Ogni falso pensier non vede l’essere
Che l’arte dà, quando natura invola
FILIPPO DI SER BRUNELLESCO
Colui che desiderasse contemplare ancora una volta la dissipata aura della rinascenza fiorentina del Quattrocento, locus mentis oggi assai più remoto del corrispettivo tempo storico, potrebbe con buon profitto prendere congedo dal frastuono cittadino per ritirarsi all’interno di quella che fu la cappella privata del palazzo mediceo di via Larga((Per una introduzione allo spartito architettonico e decorativo della cappella si veda Acidini Luchinat, “La Cappella medicea attraverso cinque secoli”, in G. Cherubini / G. Fanelli (a cura di), Il palazzo Medici Riccardi di Firenze, Firenze, Giunti, 1990, pp. 82-97; a seguito degli articolati e complessi restauri del 1988-1992, diretti dalla medesima Autrice, è oramai di fondamentale importanza il volume a cura di Ead., Benozzo Gozzoli. La Cappella dei Magi, Milano, Electa, 1993 [con bibliografia]; per un’approfondita indagine storico-iconografica dei temi simbolici in essa impliciti si vedano anche: F. Cardini, La cavalcata d’Oriente. I magi di Benozzo a palazzo Medici, Roma, Tomo, 1991; Id., I re Magi di Benozzo a Palazzo Medici, Firenze, Mandragora, 2001.)). Sulle pareti di questo mirabile scrigno segreto Benozzo di Lese istoriò, a partire dal 1459, l’etereo affresco del Corteo dei Magi, sorta di caleidoscopico talismano ove il consueto soggetto dell’adorazione del Messia a Betlem appare misticamente riletto e trasfigurato alla luce di capitali eventi storici quali furono il Concilio di Firenze del 1439 e la caduta di Costantinopoli del 1453((Il Concilio fu inaugurato nel 1438 a Ferrara dal pontefice Eugenio IV, con lo scopo di ricostituire l’unione della Chiesa d’Occidente con quella d’Oriente, a quell’epoca sotto la costante e grave minaccia turca. In seguito al subitaneo scoppio di una pestilenza, “[…] Cosimo [di Giovanni de’ Medici] riuscì a convincere Eugenio IV (per riguardo soprattutto alle vuote casse della Curia) a trasferire la sede del concilio […] a Firenze, con notevolissimo vantaggio economico, spirituale e morale per la sua città” (C. Gutkind, Cosimo de’ Medici il Vecchio, Firenze, Marzocco, 1940, p. 199 [ed. orig. Oxford, 1938]). Ed invero si trattò di un evento di cardinale importanza per le future sorti d’Europa, i cui effetti a lungo termine si spinsero ben oltre i crismi ufficiali della solenne quanto effimera riunione delle chiese Greca e Latina: esso difatti sancì (solo pochi anni avanti la presa di Costantinopoli) l’esponenziale incremento di quella capillare migrazione culturale da Bisanzio a Firenze già da lungi promossa e perseguita in primis dallo stesso Cosimo, che rientrato nel 1434 dal suo esilio veneziano aveva con discrezione preso nelle sue mani le redini del governo cittadino (cfr. ibidem, cap. VII). Per riferimenti generali e particolari (anche bibliografici) ci limitiamo a segnalare rispettivamente E. Garin, Il ritorno dei filosofi antichi, Napoli, Bibliopolis, 1994; J. Gill, Il Concilio di Firenze, Firenze, Sansoni, 1967 [ed. orig. Cambridge, 1959].)) (Fig. 1).
La compiutezza regale della pittura, con i suoi ori, i suoi argenti, le sue lacche di lapislazzuli e di carminio, dà luogo ad un insieme ordinato di impareggiabile equilibrio estetico, simile ad un tappeto di meravigliosa complicazione: immersa nelle pieghe di un vivido paesaggio fiorentino dai tratti arcani e fiabeschi, la processione di alti dignitari italiani e bizantini viene ad essere armonicamente scandita dall’augusta presenza dei tre magi che, fasciati nelle loro pregiate vesti, si stagliano sullo sfondo in sella alle loro ornate cavalcature((Talune tra le più felici e minuziose descrizioni del paesaggio naturale e dei singoli personaggi che lo animano sono fornite da G. B. Benvenuti, Gli affreschi di Benozzo Gozzoli nella Cappella del palazzo Riccardi, Firenze, Galletti & Cocci, 1901. A proposito di giudizi descrittivi ci limitiamo a segnalare qui che non possiamo affatto seguire l’egregio André Chastel quando, in riferimento alla cappella affrescata, accenna ad una non ben precisata “[…] dispersione narrativa del Gozzoli” (Arte e Umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico. Studi sul Rinascimento e sull’umanesimo platonico, Torino, Einaudi, 1964, p. 246 [ed. orig. Paris, 1959]).)). Ai due Magi in età adulta, nelle sembianze dell’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo (Melchiorre)((Rispetto alla consueta identificazione del Mago anziano con il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II, ricalcata pure da Chastel (ibidem, pp. 245-246) e, più recentemente, da Silvia Ronchey (L’enigma di Piero, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 104-106), è oramai senza dubbio da prediligersi la veridica ipotesi interpretativa di M. Bussagli a favore di Sigismondo di Lussemburgo (“Il Corteo dei Magi di Benozzo Gozzoli in palazzo Medici Riccardi a Firenze: identificazione di un imperatore”, Art e Dossier, VII, 67, 1992, pp. 6-15), formulata sulla base di notevoli corrispondenze fisionomico-iconografiche provenienti da Pisanello e da Piero della Francesca. Giova inoltre segnalare che un ulteriore apporto iconografico fornito dalla citata Ronchey (op. cit., tavv. 62, 64, 67, 69) per suffragare l’identità del Mago col patriarca, va invece proprio ad adiuvandum della tesi di Bussagli, sulla cui fondatezza hanno dovuto convenire Cardini (I re Magi…, cit., pp. 30-32) e, seppur indirettamente, C. Acidini Luchinat (Benozzo Gozzoli…, cit., p. 43). Volendo brevemente far cenno della figura dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo (deceduto nel 1437), rammentiamo che, dopo aver promosso il Concilio di Costanza (1414-’17: fine dello Scisma d’Occidente), venne incoronato re d’Italia da Eugenio IV (1432), per avere poi negli ultimi anni parte attiva nelle premesse politiche dell’imminente concilio della riunificazione. Segnaliamo poi, last but not least, che Sigismondo appare nell’unico documento figurativo, a tutt’oggi noto, che narri i fatti conciliari, ovvero la bronzea “Ianua Coeli” commissionata da Eugenio IV a Filarete per la Basilica di S. Pietro (cfr. P. Castelli, “Veni Creator Spiritus. Da San Giorgio a Santa Maria Novella: immagini conciliari”, in Firenze e il Concilio del 1439. Convegno di studi, Firenze, 29 novembre-2 dicembre 1989 (a cura di P. Viti), Firenze, Olschki, 1994, t. I, pp. 289-316: 293- 295).)) (Fig. 2) e dell’imperatore di Bisanzio Giovanni VIII Paleologo (Baldassarre)((In questo caso la consueta identificazione del Mago in età virile col Basileus (deceduto nel 1448) è suffragata da un’ampia testimonianza iconografica, nella quale spiccano i disegni e le medaglie di Pisanello (per lo status quaestionis in merito rinviamo a Ronchey, op. cit., tavv. 87-105 e passim).)) (Fig. 3), fa riscontro un giovanissimo “Mago fiorentino” dalla bionda e fluente chioma: Lorenzo di Piero di Cosimo de’ Medici (Gaspare)((La figura del giovane Mago, ritratto allegorico dell’allora dieci-undicenne Lorenzo, rappresenta (come si vedrà meglio innanzi) il punto di massima polarizzazione simbolica dell’intero spartito decorativo, venendosi concettualmente a trovare al centro di un ipotetico quinconce ai cui opposti estremi si collocano e si corrispondono vicendevolmente da una parte Melchiorre e Baldassarre, e dall’altra i committenti e fruitori primi dell’opera stessa: Cosimo e Piero de’ Medici, nitidamente effigiati al seguito di Lorenzo (Fig. 5) (C. Acidini Luchinat, “La ..”, cit., pp. 86-87): vedasi APPENDICE A.)) (Fig. 4). Ritratto “Ritto in staffe, pulcro e peregrino”((Cod. Magliab. VII, 1121: Terze Rime in lode di Cosimo de’ Medici e de’ figli e dell’Honoranza fatta l’anno 1458 (sic) al figl.