9 Ottobre 2024
Cultura & Società

I seicento di Balaklava della lingua italiana – Roberto Pecchioli

La notizia è di quelle che riempiono giornali e televisioni, almeno nel giorno in cui viene diffusa: seicento professori universitari firmano un appello in difesa della lingua italiana, che i loro allievi, futura classe dirigente della nazione, non conoscono quasi più. Lessico povero e sciatto, grammatica sconosciuta, consecutio temporum ignorata, il congiuntivo da cercare a Chi l’ha visto, sintassi non coordinata, comprensione dei testi imbarazzante, persino errori grossolani di ortografia, scarsissima capacità di scrittura.

Stupisce sempre l’attitudine della Kultura italiana ad abbeverarsi alle fresche sorgenti del nulla. Chissà perché, tornano alla mente alcune definizioni del passato. Craxi parlò una volta di “intellettuali dei miei stivali”, mentre Mario Scelba non esitò a definire “culturame” i pensosi professoroni del suo tempo, allineati e coperti al Sole dell’Avvenire. Più modestamente, ci manda in bestia l’abitudine di fare l’opposizione a se stessi, tanto quanto la scoperta dell’acqua calda. Tra i firmatari dell’appello – altra abitudine antica degli intellò di casa nostra, risalente alla vergognosa campagna del 1970/72 contro il commissario Calabresi –luccicano i più bei nomi dell’italica sapienza. Su tutti Massimo Cacciari, il comunistissimo professor Canfora, il sociologo che piace alla gente che piace, Ilvo Diamanti, e poi accademici della Crusca e incliti cattedratici che dispensano cultura dall’Alpi alle Piramidi.

Dov’erano, tutti questi illustri signori e signore, negli ultimi quarant’anni? Emigrati in Papuasia, esuli nell’Isola che Non C’è, ma no, tutti al loro posto nelle università, nelle casematte della cultura e della politica, a promuovere le rispettive carriere e, naturalmente, a indicare la linea. Dunque, se gli studenti della seconda decade del secolo XXI sono ignoranti – nel senso che ignorano la lingua nazionale, peraltro mai dichiarata tale dalla Costituzione – la colpa principale è la loro. Ciascuno di coloro che oggi suonano la campana è responsabile della formazione degli insegnanti medi ed elementari i quali, ad avviso illuminato dei docenti di alta cultura, non avrebbero insegnato l’italiano a generazioni di studenti. Delle due l’una: o soltanto i professori universitari “sanno”, anche in termini di didattica, e tutti gli altri sono ignorantoni provvisti di laurea conferita da loro, oppure i responsabili della bancarotta culturale di ormai due generazioni sono gli stessi che adesso si dicono allarmati. Non è mai bene nominare piromani al vertice dei Vigili del Fuoco, ma a questo siamo.

Somigliano tantissimo alla retorica imperiale inglese dei Seicento di Balaklava che fermarono il contrattacco russo nella guerra di Crimea nel 1854, conflitto di tre potenze, quella britannica alleata con gli ottomani ed i francesi, attore non protagonista ma pieno di sangue il Piemonte di Cavour, contro lo Zar che, tutto sommato, era in casa propria. Insomma, si auto assolvono, i magnifici seicento italioti. Pochi giorni fa è stato seppellito con tutti gli onori Tullio De Mauro, insigne italianista e ministro di Stato, che trascorse decenni della sua carriera ad esaltare i dialetti del Bel Paese, una ricchezza, certo, ma in parte incompatibili con la primazia dovuta alla lingua di tutti. Alberto Asor Rosa, storico della letteratura che è l’emblema dell’intellettuale organico al Partito Comunista prima, alla sinistra globalista poi, iniziò la sua fulgida carriera, nel 1965, con un saggio, Intellettuali e Popolo, in cui attaccava e derideva l’animo nazionale e popolare della “sottocultura piccolo borghese”, includendo in essa praticamente tutti, a partire dal De Sanctis. Alcuni anni fa ha dato alle stampe una Storia europea della letteratura italiana, che, già nel titolo, ha intenzioni e orientamenti antinazionali.

Come tutto ciò che è emerso dopo il 1968, sono brillantissimi a destrutturare ed a decostruire, ma incapaci di dettare una cultura nuova che non sia la semplice negazione di quello che c’era prima. In questo senso, destano tenerezza anche i libri, peraltro necessari e di ampio successo editoriale, che stanno difendendo lo studio del latino e del greco. Giusti ed opportuni, ma se da quasi mezzo secolo si lavora attivamente per scollegare la nostra identità dalle sue radici greco romane, poco senso ha resistere come il tenente Drogo nella Fortezza Bastiani in difesa dell’aoristo e dei verbi semideponenti. Sembra la tenace, ammirevole, resistenza degli operai di industrie obsolete in difesa del posto di lavoro: una onorevole sconfitta.

