avversari. Ma siamo molto vicini al ritorno di un’antica, popolarissima contrapposizione, quella tra i “produttori” e gli altri, che ridiventano, con seri elementi di verità, parassiti, sfruttatori, imbroglioni, demagoghi.
La ragione populista
Per quanto detto, ha parzialmente torto Cas Mudde a considerare debole ed insufficiente il centro ideale del populismo. Aleksandr Dugin chiama il nucleo fondante delle grandi teorie politiche “circolo ermeneutico”. Ebbene, il circolo ermeneutico, il nocciolo duro del populismo sta, tautologicamente, nella parola stessa, ovvero nel popolo. Lo studioso olandese ha tuttavia buone ragioni di nutrire perplessità: definire che cosa sia, chi rappresenti, quali sentimenti e principi evochi il termine popolo, è estremamente complesso, e si scontra con un aspetto della questione inquadrato molto bene da Nicola Matteucci, ovvero l’ansia di semplificazione, di ridurre a formula, non di rado l’elementarità delle passioni e pulsioni evocate, il manicheismo difensivo dell’intento populista. Infine c’è la frammentazione, la polverizzazione di ogni popolo, tenacemente perseguita,ora lo sappiamo con certezza, a fini di dominio.
La risposta più convincente, sfrondata dalla pesantezza del marxismo in salsa sudamericana, l’ha fornita Ernesto Laclau, un filosofo argentino scomparso nel 2015, autore di un libro, La ragione populista, tradotto anche in Italia, ma passato in sordina, presumiamo per la difficoltà di catalogare l’autore in una precisa categoria di pensiero. Sulle tracce di Antonio Gramsci, Laclau afferma che sottostante al populismo, anzi ragione fondamentale che ne può determinare la fortuna, è la ricerca, la costruzione del popolo e della sua coscienza. Ne parleremo nell’ultima parte dell’elaborato. Sin qui, premeva inquadrare il fenomeno, sottraendolo alle banalizzazioni della polemica quotidiana della politica più bassa e del giornalismo corrivo.
Se esiste, come riconosce Laclau, una “ragione populista” è perché non può vivere e sopravvivere l’uomo ad una dimensione teorizzato da Herbert Marcuse e neppure il semplice homo consumens, entrambi passeggeri individuali con posto ad una piazza, turisti casuali della vita, alienati in un senso ben più profondo di quello compreso da Marx, prigionieri del feticismo della merce ma più ancora di un universo neppure più liquido, ma vaporizzato, gassoso. Se l’esito è quello che vediamo, non ne trattengono i mille lati le legioni di “esperti” addetti al problema, malgrado algoritmi, modelli matematici e tecnologia. Così, moltissimi sono diventati populisti, o vengono accusati di esserlo, e questa, assicurano i sapienti, è una brutta cosa. Il problema di lorsignori è che hanno fornito loro stessi una causa, e si sono costituiti come nemico. Un grave errore, giacché per certificare l’inimicizia basta la volontà di uno: l’altro, noi, si limita a prendere atto, ed il populismo appare così il nemico del nemico.
I popoli, pur divisi in tribù incomunicabili reciprocamente ostili (José Ortega y Gasset), dissanguati, deprivati di sé, hanno riflessi di vita. In mezzo al guado, sentono come una mancanza intollerabile la fine del mondo di ieri (Stefan Zweig), che era spesso quello di sempre e l’unico che conoscessero, con il suo tessuto conviviale, la sua vita “vernacolare”, ossia non del tutto sottomessa alla logica del contratto e all’economia di scambio monetario, dai ritmi più lenti e in cui era possibile riconoscere il bene ed il male, distinguere l’amico dal nemico, “noi” dagli altri. Un mondo di nuovo ricco di opportunità, oltreché di complessità, quello odierno, certo, ma l’uomo ha bisogno anche di semplicità e sicurezza, e se ogni colore ha infinite sfumature, il bianco non sarà mai nero, e la menzogna non può trasformarsi di un balzo in verità.
Gli uomini avvertono il bisogno di un senso comune, forse è improprio o insufficiente chiamarlo buon senso, o legge di natura, ma le generazioni non possono vivere da orfane. E’ durissima per i singoli, non può funzionare per i popoli. Il cosiddetto populismo, dunque, è una risposta, un riflesso naturale, un gesto di difesa e di ritorno, persino una risorsa per una democrazia che la smetta di officiare i logori riti in cui finge di credere.