° del Duca di Milano ed al Papa nella loro venuta a Firenze , apud G. Volpi, Le feste Di Firenze del 1459. Notizia di un poemetto del sec. XV, Pistoia, Libreria Pagnini, 1902, p. 22.)) nel costume di foggia orientale indossato in quello stesso 1459 nel corso della memorabile armeggeria di Calendimaggio((La spettacolare armeggeria notturna del primo di maggio fu solo l’ultima attrazione di un ricco programma di celebrazioni e festeggiamenti allestito a Firenze sul finire di aprile del 1459, per onorare la presenza tra le mura cittadine di due ospiti illustri quali papa Pio II, diretto a Mantova ad una dieta da lui convocata con lo scopo di indire una crociata contro i turchi, e Galeazzo Maria Sforza, il quindicenne figlio del duca di Milano Francesco Sforza, stretto alleato di casa Medici, inviato dal padre ad ossequiare il pontefice (per una trattazione completa di questi eventi rinviamo al citato opuscolo del Volpi). A proposito degli armeggiatori un’anonimo cronista racconta: “A guisa di mazzocchio una ghirlanda / di scaglie d’ariento adorna e bella / Con penne d’or che su diritte manda // Avea ciascun d’intorno alla pianella, […]” (ibidem, 22), descrizione che si attaglia a pennello al copricapo indossato da Lorenzo nell’affresco, consistente in un “[…] turbante decorato di «quarti disposti alla turca» che si vede in capo anche al Paleologo” (A. Chastel, op. cit., p. 246).)), il giovin cavaliere incede elegante, assorto, sereno, in certo qual modo presago del suo futuro destino di reggitore di stato, di «filosofo re», che di lì a poco gli sarebbe valso l’appellativo di Magnifico((Per comprendere come codesta “magnificenza” vada rettamente intesa nel senso di una soverchia generosità e magnanimità, si veda W. Roscoe, Life of Lorenzo de’ Medici called The Magnificent, London, David Bogue, 1846, 33-34 (con rispettive note).)). Illuminate dalla grazia coloristica del loro artefice, le terse simmetrie della composizione sembrano convergere e rifrangersi, quasi more geometrico((Come avremo cura di dimostrare in APPENDICE B, la figura equestre del Magnifico risulta essere collocata in maniera notevole rispetto alle scompartizioni armonico-proporzionali della parete est, la sola giunta intatta sino a noi, essendo miracolosamente scampata alle ingiurie del tempo e degli uomini)), proprio nella figura e, segnatamente, nel volto dell’adolescente cavaliere “Giovan di tempo e vecchio di sapere”((Ricordi di Firenze dell’anno 1459 di autore anonimo (a cura di Volpi), sta in L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo XXVII, parte I, 1907, p. 30, v. 1318.)), araldo di quella aristocratica compostezza che così bene esprime l’indole di quei tre primi signori di casa medici ivi effigiati((Quest’arte della litote, del “minus dicere” di cui Cosimo fu maestro (e di cui il figlio Piero ed il nipote Lorenzo sarebbero stati discepoli non meno degni) è racchiusa nel vocabolo italiano sprezzatura: “Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore; è il tempo […] nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino, infallibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta” (C. Campo,
“Con lievi mani”, in , Il flauto e il tappeto, Milano, Rusconi, 1971, pp. 123-142: 126).)).
Ed in virtù di questa modulazione lenta, delicata, solenne, saremo inesorabilmente condotti ad apprezzare l’affresco come un insieme omogeneo, a percepirne l’intimo respiro al di là delle singole ripartizioni, o sia a coglierne l’essenza al di là del tema((“Essentia est id quod per definitionem rei significatur” (S. Th. Aqu., De ente et essentia, II). In merito al rapporto tra essenza e tema, rimandiamo alla seguente riflessione di Pavel Florenskij: “La perfezione artistica della poesia, della musica e via dicendo non consiste forse nel fatto che il loro contenuto sovralogico supera incommensurabilmente, pur senza distruggerlo, quello logico? In quanto lingua degli spiriti, essa è percepibile alla percezione non ancora raziocinante di un bambino molto più che a quella di un adulto” (P. A. Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati (a cura di N. Valentini e L. Žák), Milano, Mondadori, 2003, p. 122 [ed. orig. Moskva, 1992]).)). Avendo così rivolta l’attenzione a ciò che nella metafora dell’arte riveste l’alto magistero di portare (fero) più in là (meta) il senso degli elementi concreti((“Quando una metafora viene verificata, ciò significa che i cosiddetti eventi si muovono verso la propria essenza […]” (H. von Doderer, “Fondamenti e funzione del romanzo e pagine dal diario di uno scrittore” (a cura di Contini), L’Approdo letterario, XIII, 37 (N. S.), 1967, pp. 16-29: 18).)), abbiamo potuto scorgere un riflesso del noumeno nel fenomeno, essendo risaliti col pittore “a realia ad realiora” (Vjaceslav Ivanov) nell’iperuranio di quelle idee metafisiche le quali (in quanto entia realiora) sono simboleggiate dalle nostre realtà sensibili((Sulla dialettica intercorrente tra oggetto simboleggiato e simboleggiante si veda E. Zolla, “Simbologia”, Enciclopedia del Novecento Treccani, Roma , Istituto della Enciclopedia Italiana, 1982, pp. 539-550: 539.)). Ben si apponeva Cristina Campo ad individuare nella somma facoltà dell’attenzione, “[…] cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure”((C. Campo, “Attenzione e poesia”, in Ead., Fiaba e mistero e altre note, Firenze, Vallecchi, 1962, pp. 61-67: 63.)), il filo d’Arianna verso il mondo degli universalia: “Come il gigante dalla bottiglia, dall’immaginazione l’attenzione libera l’idea, poi di nuovo raccoglie l’idea dentro l’immagine […]. Essa opera una scomposizione e una ricomposizione del mondo in due momenti diversi e ugualmente reali”((Ibidem, p. 65.)).
Ci arride così, attraverso l’idea, la visione dell’ ”altro aspetto del medesimo”((La felice locuzione è desunta da Murena “L’arte come mediatrice tra questo mondo e l’altro”, in Eternità e storia. I valori permanenti nel divenire storico (a cura dell’Istituto Accademico di Roma), Firenze, Vallecchi, 1970, pp. 464- 477: 465).)), ove ha luogo la comunione di codesti due differenti piani: e se il Corteo dei Magi offre del paesaggio fiorentino una raffigurazione delle più terse e limpide, ciò avviene proprio in funzione del suo essere stato trasposto sub specie aeternitatis((“Cognitio metaphysica penetrat in interiorem rerum naturam, & ipsum investigat fontem, ex quo omnia, quae de ente afferuntur, tanquam primo suo principio, fluunt: cum reliquiae species cognitionis humanae haud eo usque procedant” (J. Weiss, De natura animi et potissimum cordis humani, Stutgardiae, J. B. Mezleri, 1761, p. 1).)); se colline, coltivi, manieri, castelli sono stati riprodotti con fedele minuzia, essi si mostrano però al contempo assai diversi, manifestando nell’aspetto loro un chè di atemporale, arcano e fiabesco, vestigio visibile di un’ascendenza sovramondana((Ovverosia di un archetipo (universale) a cui è intonata una realtà fenomenica (particolare). Solo si rifletta sul seguente brano: “Profonde strade, rapide fra le case senza luce, dei poveri di Io le percorro ogni giorno, sono le strade del quartiere di San Frediano. Ma nell’affresco sono le Strade dei Poveri: Firenze o Gerusalemme, Roma o Palmira. E tuttavia non lo sarebbero se non fossero prima di tutto e fino all’ultima crepa le strade di San Frediano: dove ancora sembra fuggire, certe mattine d’inverno, l’ombra del ragazzo che saliva a quattro a quattro la gradinata del Carmine. Non conosco poesia universale senza una precisa radice: una fedeltà, un ritorno” (C. Campo, “Parco dei cervi”, in Ead., Fiaba e mistero…, cit., p. 22) e poi sull’aforisma goethiano: “Che cos’è l’universale? E’ un caso particolare”, non sarà chi non veda il senso ultimo del nostro ragionamento, ispirato ad una superiore coincidentia oppositorum che risolve la fondamentale antinomia di quell’atto conoscitivo in cui si trovano compresenti due proposizioni tanto logicamente incompatibili, quanto ontologicamente necessarie.)). Come è stato acutamente osservato circa la profonda «fiorentinità» di una siffatta rappresentazione naturalistica, il misterioso fascino promanante dalla campagna farebbe a tutta prima pensare che Benozzo avesse “[…] addirittura immaginato il paesaggio, cedendo magari all’esotismo suggerito dal soggetto, se frequenti non fossero […] le testimonianze scritte, e la stessa realtà che s’apre ai nostri occhi non ci persuadesse del contrario”((Rodolico, Il paesaggio fiorentino, Firenze, Le Monnier, 1959, p. 7. Mal si appone perciò Cardini (I re Magi…, cit., p. 37) quando, nel merito dell’affresco, individua nelle asprezze rocciose le peculiarità proprie di un paesaggio fiabesco, chè codeste corrispondono invece a puntino al tipico paesaggio di clivi e calanchi nei pressi delle tante cave d’arenaria macigno sparse attorno a Maiano, secondo illustra anche Rodolico alla fotografia n° 17 della citata sua opera.)).