L ‘ ipotesi populista tra comunità, identità e socialità.
Di seguito cercheremo di rintracciare e recuperare le ragioni dell’identità, della sovranità e della socialità soffocate e negate, come il desiderio di appartenenza e comunità, valori ed istinti antichi quanto l’uomo, fondamenta del pensiero occidentale che le oligarchie stanno terminando di smontare pezzo per pezzo, con il metodo della decostruzione, per utilizzare il lessico di un pensatore tra i più negativi dell’ultimo mezzo secolo, Jacques Derrida, un altro brillante “deraciné”, ebreo di origini spagnole nato e cresciuto ad Algeri e poi vissuto in Francia.
L’attacco sferrato contro le ragioni populiste, dicevamo, nasce da un timore degli oligarchi, quello della saldatura tra proteste diverse, ma compatibili. Da un lato, quella con fondamento e base sociale, legata a motivazioni socio economiche, la povertà diffusa, la precarizzazione lavorativa, la forbice delle diseguaglianze che si allarga in maniera francamente intollerabile. Dall’altro, c’è la protesta più temuta, quella dei ceti medi e della piccola borghesia. Intanto, per questioni di numero: le società moderne (e quelle post moderne, liquide) sono formate in maggioranza da chi si sente ceto medio e medio basso. Ma il vero rischio con cui si deve confrontare il nemico oligarchico è la prevalenza dei fattori politici su quelli economici nell’ipotesi populista. Non basta qualche mancia distribuita a questo o quello, perciò hanno paura e giocano tanto sporco.
I popoli, istintivamente, naturalmente, credono nell’esistenza di leggi di natura e l’idea di Aristotele che l’uomo sia un animale sociale è un caposaldo della saggezza condivisa. L’eccesso di individualismo, il costruttivismo sociale esasperato che fa delle legislazioni la palestra per ribaltamenti drammatici del sentire comune destano sospetto, rancore, ansia, opposizione. Al contrario dell’uomo uscito dalla caverna di Platone, il quale si rende conto di non aver osservato che ombre scambiandole per la realtà, l’individuo liquido della globalizzazione vive tra le ombre e le confronta con il tempo in cui viveva in un universo più piccolo, ma chiaro, familiare, solido e tutt’altro che nemico o incomprensibile. Lo hanno sradicato dalla sua famiglia, ma risente il lancinante bisogno del padre, guida, giudice, accompagnatore e istruttore sul sentiero della vita; si vede privato della Patria natale, poiché bisogna essere perennemente con la valigia in mano, tutto in un trolley e la casa in nessun luogo, pronti a “cogliere le opportunità” dovunque si presentino. Gli hanno ucciso anche Dio, ma senza trascendenza, non solo tutto è permesso, ma come scrisse Heidegger, l’esistenza è un vivere per la morte, un’agonia tollerabile solo inventando paradisi artificiali.
No, l’uomo preferisce sicurezze più banali e la “sua” casa, la “sua” terra, la “sua” gente, il “suo” Dio significano moltissimo, gli aggettivi possessivi mio e nostro hanno un senso ed un valore intensamente morale, con buona pace dei marxisti e degli zingari dell’anima. Uomini e popoli che non riconoscono più il giardino di casa, che non riescono più a distinguerlo da quello altrui, o lo vedono occupato da nuovi venuti, attraversato, sfigurato da modi di vita estranei e sconosciuti, prima o poi reagiscono. Vogliono vivere a modo loro, perché è quel modo che amano e riconoscono. Riconoscere, insieme con il riflessivo riconoscersi, sono verbi importantissimi del vocabolario populista. L’identità che si smarrisce è, appunto, perduta.
L’uomo non ragiona sui secoli, ma sul tempo della propria esistenza e di quella dei suoi figli, gli unici di cui veramente gli importi. I filantropi, anzi, sono personaggi di cui istintivamente diffida, così come non comprende lo slancio di alcuni nei confronti dei lontani e sconosciuti, rispetto all’indifferenza per i vicini. Anni fa, Jean Marie Le Pen espresse il concetto con una frase molto criticata, anzi coperta di moralistico disprezzo, ma che la gente comune sente come storia della propria vita. “Amo i miei figli più dei miei nipoti, i miei nipoti più dei miei cugini, i miei connazionali più degli stranieri, chi parla la mia lingua più di quelli di cui non so comprendere le parole.”