Solo mediante la presa di coscienza di quest’aura((“[…] le cose si vedono realmente grazie alla loro qualità meno ottica, l’aura che le circonda, nella quale esistono” (H. von Doderer, cit., p. 13).)), di questa spissitudo spiritualis((Tale definizione, propria dei platonici di Cambridge, è concettualmente assai prossima (e non si tratta di un caso!) a quella di mundus imaginalis, coniata da Henri Corbin per definire, nell’ambito della mistica persiana, quel mondo dell’anima intermedio tra l’intelligibile e il sensibile (cfr. Corbin, “Che cosa significa tradizione? Attualità della filosofia tradizionale in Iran”, Conoscenza religiosa, 3, 1969, pp. 225-241: 236-237).)) che (platonicamente parlando) rende intelligibile il tutto nell’uno e nell’uno il tutto, sarà possibile una piena consapevolezza dell’essenza qualitativa della forma, “[…] analoga, nell’ordine sensibile, a quel che è la verità nell’ordine intellettuale: è quanto esprime la nozione greca di éidos”((T. Burckhardt, L’arte sacra in Oriente e in Occidente, Milano, Rusconi, 1976, 6 [ed. orig. Paris, 1958].)).
Conformemente a tale visione ontologica del concorso all’unità (id est: alla verità((“Come nella natura, che è bella solo per necessità reale, così anche nell’arte la bellezza è un soprammercato: è il frutto inevitabile della necessità ideale” (C. Campo, “Parco dei cervi”, , p. 22).))), osserveremo ancora come la decorazione del sacro sacello restituisca a chi la contempli una cognizione percettiva univoca, in cui un solo carattere uniforme permea tutto ciò che è contenuto nell’opera d’arte: effetto questo dovuto alla assoluta consonanza delle qualità sensoriali, attinenti al paesaggio naturale, con quelle spirituali, proprie dei moti interiori dei singoli personaggi((Affermazione questa del tutto in linea col significato primo della parola éidos (= forma, genere, idea), tra i cui sinonimi Esichio ( V ) cita vocaboli quali “vista”, “volto”, “sguardo” etc. (per l’intera questione del complesso rapporto tra mondo fenomenico e noumenico rimandiamo alle luminose intuizioni di P. A. Florenskij, Il significato dell’idealismo (a cura di N. Valentini), Milano, Rusconi, 1999 [ed. orig. Sergiev Posad, 1914]).)). Seguendo Hans Sedlmayr, l’intima unità tra oggetti appartenenti a sfere differenti si riduce alla reciproca concordanza di determinati attributi sensibili, detti «caratteri intelligibili», che sono analogicamente simili proprio in quanto espressione di un medesimo contenuto intellettuale posto al di là del processo creativo((Tali “caratteri intelligibili” (concordanti in quanto analogicamente simili), simboleggiano una medesima realtà sovrasensibile e sono individuabili, quando non solo indirettamente, attraverso una serrata elencazione di aggettivi, quale pure noi abbiamo cercato di attuare nella prima parte della stesura di questo saggio (si rimanda in merito a Sedlmayr, “Il legame fra visibile e invisibile nell’opera d’arte”, in Eternità e storia…, cit., pp. 243-248).)). Simbologicamente parlando, allora (ed è questa la nostra tesi), diremo che tali caratteri o forme formate sono rette da una forma formante archetipica, ovvero dal valore simbolico, qui identificabile con l’idea di serenità, di quiete((La quiete, sommo bene fra tutti secondo un sacro retaggio comune alle società arcaiche (cfr. Zolla, “La città perfetta”, L’Approdo letterario, XIII, 37 (N. S.), 1967, pp. 68-98: 69-70), è lo stato spirituale che presiede alle opere d’arte serene, che sono poi quelle in cui vi è maggior trasparenza verso “l’altro aspetto del medesimo”; nelle quali cioè “[…] si ottiene con maggior perfezione di fissare i residui dell’altro mondo” (H. Murena, op. cit., p. 466, nota 7).)).
Ma per apprezzare la simbiosi artistica in cui “[…] è eliminata la differenza esistente fra sensoriale, intellettuale e spirituale”((Sedlmayr, op. cit., p. 245.)), per comprendere l’avvenuta sintesi tra la componente naturalistica (lo sfondo) e la componente fisionomica individuale (la «persona»), dovremo di necessità fare riferimento ai due aspetti della questione analizzandoli separatamente, così da riuscire a dare pienamente conto dell’avvenuta loro fusione in una singola voce((Andremo perciò a verificare la corrispondenza tra due sfere esteriori nelle quali vige la stessa unità interiore.)).
Proseguendo quindi l’indagine conoscitiva nel solco di questa metodologia “intermodale”, e nella consapevolezza che “[…] secondo la visione spirituale del mondo la bellezza di una cosa non è altro che la trasparenza dei suoi involucri esistenziali […]”((T. Burckhardt, op. cit., p. 6.)), non desterà veruna meraviglia il ripetere con Florenskij che “Lo sguardo dell’uomo […] rimane sempre immutabilmente trasparente oltre il suo volto. Nel volto visibile c’è qualcosa che, sebbene non sia visibile, è molto più determinato di tutto quello che è visibile, una specie di invariante del volto”((P. A. Florenskij, Il significato…, cit., p. 130. )): tale invariante non è che l’idea, e “[…] l’idea è il volto del volto, ossia lo sguardo”((Ibidem, p. 136.)). E’ così che sul volto idealizzato del giovane Lorenzo, dai tratti marcatamente androgini (Fig. 8), brilla e rifulge la trasparenza del suo contenuto noumenico, del suo genere, ossia della nobiltà della stirpe medicea, da sempre votata ad una sobrietà e ad un equilibrio che ben si specchiano nella tranquilla sicurezza promanante da quel suo sguardo trasognato((Per l’ampia gamma di tematiche collegate all’androginia rimandiamo ad Zolla, L’androgino. L’umana nostalgia dell’interezza, Como, red edizioni, 1989 [ed. orig. London, 1980]. Trattando qui di seguito della fisionomia del giovane Lorenzo prenderemo, a ragion veduta, una parte per il tutto, dal momento che è proprio a partire dal suo sguardo che si irraggia nelle diverse personae del pannello quel senso di eloquente sospensione e di sovrana quiete che conferiscono il tono d’insieme all’intera opera. Lo stesso discorso, anche se in misura minore, può essere riproposto per le pareti sud ed ovest con Giovanni VIII Paleologo e Sigismondo di Lussemburgo quali epitomatori della totalità dei tratti fisionomici (vedi anche quanto detto sotto alla nota 39).)). E si comprende allora precisamente in qual senso l’androginia possa essere una meta interiore: “Verus nobilis non nascitur, sed nobilis est cunctus quam nobilitat sua virtus”, secondo la bella massima di Niccolò Cusano che così bene illustra le personalità dei tre grandi di casa Medici, maestri di una condotta di vita capace di “[…] conciliare l’attività empirica della politica con la propria elevazione spirituale, sì da fare di quella uno strumento o una espressione di questa”((E. Bizzarri, Il Magnifico Lorenzo, Verona, Mondadori, 1950, p. 301. Emilio Cecchi ebbe acutamente ad osservare come tutta la politica di Lorenzo, diretta prosecuzione di quella di Cosimo e Piero, avrebbe avuto “[…] questa chiarezza e coerenza di disegno, con questa eroica, quasi sprezzante leggiadria di esecuzione; e potrebbe dirsi che le virtù erano tutte dell’uomo, e la maggior parte dei vizi ed errori dipendeva dalle condizioni dei tempi” (E. Cecchi, Lorenzo il Magnifico, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1949; ora in Id., Firenze, Verona, Mondadori, 1969, pp. 104-121: 116).)). Si veniva ad ottenere in tal modo la congiunzione delle opposte polarità dell’anima, inverando quel reditus ad unum su cui riposa, nella realtà come nel ritratto, l’archetipo della quiete((A proposito di colui che a pieno titolo fu definito “l’ago della bilancia intra gli stati italiani” (Filippo Nerli), Marco Lastri annotava che “Nella Guardaroba del fù Alessandro Strozzi, sotto la Maschera Laureata del Magnifico Lorenzo, si leggevano questi versi: Morte crudel, che in questo corpo venne / Che quando venne il mondo andò sossopra, / Mentre ch’e’ visse tutto in pace il tenne” (M. Lastri, L’Osservatore Fiorentino sugli edifizj della sua patria (a cura di G. del Rosso), Firenze, presso Gaspero Ricci, 1821, t. II, p. 12, nota 1).)). “La riproduzione di uno sguardo umano in un ritratto”, puntualizza ulteriormente Florenskij, “è l’idea di questo determinato volto […]”((P. A. Florenskij, Il significato…, cit., p. 90.)), idea nella quale scorre la vita, e che nel suo essere “unità infinita” (Serapion Maskin) di momenti differenti sintetizza “[…] la non coincidenza fisionomica dei diversi fattori dell’espressione del volto”((B. Christiansen, La filosofia dell’arte, apud P. A. Florenskij, Il significato…, cit., p. 89.)), componendoli teleologicamente nella superiore armonia dell’opera d’arte((E’ proprio per evitare uno sterile e monocorde concettismo astratto e permettere la risalita nel mondo delle idee (“a realia ad realiora”) “[…] che il pittore differenzia l’espressione dell’anima e dà a un occhio un’espressione un po’ diversa rispetto all’altro, ed una ancora diversa espressione della bocca e così via […] Il motivo melodico principale del volto è dato dalla relazione reciproca tra la bocca e l’occhio. […] Nella forma della bocca si concentrano le emozioni e la tensione della volontà, negli occhi regna la quiete decisiva dell’intelletto. […] I ritrattisti disegnano in un occhio un arco meno teso rispetto all’altro. Danno ad entrambi gli occhi una diversa espressione emozionale; per questo uno dei due viene ulteriormente sottolineato con un accento e diventa il fine, perchè la relazione teleologica sia definita ed irreversibile. […] Allora il nostro sguardo scivola via incessantemente, staccandosi dal suo punto di quiete e trova stimoli sempre nuovi e domande che tornano a risolversi nel tono fondamentale dell’occhio. E nel suo ampio e tranquillo movimento avanti e indietro, esso raccoglie il ritmo della successione, delle tensioni e delle risoluzioni, delle promesse e del loro mantenimento, tutte cose che noi percepiamo come il quieto respiro di una vita sana” (ibidem, pp. 89-90). Questa lunga citazione risulterà giustificata dalla constatazione che quanto descritto si attaglia perfettamente al volto androgino di Lorenzo, come ognuno potrà verificare ad un confronto diretto dal vero, oppure con la riproduzione fotografica a grandezza naturale pubblicata da C. Acidini Luchinat in Benozzo Gozzoli…, cit., p. 83.)): “[…] così con la grandezza del ritratto cresce non solo la pienezza della sua vita, ma anche la fermezza della sua manifestazione e soprattutto la quiete del suo portamento”((Christiansen, op. cit.,, apud P. A. Florenskij, Il significato…, cit., p. 88.)), ottenendo la pienezza di quell’”affetto d’animo” di cui, secondo Cristoforo Landino, i fiorentini conoscevano il segreto((Cristoforo Landino, volendo indicare la profondità e la ricchezza di espressione “psichica” nella pittura, parla giust’appunto di “affetto d’animo”, di “liniamenti naturali” e di “vera proporzione”, attribuendo a Cimabue il merito della riscoperta di tali fondamentali nozioni dopo un lungo oblio; si veda in merito Landino, “Fiorentini excellenti in pictura e sculpitura” (proemio al Commentario alla Commedia di Dante Alighieri, 1481) apud A. Chastel, Marsilio Ficino e l’arte, Torino, Aragno, 2001, pp. 346-348: 346 [ed. orig. Geneve, 1954]. Ove sorgesse il dubbio che avessimo così deviato dalla linea teoretica del nostro ragionamento, questo sarà tosto fugato dalle parole che lo stesso Landino dedica a “Donato scultore […] pronto e con grande vivacità o nell’ordine o nel situare delle figure le quali tutte appaiono in moto […]” (ibidem, p. 348).)). A quanto esposto possiamo aggiungere con André Chastel che l’unione dei “[…] caratteri dei due sessi per trarne un «androgino», un essere ideale e delicato, più sensuale del putto e più grazioso dell’efebo”((A. Chastel, Arte e Umanesimo…,cit., p. 300.)) è stata ottenuta “[…]insistendo su quel carattere irreale che semb
ra di un altro mondo […]”((Ibidem, p. 301.)), allo scopo (aggiungiamo noi) di inverare quella metafora dell’arte il cui fine è, come già abbiamo detto, quello di trarre all’altro mondo.
L’archetipo della quiete, di cui il Corteo dei Magi offre un riverbero dei più limpidi e sovrani, fu la “tramontana stella” che orientò ab antiquo le facoltà espressive di un popolo secondo un ritmo, una cadenza già esistente in nuce nella morfologia dell’ambiente naturale. Il paesaggio, infatti, nel suo valore di immagine ideografica, reca necessariamente l’impronta del significato simbolico (come del suggello la cera)((In rispetto al fondamento dell’ideografia ogni segno grafico esprime un suo determinato concetto in base al sistema delle associazioni psicologiche collegate al concetto stesso (si veda A. Florenskij, “Il simbolario o dizionario dei simboli”, Conoscenza religiosa, 2, 1977, pp. 103-111).)): la linea orizzontale, denotante equilibrio, riposo, calma è connaturata all’assetto territoriale, onnipresente sino dall’era quaternaria prima come superficie d’acqua che racchiudeva il bacino di Firenze e poi, successivamente, nella pianura solcata dall’Arno quale componente soggiacente il disteso profilo di colli, poggi, crinali, che prima ancora di ospitare le originarie selve erano stati modellati dalla stratigrafia dei sedimenti lacustri((Cfr. F. Rodolico, op. cit., passim.)). Il plurimillenario rapporto tra l’Uomo ed una siffatta struttura naturale, “[…] quel genius loci che fin dai tempi remoti venne considerato come una realtà di altissimo significato”((C. Norberg-Schulz, “Il concetto del luogo”, in Eternità e storia…, cit., pp. 282-298: 292.)), è alla base di quel compiuto ordine del visibile in cui il paesaggio fisico e quello vegetale vennero sublimati nelle forme dell’architettura, che già prosperava ai tempi dell’etrusca Fiesole, quando ancora non biancheggiavano i marmi della fiorentissima Florentia((“Agli inizi tutte le arti e non solo quelle figurative operano contemporaneamente, sotto la guida dell’architettura. L’architettura diviene per queste una forza ordinatrice che le pervade tutte con il suo spirito tettonico, che è in ogni grande civiltà diverso nelle sue fasi” (H. Sedlmayr, Architettura, semantica e simbolo, Roma, Istituto Accademico di Roma, 1967, p. 11). Sulla cultura architettonica etrusca si veda A. Nardini Despotti Mospignotti, Della razionalità architettonica, Firenze, Tipografia Nazionale Italiana, 1853, lib. I, cap. VI, pp. 17-19; sulla fondazione di Firenze rimandiamo alle conclusioni di L. A. Milani, Museo topografico dell’Etruria, Firenze-Roma, Bencini, 1898, pp. 113- 124 (con le rispettive note alle pp. 163-167).)). A quell’epoca aurorale risale il sacro magistero dell’ars costruendi, tramandato di generazione in generazione nel rispetto di consuetudini edificatorie certe e costanti, rimaste vive ed attuali per decine di secoli nell’alveo di una tradizione conservatasi coerente all’autorità dei segni in cui vive((Desideriamo porre in evidenza che nel caso dell’architettura l’apporto di quel mosaico di valori detto “tradizione” è ancora più forte in ragione del suo essere non più frutto dell’invenzione legata all’hic et nunc del singolo autore, bensì la produzione corale di una comunità del cui patrimonio culturale condiviso il Magister viene ad essere il sapiente trascrittore. I nostri antichi progenitori avvertivano nella parola «autorità» il concetto di certezza: Autoritas, proveniente da Autos, medesimo, implica eminentemente il senso di medesimezza, costanza, inalterabilità di rapporti, ond’è che tale dovette essere il criterio primitivo e latente di ogni credenza vera e certa.)).