E’ la comunità, l’acqua in cui si nuota, ma è vietato pensare naturale. Se siamo espropriati dell’identità, siamo più poveri e più soli. Non a caso l’unica terapia consigliata, anzi imposta dal nemico è il consumo, insieme con l’abbandono agli istinti. Freud banalizzato e rivisitato dal nipote Edward Bernays, l’inventore della persuasione occulta, più la cloaca francofortese, l’uomo monade solitaria unidimensionale che si libera spogliandosi di tutto e si consegna, nudo, al fluire del mondo. Follie di intellettuali probabilmente malati, che in altre epoche sarebbe state assorbite dal corpo sano, e poi respinte tra le bizzarrie e le eccentricità. Oggi sono moneta corrente, e la trasgressione è prescritta come nuova quotidianità. Adesso, se una ragazzina non accetta certi comportamenti alla moda, è respinta dal gruppo con l’epiteto più sanguinoso, “suora”. Salvo magari ringraziare l’ultima religiosa rimasta in circolazione, corsa in aiuto di qualche sventurata fatta uscire dai circuiti della svendita di sé, della perdita di dignità, dalla dipendenza da sostanze o stili di vita che non si ha più il diritto di definire come il male.
Allo stesso modo, noi non siamo capaci di accettare la lontananza siderale, l’opacità assoluta dei centri di potere. Saremo ignoranti, inadeguati, incapaci di afferrare le intricate dinamiche del tempo che ci è toccato in sorte, ma siamo abbastanza perspicaci da prendere atto che il governo nazionale si è convertito in macchina fiscale e repressiva che prende ordini senza fiatare da qualcun altro. Nel caso italiano ed europeo, due organismi hanno gettato la maschera ed appaiono per quel che sono, apparati onnipotenti e nemici: l’Unione Europea e la Banca Centrale. La sovranità è sfumata, la maggioranza non sa neppure chi detenga il potere vero, ma ha capito di non contare nulla, come persone, come popoli, nelle formazioni sociali. Ci cantano le lodi della democrazia, ma non è chiaro se è sia un metodo, una formula, un luogo comune o che altro. Sappiamo però con certezza di essere “soggetti passivi”, quelli che devono pagare il conto.
Il populismo grida, magari con voce stridula, toni enfatici e senza il bon ton richiesto in salotto, che il popolo viene prima della democrazia, la rappresentanza politica non vale un soldo bucato se non rappresenta noi, ma se stessa e, sempre, qualcun altro. Segnala altresì, lo spettro populista che si aggira per le strade, che prima vengono i fatti, la sostanza, e dopo, molto dopo, le procedure. Ci parlano di “legalità” come di una cura per tutti i mali, ma i più sanno, sulla propria pelle, che le carte in regola non bastano e non servono. Avere ragione non vale nulla, se nessuno ce la darà. La forma, nelle democrazie moderne, non solo nella prassi politica, ma nel rapporto con la giurisdizione, con i poteri privati e pubblici, predomina sulla sostanza. Nessuno è più padrone dei fatti suoi, vivere in pace è impossibile, le istituzioni hanno sempre una legge, un timbro, una procedura, un pezzo di carta legale, legalissima, da far valere contro di noi.
L’aveva compreso bene Pierre Joseph Proudhon, che credeva nell’autogoverno, nella cooperazione e nel principio federativo, e pagò con il carcere e l’odio degli stessi socialisti scientifici ed ortodossi l’insofferenza nei confronti dei grandi costrutti teorici e delle burocrazie. Chiamava furto la proprietà quando diventava dominio sulla vita concreta delle persone. Al tempo delle concentrazioni finanziarie e produttive, della privatizzazione del mondo mediante espropriazione generale, dell’arrogante dittatura degli esperti, il tipografo autodidatta di Besançon ci parla ancora, più forte e più chiaro, e si capisce meglio il senso dell’avversione nei suoi confronti da parte della destra benpensante e della sinistra intellettuale massimalista.