Un’immagine di questa campagna armoniosa e serena, imprescindibile trama all’ordito dell’umano agire, è ritratta al momento della sua massima integrità nella composita tessitura iconografica di Benozzo, che illustra ed è a sua volta illustrata dalle eloquenti parole scritte da Goro Dati agli albori del XV secolo: “Di fuori presso alle mura della Città sono bellissime abitazioni di cittadini con ornati giardini di maravigliosa bellezza; e il contado pieno di palazzi, e nobili abitazioni, e spessi di cittadini, che pare una Città; pieno di infinite e spesse castella; tutte le mura di pietra di terrazzani oltre a maraviglia, e non è un palmo di terreno d’attorno che stia ozioso, e per detta cagione conviene che sia il più fruttifero paese del mondo, e le migliori cose vi nascono che niuna altra parte”((G. Dati, Istoria di Firenze, Firenze, Giuseppe Manni, 1735, lib. VIII, p. 111 (è ovviamente superfluo ricordare come questa unità paesaggistica di un tempo che fu, sopravvivendo oggi solo a lacerti, sia da considerarsi irrimediabilmente compromessa).)). Le ville, i palagi, le case coloniche, i castelli, nelle loro architettoniche disposizioni vocate all’equilibrio, all’essenzialità e alla solidità del “buon murare”, col netto stagliarsi dei loro distesi profili su boschi e coltivi, denotano la ricerca di una espressività visiva di tipo bidimensionale, pittorica piuttosto che plastica; denotano l’esigenza di una nitida definizione spaziale del manufatto, da conseguirsi attraverso la chiarezza e la razionalità grafica delle linee di contorno, che ne precisano tangibilmente le matrici geometriche((Nelle sue deduzioni contro le pretese origini greche della pittura, il Nardini Despotti Mospignotti (op. cit., lib. I, cap. X, pp. 32-34) individua nella stessa Etruria la patria di elezione di quella “linea espressiva” tipica della cultura figurativa degli antichi Toscani, la cui definizione venne formulata da Plinio (Nat. Hist., lib. XXXV, cap.X) a proposito del pittore greco Parrasio.)). Fedeli allo “[…] spirito della consapevolezza etrusca, limite e ritegno al trasmodare di ogni vanità decorativa ed estetica alla esuberanza di tutto ciò che per ricerca di novità è inutile, superfluo o precario”((Lensi Orlandi Cardini, “La città delle ville”, introduzione a Id., Le ville di Firenze, Firenze, Vallecchi, 1965, t. I (di qua d’Arno), pp. IX-XXIV: IX.)), queste ataviche dimore, memori di origini che risalgono il tempo per decine di secoli, ricapitolano e ripetono il ritmo fondante dell’archetipo((“Ogni particolare della villa e del giardino si immedesima nel paesaggio che costituisce il ritmo, la cadenza fondamentale della sua armonia […]” (ibidem, X), ed infatti “[…] l’architettura etrusca ebbe […] una speciale predilezione per il tipo di abitazione a «sistema orizzontale»” (A. Gargana, “La casa etrusca”, Historia. Studi storici per l’antichità classica, VIII, 2, 1934, pp. 204-236: 236). Pure degne di nota ci sembrano le conclusioni di Romolo A. Staccioli, il quale, constatando che “[…] l’unico tipo di casa etrusca effettivamente documentato è quello estensivo a sviluppo orizzontale” (“A proposito della casa etrusca a sviluppo verticale”, in Atti del Convegno di studi sulla Città etrusca e italica preromana (estratto), Imola, Galeati, 1970, 129-133: 131), osserva come a tale peculiarità “[…] si adegua la stessa organizzazione urbanistica che, proprio a Marzabotto, ci presenta serie di lunghissimi isolati formati di edifici molto bassi che danno luogo […] a interminabili fughe di linee orizzontali” (ibidem, p. 132).)), la cui presenza soggiacente è rivelata dal seguente brano di Bernard Berenson, notevole per l’acume delle osservazioni: “A San Martino della Palma, uno dei rari luoghi della terra dove, con un tempo favorevole, si consegue il godimento di una perfetta armonia tra la natura e l’arte. La chiesa, con il suo portico a colonne, io la chiamo un rustico Partenone. E’ costruita con i più comuni materiali: pietra calcarea grigia e legno; ma le colonne si susseguono per spazi di così squisita misura e sono così delicatamente intagliate da produrre l’effetto di cornici per i quadri presentati dal paesaggio visibile tra l’una e l’altra. Anch’esso è un miracolo. Colline pienamente scolpite, di forma piramidale o almeno, in apparenza, triangolare, innalzantisi fin oltre i seicento metri dall’ultimo limite di una pianura perfettamente orizzontale. Il contrasto tra la pura geometria della pianura e il movimento delle colline, così come lo disegnano le lunghe linee dei loro declivi, procura un meraviglioso senso di riposo”((Berenson, Pagine di diario. Pellegrinaggi d’arte, Milano, Electa, 1958, p. 162 e tav. 127. Il citato passo ci offre un caso eclatante di quel processo ottico-visivo grazie al quale un fenomeno comune egemone (contesto orizzontale del paesaggio) risulta amplificato dall’antagonismo con un fenomeno particolare (andamento verticale dei clivi e dei colli); nel frangente testè descritto l’amplificazione è doppiamente sentita inquantochè le colonne verticali che “inquadrano” il paesaggio costituiscono un secondo antagonismo i cui effetti si vanno a sommare con quelli del primo (l’intera questione teoretica è trattata da P. A. Florenskij, “La legge dell’illusione”, Conoscenza religiosa, 2, 1977, pp. 118-129).)) (Fig. 9).
In questo complesso e serrato gioco di specchi tra realtà e realtà in figura (meglio: in pictura) abbiamo così verificato non solo l’identità delle sfere esteriori nelle quali si concreta l’affresco (quod erat demonstrandum)((La nostra dimostrazione si trova perfettamente in linea con la concezione neo-platonica dell’analogia tra macrocosmo e microcosmo (tema che già negli anni ’50 di quell’aureo Quattrocento rappresentava una dominante del pensiero di un giovane Marsilio Ficino): il corpo umano e l’ordine universale si corrispondono, sicchè il miracolo della bellezza che ci rapisce è l’Anima del mondo che affiora nel vultus umano così come nel volto della compagine naturale (cfr. Chastel, Marsilio Ficino…, cit., pp. 177-184).)), ma abbiamo altresì constatato la sua intima concordanza simbolica con quell’insieme di invarianti che caratterizzano la tradizione architettonica fiorentina, in merito alla quale non sarà fuor di luogo il trattenerci brevemente in una necessaria digressione.
Da quanto esposto sinora si può ben comprendere come il contado con il suo retaggio tradizionale, inteso nel suo profondo legame con la città, avesse dovuto svolgere nei confronti dell’identità della scuola fiorentina una funzione formativa e regolativa nel corso delle mutevoli vicende dei cicli storici((Intendiamo dire, in altre parole, che in mancanza di un siffatto rapporto di osmosi sarebbe assai arduo dare conto della genesi e della sopravvivenza di un complesso di costanti chiaramente individuabili e ricorrenti per un lasso temporale tanto lungo quanto ristretto è, di converso, l’ambito geografico ove esse si esplicano)). L’evidenza di una tradizione di pertinenza strettamente locale è leggibile a chiare lettere nelle pietre del Battistero di San Giovanni, realizzato nella principale sua struttura e decorazione in epoca paleocristiana, fra il IV e il V secolo della nostra era((Per l’esatta cronologia, così come per ogni altra questione inerente il Battistero faremo riferimento a: A. Nardini Despotti Mospignotti, Il Duomo di San Giovanni oggi Battistero di Firenze, Firenze, F.lli Alinari, 1902, trattazione tutt’oggi insuperata per acume intuitivo e rigore interpretativo.)) (Fig. 10). Un primo sguardo d’insieme rivela, nell’ambito di uno spirito prettamente classico, una costruzione ottagonale caratterizzata da un policromismo tutto sui generis, detto «decorativo» per via dell’alternarsi di marmi bianchi e verdi, in virtù dei quali i principali elementi decorativi vengono espressi, inquadrati e messi in risalto, mentre le pareti ricevono, appunto, in ogni loro parte decorazione e ricchezza((Il policromismo comune a tutte le altre scuole toscane (eccetto, si capisce, la fiorentina), italiane ed orientali, è invece costituito da liste marmoree bianche e nere che secondano l’andamento dei filoni delle pietre e delle strutture murarie, ed è stato perciò detto “«litotomico»; le due locuzioni sono state coniate dal Nardini Despotti Mospignotti (ibidem, 32 e passim).)). Fondate argomentazioni inducono infatti ad individuare nel dicromismo decorativo della serpentina e del candido marmo “[…] una trasformazione indigena del vecchio policromismo romano, dovuta in parte ai costumi del Cristianesimo, ed in parte alle condizioni particolari dei mezzi edificatori locali”((Ibidem, 135. Sull’impiego dei marmi colorati a Firenze si veda anche F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1953, pp. 241-242.)). Quest’affermazione, in sé ineccepibile, se da un lato lascia in sospeso la ragion d’essere di una originalità cromatica limitata esclusivamente a Firenze, dall’altro non offre indizi di sorta che possano motivare il completo predominio, interno ed esterno, degli intercolunni architravati (“[…] come nei periodi più castigati dell’arte romana […]”((Nardini Despotti Mospignotti, Il Duomo…, cit., p. 41; ed ancora “I profili del San Giovanni hanno, relativamente ai tempi, tale castigatezza di linee che qualche volta vincono al paragone quelli dell’ultima età imperiale ” (ibidem,p. 52, nota 1).))) rispetto agli archi voltati sulle colonne, maggiormente consoni all’età primitiva dell’arte cristiana. A tale riguardo riteniamo che la significantissima presenza di entrambi i fattori debba essere ascritta, per manifesta evidenza, al concorso di quelle preesistenti circostanze ambientali autoctone di matrice etrusca, vocate, lo ripetiamo ancora una volta, alla parsimonia dei modi, ed unite ad uno spiccato senso della delimitazione e della linea orizzontale: il sottile equilibrio stereometrico del manufatto si regge difatti nel sistema delle architravature che lo avvolgono e lo conchiudono, assicurando al contempo continuità visuale tra le facce contigue animate dagli intarsi bicolore. Nella sua nitida e regolata corrispondenza di parti il San Giovanni rappresenta la formalizzazione monumentale più antica dell’originario ritmo archetipale, vera e propria tabula lapidea dalla quale l’architettura medioevale, sempre memore della sua filiazione, avrebbe tratto le sue ragioni ed i germi delle sue successive evoluzioni((“Una conferma dell’esistenza di quest’archetipo del tutto locale [il San Giovanni] l’abbiamo anche se si considera il cerchio ristrettissimo entro il quale cotesta scuola ha limitato la sua sfera d’azione; inquantochè dalla sua poca forza d’espansione e dai confini angusti che la circoscrivono vuole argomentarsi con molta verosimiglianza, ch’essa trovi il suo alimento soltanto in certe condizioni locali che non hanno altrove la loro Cotesta scuola infatti può dirsi che nasca e muoia in Firenze; e se non fosse l’antica Pieve d’Empoli, ultimo e più lontano lembo in cui essa abbia lasciato traccia di sé, non si potrebbe giurare ch’essa avesse oltrepassato le radici del monte di Fiesole e le vette del colle di San Miniato” (ibidem, p. 139).)).
Analogamente a quanto verificatosi per il Battistero nell’ambito dell’ars costruendi, così per la pittura il Corteo dei Magi rappresenta la forse più nitida formalizzazione figurativa dell’archetipo della quiete. Ma come ha avuto luogo tutto ciò? (come ha “agito” l’archetipo?)
“Normalmente”, spiega Sedlmayr, “nella storia tutto questo processo si sviluppa seguendo un incarico concreto, assegnato all’artista dall’esterno, che gli propone certi caratteri intelligibili che in quella data epoca sono conformi a questo incarico, pur lasciando un vasto margine alla libera individualizzazione artistica”((Sedlmayr, “Il legame…”, cit., p. 246.)).
Cosimo de’ Medici, committente e fruitore primo della cappella((C R. Hatfield, “Cosimo de’ Medici and his Chapel”, in F. Ames-Lewis (ed.), Cosimo “il Vecchio” de’ Medici 1389-1464, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 221-244: 242-244.)), era certo ben consapevole che l’opera d’arte, lungi dall’essere un prodotto meccanico, coinvolge tutta una disposizione dell’animo che si solleva al di sopra delle contingenze: “Ogni dipintore dipigne sé” soleva dire, riconoscendo con questo aforisma il primato della forma intelligibile, dell’archetipo che deve essere concepito dallo spirito prima di essere realizzato nella materia((La frase, attribuita a Cosimo dal Poliziano (C. Gutkind, cit., p. 311), si rifà ad un’altra formula, familiare agli umanisti, che si legge nella III canzone del Convivio di Dante: “Poi chi pinge figura, Se non può esser lei, non la può porre”. Secondo il Vasari lo stesso Cosimo ebbe a difendere le stravaganze di Filippo Lippi dicendo: “Gli ingegni rari sono forme celesti e non asini vetturini”.)). Dalle poche sopravvissute lettere di Benozzo appartenenti alla corrispondenza con Piero di Cosimo de’ Medici, relative ai lavori di decorazione della cappella, emerge il ritratto a tutto tondo di una personalità dall’animo mite e delicato, dal carattere umile e dolce((Le tutt’ora esistenti lettere di Benozzo (ripubblicate in Acidini Luchinat, Benozzo Gozzoli…, cit., pp. 361-362) sovrabbondano di espressioni che testimoniano della sua mitezza d’animo, come ad esempio: “[…] quelch’io non farò rimarrà per non sapere. Idio sa chio nonò altro pensiero chemmi gravi più che questo […]” ecc. Per la minuta discussione del carattere di Benozzo si rimanda comunque a G. B. Benvenuti, op. cit., pp.12-18.)), il cui contegno ben si addice a quella sentenza di Giorgio Gemisto Pletone secondo la quale “[…] per la nostra essenza connaturata agli Dei, il bello e il bene è il fine della vita”((G. Pletone, Le leggi, XI, apud E. Garin, Filosofi italiani del Quattrocento. Pagine scelte, tradotte e illustrate, Firenze, Le Monnier, 1942, pp. 513-515: 515.)). Ora rimembrando come neoplatonicamente il contatto tra l’universale delle “idee” ed il particolare avvenga nell’immaginazione, si capirà come la visione pura, disinteressata, archetipale sia privilegio dell’anima che si trovi in una condizione distesa e ricettiva, una condizione di vacatio speculativa che la pone in risonanza con l’anima mundi((Cfr. A. Chastel, Marsilio Ficino…, cit., p. 137; Id., Arte e Umanesimo…, cit., pp. 109-110. )). In altre parole, seguendo Sedlmayr: “Il primo elemento ancora non separato, informe, che deve esistere perchè scaturisca un’opera d’arte, non è qualcosa che l’artista trovi in sé come i suoi sentimenti, ma qualcosa che, al di fuori di lui, viene da lui stesso scoperto, aleggiandogli dinanzi e spingendolo alla sua raffigurazione oggettiva”((H. Sedlmayr, “Il legame…”, cit., p. 246.)). E’ così che attraverso un movimento ascensionale l’artista passa dall’inferiore grado della Ratio, inerente alla bellezza dell’anima, a quello superiore della Mens, dello spirito angelico, da cui discende la luce intellettuale della vera Bellezza((C A. Chastel, Arte e Umanesimo…, cit., p. 289.)). Ed abbiamo motivo di credere che fosse proprio questo il processo descritto da Marsilio Ficino quando nella sua Theologia Platonica (1469- 1474) ebbe a scrivere: “L’anima dell’uomo […] assume […] attraverso il senso queste immagini delle idee contaminate dalla materia, le unisce […] mediante la fantasia, le purga e raffina mediante la ragione, poi le collega alle idee universali della Mente”((Theologia Platonica, XVI, 3: “Hominis anima […] assumit […] per sensum has a materia mundi infectos similitudines idearum, colligit […] eos per phantasiam, purgat excolitque per rationem, ligat deinde cum universalibus mentis ideis”.)).
Si comprenderà allora, riprendendo la teoresi di Sedlmayr, che “Ciò che nella creazione artistica aleggia dinanzi all’artista e lo guida, è costituito da certi caratteri intelligibili individuali, che trovano il loro compimento e la loro concretizzazione in certi motivi di raffigurazioni o significati. L’arte non è espressione di sentimento, ma configurazione di qualcosa di non configurato, cioè di un elemento qualitativo. Questo elemento qualitativo è allo stesso tempo la prima creazione, la creazione di quella prima materia, nella quale agisce il processo figurante e allo stesso tempo il primum movens e la forma formans che spinge verso la configurazione e non dà pace all’artista finchè la figurazione non giunga a compimento e i caratteri intelligibili aleggianti dinanzi non siano raffigurati ed espressi fino in fondo”((Sedlmayr, “Il legame…”, cit., pp. 246-247. In altre parole si può affermare che in un primo momento il creatore- artista intuisce e vede (platonicamente) trovandosi in uno stato di particolare veggenza ed esaltazione, in una specie di combustione che lo dilata al di fuori di sé, mentre in un secondo tempo elabora tali suoi fantasmi con più sorvegliata consapevolezza razionale (aristotelicamente) e con lo scopo giammai di alterare o sostituire, bensì di manifestare più compiutamente e fedelmente la prima, inconsapevole intuizione (cfr. D. Fabbri, “Spirito creativo e simboli”, in Eternità e storia…, cit., pp. 259-263).)).