La parte del popolo
Il problema, sembra un paradosso, è il popolo. E’ un’ovvietà, un truismo scrivono i colti, ma senza non ci può essere alcuna idea che ad esso si richiami. Questo spiega la ragione per cui il nemico lavora tanto accanitamente a dissolvere il concetto di popolo e, naturalmente, i popoli concreti, in carne ed ossa. I metodi li conosciamo, è appena il caso di ribadirli: distruzione del senso comune e comunitario, svalutazione delle credenze condivise, religiose e civili, picconate contro la famiglia, esaltazione di ogni soggettivismo, proibizione di mantenere un’idea di bene e di male, costruzione di quartieri ghetto in cui deportare ampi strati della popolazione (Zen, Scampia, Corviale, davanti ai quali la viennese Karl Marx-Hof è una benedizione divina), migrazioni di massa con evidenti caratteri sostitutivi, stigmatizzazione morale e criminalizzazione del dissenso identitario e “sociale”, a partire da una vera e propria polizia del pensiero, sottrazione dei figli all’influenza delle famiglie – tempo pieno, gite, indottrinamenti vari – precarizzazione ed insicurezza del posto di lavoro presentato come fenomeno naturale, esortazione a farsi “imprenditori di se stessi” per distruggere la solidarietà ed i vincoli di colleganza, vita alla giornata,“on the road”, tanti Zampanò solitari senza Gelsomina e l’umanità dolente della strada, porte aperte e vantaggi alle rivendicazioni di ogni minoranza per segmentare il popolo, ridurlo in strati, vasi non più comunicanti, bande in competizione.
L’argentino e marxista Ernesto Laclau ha fornito un arsenale di idee che riscatta definitivamente il populismo. Innanzitutto, egli afferma con forza che il populismo è un elemento costitutivo del pensiero politico, non un’idra, come sostengono i suoi nemici liberali, o una fenice, cioè un’illusione di breve durata. Laclau capì – il suo debito con Antonio Gramsci è evidente – che è sempre in corso una guerra per l’egemonia, ed i popoli hanno il dovere di lottare per conquistarla. Nella sua visione, il populismo non è demagogia o deprecazione, ma lo strumento politico per intervenire con maggiore forza nel dibattito pubblico e conquistare potere reale. E’ il meccanismo attraverso cui settori marginalizzati della società si costituiscono ed alleano, fanno sentire la loro voce, gettano nella pattumiera della retorica la finta religione dei diritti umani e lottano per ottenere un controllo popolare sulle sorti comuni, economia, valori, futuro. La nuova definizione di popolo diventa allora “chi non fa parte delle élite” e libera un forte sentimento antioligarchico.
In seconda battuta, anche il popolo non è qualcosa che è dato una volta per sempre, ovvero un’utopia plastica, manipolabile a piacimento dall’individualismo liberale dominante, ma una specie di assemblaggio, un’alleanza che si costruisce tra diversi settori definibili sia in termini socio-economici sia culturali, attorno ad un’idea principale. Diversamente dal pensatore neomarxista, noi pensiamo che l’idea dominante non sia la sola redistribuzione della ricchezza materiale, ma la rivendicazione della sovranità, popolare e nazionale, ovvero l’orgoglio del comando su se stessi, l’autonomia ed il potere di progettare e realizzare il futuro comune in base allo spirito, alle tradizioni, ai modi di essere del proprio popolo. Su tutto, l’idea di comunità e la dignità morale, pratica e finanche religiosa del lavoro che fu del fascismo italiano e della dottrina sociale cattolica, ma che risale allo stesso Proudhon. “Il lavoro è il primo attributo, il carattere essenziale dell’uomo. L’uomo è lavoratore, vale a dire creatore e poeta: emette delle idee e dei segni; rifacendo la natura, egli produce dal suo intimo, vive nella sua sostanza.”
E se l’uomo è lavoratore, è animale sociale, politico e morale, fa parte di un certo popolo e di una specifica cultura, vive con altri uomini secondo ritmi, consuetudini e norme che non possono calare dall’esterno e dalla violenza di ideologie di dominio. Non può, non deve esservi sottratto, né possono essere recise la sue radici. Egli ha diritto alle radici, non può essere trasformato in canna al vento, meccanismo, migrante per fame o migrante della vita, uomo più la valigia più la libertà di avere, meno la famiglia, meno l’amicizia, meno l’ appartenenza, meno la sicurezza, meno la libertà di essere. Anche questo forse è populismo. Se è un male, ce ne faremo una ragione, non sarà peggiore del “bene” che viviamo; se è un errore, sarà solo uno sbaglio in più nelle nostre storie personali e collettive. Ma la ragione populista esiste, e non ci verrà espropriata da una banda di oligarchi. Loro odiano i popoli in quanto hanno la forza di cacciarli: dobbiamo stare dalla parte dei nemici del nostro nemico.
Roberto Pecchioli (2 — fine)
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