In codesta maniera Benozzo, assurto al rango di sacerdos musarum, invera il processo di concordanza delle diverse componenti dell’affresco, ottenendo l’annullamento di ogni possibile stato d’animo salvo quello da lui prodotto: è così raggiunto, mercè la quiete, quell’accordo perfetto che lega indissolubilmente in un tutto armonico il committente, l’artista e l’essenza dell’opera con il genius loci della tradizione fiorentina((Così, come all’Epifania la Chiesa è maritata al Cristo, così nell’affresco gli esponenti di casa Medici sono «maritati» al genius loci)).
Ma si potrebbe anche andare oltre ed osservare, ad esempio, come in virtù di questo canto ad una voce l’influsso trascendente dell’archetipo irrompa nel nostro mondo immanente ed informi di sé l’anima di colui che sia qualificato a riceverlo. E se rammentiamo ancora di come Pavel Florenskij avesse dimostrato che le immagini divine legate ai misteri antichi fossero chiamate «idee» nell’accezione di una perfezione concreta, visibile, intesa nel senso di manifestazione della divinità((A. Florenskij, Il significato…, cit., pp. 143-145.)), risulterà vieppiù comprensibile l’esigenza di assegnare al Corteo dei Magi il valore di talismano, o sia di potente supporto di contemplazione delle realtà celesti((“I talismani sono le idee delle cose” (H. von Hofmannsthal, Il libro degli Appunti e diari-Ad me ipsum, Firenze, Vallecchi, 1963, p. 124).)). Secondo la teoresi ficiniana Dio ci sovrasta in modo ineluttabile nella potenza intellettiva, ma lo si può attrarre ed esserne impregnati grazie a quell’amore fervente indirizzato alla Bellezza, rivelatrice del «volto» del divino. Di fronte allo spettacolo offerto dal capolavoro di Benozzo, divino “[…] splendor […] nell’universale machina del mondo riverberante […]”((La citazione è tratta dall’orazione De Charitate di Giovanni Nesi, allocuzione letta per la Compagnia dei Magi il 23 marzo 1486; citiamo dalla trascrizione parziale in Hatfield, “The Compagnia de’ Magi”, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, vol. XXXIII, 1970, pp. 107-161: 160.)), l’anima è rapita dalla concordia discors vigente tra l’elemento visibile e l’elemento superiore (tra «l’uno e i molti»), incontro in cui si oltrepassano di colpo tutti i gradi dell’essere per attingere alla “[…] seraphica transmutatione in Dio […]”((Ibidem.)). Essendo infatti entrato in risonanza con l’archetipo della quiete l’animo del contemplante risuona come una lira e diviene, nelle parole di Ficino, “Grazie a questo nutrimento invincibile, in equilibrio, giusto, signore e governatore degli uomini, al di sopra del cielo, uguale agli angeli, simile a Dio”((Theologia Platonica, VIII, 2: “Hac etiam alimonia sit invictus, temperans, iustus, hominum gubernator et dominus, excelsior coelo, par angelis, Deo similis”.)).
Hugo von Hofmannsthal saggiamente annotava che “Una buona opera d’arte deve avere nell’interno il profondo silenzio nel quale si rivelano i misteri della vita; ma dalle sue cento porte di bronzo deve ricondurre il lettore direttamente nella vita”((H. von Hofmannsthal, op. cit., p. 126.)), ragion per cui crediamo di non dilungarci troppo dal vero se immaginiamo l’anziano Cosimo inginocchiato nella penombra della cappella “col corpo immobile, collo sguardo fisso, collo spirito unito a Dio” (S. Gregorio Nazianzieno), contemplare la figura androgina di Lorenzo quale novello Orfeo, dal cui viso sorridente e calmo, estrema soglia terrena alla celeste Hyerusalem, si attua la vittoriosa coniunctio col proprio «angelo» o «gemello celeste», ossia quel riflettersi dell’ Io nello specchio del vero Sé che procede dal divino e in esso si fonda, alla luce di una cognizione della divinità basata sul dialogo di sé con sé, col nous, con l’Angelo, con la propria Natura perfetta((In Picatrix (III, vi, Corbin) si legge: “[…] la prima cosa che tu devi fare nei confronti di te stesso è di meditare attentamente la tua entità spirituale [il tuo angelo] che ti governa, che è associata al tuo astro, e cioè la tua Natura perfetta, quella che il saggio Ermete menziona nel suo libro dicendo: quando quel microcosmo che è l’uomo diviene perfetto di natura, la sua anima è allora l’omologo del Sole fisso nel cielo, che con i suoi raggi illumina tutti gli orizzonti. Così la natura perfetta sorge nell’anima; i suoi raggi colpiscono e penetrano le facoltà degli organi sottili della saggezza; le attirano, le fanno sviluppare nell’anima, come i raggi del sole attirano le energie del mondo terrestre e le fanno crescere nell’atmosfera”; si veda in merito E. Garin, Ermetismo del Rinascimento, Roma, Editori Riuniti, 1988.)).
Egli, l’amatore della suprema bellezza, ritenendo
ciò che aveva già visto quasi l’immagine
di ciò che non aveva visto ancora,
aspirava goderne l’immagine
originaria
GREGORIO DI NISSA, Vita di Mosè
APPENDICE A
Lo stretto rapporto intercorrente tra gli esponenti di casa Medici ed i magi stellarum observatores era mediato dal culto loro prestato nell’ambito di una confraternita devozionale laica “di grandissima nobiltà fiorita”, detta Compagnia dei Magi, della quale Cosimo assunse pieno controllo al suo rientro dall’esilio, divenendone patrono e mecenate, sicchè da allora in poi “Tota domus medicea adscripta erat huic Societati” (F. Fossi, Monumenta ad Alamanni Rinuccini vitam contexendam ex manuscriptis codicibus plerumque eruta, Florentiae, Francesco Moucke, 1791, p. 26). Nel seno di questo sodalizio (in merito al quale rimandiamo alle dense pagine di R. Hatfield, “The Compagnia De’ Magi”, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, vol. XXXIII, 1970, pp. 107-161), alle manifestazioni ed alle parate pubbliche del giorno dell’Epifania, di carattere squisitamente exoterico, si affiancavano altre pratiche, eminentemente esoteriche, riservate ai soli membri, ed inerenti alla cognizione dell’unica, antichissima tradizione sapienziale e religiosa, convergente con il cristianesimo, posseduta dai dotti sacerdoti orientali, visti come detentori di quel retaggio spirituale zoroastriano nella cui teologia, sia detto per inciso, Giorgio Gemisto Pletone aveva riconosciuto gli archetipi di fondo delle religioni rivelate (cfr. S. Gentile, “Giorgio Gemisto Pletone e la sua influenza sull’umanesimo fiorentino”, in Firenze e il Concilio del 1439. Convegno di studi, Firenze, 29 novembre-2 dicembre 1989 (a cura di P. Viti), Firenze, Olschki, 1994, t. II, pp. 813-832). Tali sacerdoti impersonavano, non lo si dimentichi, le Primitiae Gentium, il primo popolo a cui Cristo fu rivelato: i «re» Magi venivano così a rappresentare i vassalli dell’Imperatore Celeste e l’identificarsi con essi significava ricevere l’investitura direttamente da Dio, essere gli «unti del Signore» sul piano umano e politico. Nell’Epifania di quel 1459 la parte di Gaspare, il più giovane dei Magi, fu sostenuta proprio da Lorenzo di Piero, quello stesso rampollo che, nella penombra della cappella di palazzo, era stato effigiato come princeps inter pares nella cavalcata di tre signori temporali di cui egli era il solo vivente: esplicita quanto ardita aspirazione dinastica di casa Medici al principato universale e sulla pars Occidentis, e sulla pars Orientis, da poco caduta in mano ai Turchi. E’ perciò in virtù di tale impianto polisemico, cui abbiamo gettato appena uno sguardo cursorio, che i molteplici piani di lettura del corteggio si sovrappongono e si solidarizzano tra loro, sortendo il non trascurabile effetto di avere reso assai plausibile e veridica l’identità del giovane cavaliere con l’adolescente Lorenzo anteriormente alla presa in esame di quella congèrie di dettagli e rimandi eruditi che legittima ulteriormente e definitivamente, da un punto di vista strettamente iconologico, la suddetta identificazione.
Tenendo ben presenti le premesse di cui sopra, osserveremo che il giovane Lorenzo di Piero de’ Medici viene rappresentato per ben due volte sotto il segno di Gaspare: la prima di persona, con le sembianze sue proprie (al 1459), al seguito del detto Mago (C. Acidini Luchinat, Benozzo Gozzoli. La Cappella dei Magi, Milano, Electa, 1993, pp. 43, 50) (Fig. 6), e la seconda allegoricamente come lo stesso Gaspare, attraverso un ritratto idealizzato (Fig. 4) (su questo genere «tipizzato» di ritrattistica si veda R. Hatfield, Botticelli’s Uffizi Adoration. A Study in Pictorial Content, Princeton, Princeton University Press, 1976, pp. 83, 96), la cui identità con Lorenzo è additata da almeno quattro elementi: (1) i colori ed i motivi araldici dell’abbigliamento del cavaliere e dei finimenti del destriero, riconducibili a casa Medici (F. Cardini, La cavalcata d’Oriente. Imagi di Benozzo a palazzo Medici, Roma, Tomo, 1991, pp. 140-144); (2) un cespuglio di lauro (Laurentius a lauro) che ne circonfonde il capo (ibidem); (3) un albero di arance, simboleggianti le “palle”, ossia le insegne medicee (S. Tolkowski, “Le palle medicee. Un indovinello fiorentino”, Il Marzocco, 8, 1931, p. 4), posizionato all’interno della scansione armonica di pertinenza del cavaliere Lorenzo (vedi rettangolo GF in APPENDICE B); (4) la «coincidenza» della data di nascita dello stesso Lorenzo al 1° di gennaio (1449), giorno consacrato anche a Gaspare e Melchiorre (R. Hatfield, “The Compagnia…”, cit., p. 137).
Le obiezioni che più di sovente vengono mosse a tale corpus di evidenza fanno capo per lo più a due argomentazioni piuttosto superficiali: quella della non ben precisata «troppo giovane età» di Lorenzo per il ruolo assegnatogli, e l’altra della sua cosiddetta «ubiquità» nel campo dell’affresco. Nel primo caso una benchè minima ed onesta conoscenza delle biografie di casa Medici è sufficiente a comprovare come sin dalla sua più tenera età (vorremmo dire: dalla culla) si guardasse a Lorenzo di Piero come il rampollo che di lì a pochi anni avrebbe retto le sorti del casato, e questo sia per via dell’intrinseca brillantezza del pargolo (E. Bizzarri, Il Magnifico Lorenzo, Verona, Mondadori, 1950, p. 10; G. B. Benvenuti, Gli affreschi di Benozzo Gozzoli nella Cappella del palazzo Riccardi, Firenze, Galletti & Cocci, 1901, p. 31), sia per la salute malferma del di lui padre Piero di Cosimo (E. Bizzarri, op. cit., pp. 27, 41). Per quanto attiene poi la seconda obiezione, bisogna rendersi conto che per Benozzo e per la società dell’epoca i campi dell’affresco non rappresentavano affatto una camera oscura, bensì un theatrum mundi, dove la molteplicità delle azioni temporali tiene il posto del realismo fotografico attraverso l’iterazione didascalica delle immagini (G. Dorfles, “Benozzo Gozzoli”, in Studi Fiorentini, Firenze, Sansoni, 1963, pp. 173-186: 180; C. Acidini Luchinat, “La Cappella medicea attraverso cinque secoli”, in G. Cherubini / G. Fanelli (a cura di) Il palazzo Medici Riccardi di Firenze, Firenze, Giunti, 1990, p. 88): volendo limitarci al solo nostro affresco, sono individuabili ben tre ritratti dello stesso Benozzo (C. Acidini Luchinat, Benozzo Gozzoli…, cit., pp. 367-368).
Recentemente, nell’ambito del citato saggio de L’enigma di Piero, Silvia Ronchey espone l’esistenza di un «piano di salvataggio occidentale» di Bisanzio (pp. 190-191 e passim) sostenuto da papa Pio II Piccolomini e dal cardinale Bessarione, progetto che sarebbe con tutta probabilità adombrato appunto nella tavola della Flagellazione di Piero della Francesca. Ma nonostante la competenza con la quale l’Autrice supporta la tesi principale del suo libro, non è però logicamente possibile accettarne tutti i corollari: in particolar modo quello che vorrebbe individuare nel Mago Gaspare la figura del despota Demetrio Paleologo, fratello di Giovanni VIII e penultimogenito dell’imperatore bizantino Manuele II (pp. 170-172). Le pur labili possibilità di una tale identificazione, avanzata dall’Autrice, si badi bene, sull’unico argomento ex-silentio della sua presenza a Firenze durante i giorni del Concilio (pp. 103, 170, 344-347, 501), decadono definitivamente da un lato per via delle considerazioni sviluppate alle nostre note 4 e 6 e qui sopra, dall’altro per via del completo non senso che sarebbe stato il rappresentare nella cappella di famiglia (ed a vent’anni di distanza) un equivoco personaggio distintosi esclusivamente per le sue scandalose e frivole intemperanze (p. 345), per le sue idee turcofile ed il suo atteggiamento apertamente antiunionista ed antioccidentale (p. 248). Se solo poi si presti attenzione al fatto che nel 1439 Demetrio aveva una trentina d’anni (p. 500), si capirà come l’autrice sia forzata, per motivi anagrafici, non solo a dover ritrovarne idealizzate le sembianze nel giovanissimo Gaspare, ma sia costretta per continuità logica a vedere un ritratto trasfigurato anche in Melchiorre/Giovanni VIII Paleologo (p. 346), cosa assolutamente contraria al vero (vedi nostra nota 5). Un successivo contributo della detta Autrice, dal titolo “Tommaso Paleologo al Concilio di Firenze” (apparso ne La stella e la porpora. Il corteo di Benozzo e l’enigma del Virgilio Riccardiano (a cura di G. Lazzi e G. Wolf), Firenze, Polistampa, 2009, pp. 135-152), lascia la situazione sostanzialmente immutata per quanto attiene l’aporia Gaspare/Demetrio, mentre invece deve il suo interesse, a nostro avviso, al richiamo dell’attenzione sulla presenza dell’aquila imperiale bizantina nelle miniature del manoscritto riccardiano di Apollonio di Giovanni (p. 136): aquila che appare proprio sul cantone della dimora di Priamo, ovvero, fuor di metafora, di un idealizzato palazzo Medici (p. 229, tav. 52: ms. ricc. 492, c. 85 r.), quasi a voler ratificare la tesi dell’aspirazione di casa Medici al principato universale attraverso il giovane virgulto Lorenzo.
APPENDICE B
Lo scomparto pittorico della parete est, che a nostro modo di vedere riveste un ruolo egemonico nei confronti dell’intero ciclo affrescato (Fig.7), è delimitato dal rettangolo AC, la cui modulazione proporzionale (= rapporto tra lato maggiore e minore) è uguale alla radice quadrata della sezione aurea (1,618), ovvero a 1,272. Le scompartizioni armoniche notevoli derivano in primo luogo dall’individuazione del quadrato generatore AF, che viene ulteriormente suddiviso secondo la sezione aurea nei due rettangoli AH (modulo = 0,618) e GF (modulo = 0,382), che risultano così strettamente imparentati tra loro come lo sono Cosimo e Piero (rettangolo AH) nei confronti di Lorenzo (rettangolo GF). Immediatamente si nota che il detto rettangolo GF non solo contiene, bensì inquadra perfettamente il bianco destriero montato da Lorenzo, essendo il lato EF tangente al muso del cavallo, ed il lato GH assai prossimo alla sua coda (nonché, altra partizione notevole, al tronco dell’alto cipresso che si estolle in primo piano). Ma v’è di più: la diagonale EH del rettangolo GF incrocia la linea AI (di costruzione della predetta suddivisione aurea) nel punto L, coincidente con l’efebico volto di Lorenzo, fulcro assoluto, a nostro giudizio, non solo della parete est ma, come abbiamo già accennato, dell’intero affresco (vedi anche la nota 39).
(*)(versione riveduta e corretta dall’Autore dell’articolo uscito con il titolo “Osservazioni sugli affreschi della Cappella di Palazzo Medici Riccardi in Firenze” su Critica d’arte n° 45-46, 2011, pp. 99-116)