Già dagli anni Settanta – gli studenti dell’epoca sono alle soglie della pensione – si diffamò l’imparare a memoria poesie e brani letterari, una fatica inutile e nozionistica, si diceva, si eliminava progressivamente dall’insegnamento la grammatica, l’analisi logica, si trascuravano la corretta sintassi ed il lessico appropriato. Non sono stati gli attuali “selvaggi con telefonino” a scegliere la vigente istruita ignoranza con timbro ministeriale su lauree e diplomi. Michele Serra, uno dei più inutili esemplari di intellettuale di sinistra in circolazione, ha scritto un preoccupato libretto sulle ultime generazioni intitolato Gli sdraiati, poteva tranquillamente dire gli storditi o gli sballati, ma le responsabilità della sua casta, della sua generazione e del suo milieu politico culturale sono immense.

Troppo facile addossare tutte le colpe al solito Berlusconi ed al linguaggio della TV commerciale. L’ex Cavaliere è un pessimo soggetto, corrivo ed interessato al tornaconto, gli si possono agevolmente imputare, da politico, peccati di omissione. Ma alle destre liberali, da decenni ormai, interessa unicamente il Mercato, ed assomigliano sempre più al vecchio radicalismo politico francese: a destra in economia, a sinistra nella cultura (o da nessuna parte, che è più comodo) ed al centro in politica.

Sono mancati, drammaticamente, gli educatori; in compenso sovrabbondano i cattivi maestri, dai Francofortesi al povero Don Milani di Lettera ad una professoressa, sino ai mille e mille Asor Rosa elevati a docenti universitari e maitre à penser. La cosiddetta cultura umanistica ha subito sconfitte storiche ed autentiche Caporetto. Si insegna sempre meno la lingua e la letteratura italiana, si espungono dai programmi la storia (anticaglie…) e la geografia, la filosofia, per definizione “non serve”, si sconsiglia la lettura dei classici e si bolla come reazionario l’esercizio della memoria. Nessuno stupore, poi, se gli italiani non conoscono la loro lingua e se, sui muri di una facoltà universitaria, compare un’invocazione amorosa che inizia con “appena ti o visto…”.

In fin dei conti, si rimprovera alla nostra scuola anche uno scarso interesse per la matematica e le scienze esatte. E’ assolutamente vero, ed è assai difficile scacciare l’odiato nozionismo dallo studio di materie fondate sul pensiero astratto che si fa formula, tassonomia, osservazione e si concretizza in definizioni, calcoli e conoscenze senza le quali non si procede di un passo. Non pochi genitori lamentano l’eccesso di esercizi di analisi matematica, definiti inutili, poiché esistono i computer. Vano spiegare che gli elaboratori elettronici, come i telefonini e gli altri strumenti tecnici d’uso comune esistono proprio perché qualcuno ha avuto idee pensate con chiarezza e tradotte in formule precedute da complessi calcoli matematici, presentate alla comunità scientifica in linguaggio appropriato e poi applicate in concreto. Berlusconi parlava delle tre I, Internet, inglese ed impresa. Pensiero strumentale, di cui sappiamo, dopo Heidegger, che è pensiero che non pensa. La prima I avrebbe dovuto essere la lingua italiana, ma da settant’anni questa nazione è dominata da ideologie antinazionali ed è attraversata da un’indifferenza di sé e da una “furia del dileguare” che Roger Scruton ha definito oicofobia, il disprezzo per ciò che è nostro.

L’italiano, dicevamo, non è citato in Costituzione come lingua nazionale o ufficiale, in compenso l’art. 6 impone la tutela delle minoranze linguistiche, senza peraltro definirle, cosicché oltre al tedesco dell’Alto Adige è ufficializzato di fatto lo sloveno, i cui parlanti italiani rifiutano energicamente di contarsi, ma ottengono denari a fiumi e classi anche per un solo alunno in alcune aree del Friuli Venezia Giulia, il francese in Valle d’Aosta, che non è affatto lingua veicolare, lo è semmai il patois locale, il friulano, il sardo, l’albanese arberesh della Calabria e, ci credano i lettori, il croato di alcuni piccoli comuni molisani. Tutto giusto, ma l’italiano? Non scordiamoci che la nostra lingua è tra le più antiche, pensiamo alla scuola poetica siciliana del Duecento, alle liriche francescane e di Jacopone e naturalmente alla Commedia, ma anche, per le vicende legate alla storia della nostra terra, tra le meno utilizzate dai popoli della penisola, le cui lingue madri sono state fino a pochi decenni fa, i mille dialetti. La lingua comune doveva quindi essere oggetto di una cura, di un amore costante e diffuso, di un insegnamento capillare come veicolo di unità e di identità. Sembra incredibile, ma spesso l’italiano dei ticinesi è migliore del nostro, per non parlare dell’accanita, amorosa difesa della nostra lingua da parte degli istriani rimasti italofoni.

Pure, meglio il pessimo italiano di tanta televisione che il localismo vernacolare che ci rendeva estranei. Ancora nella prima guerra mondiale, molti soldati non capivano gli ordini impartiti in italiano dagli ufficiali, e, per un paradosso della storia, nella marina austriaca si parlava nella lingua nostra, variante istro-veneta.

Oggi, le leggi della Repubblica italiana hanno nomi stranieri (jobs act, fiscal compact) e per lottare contro il governo si organizzano No Tax Day. Nei giorni scorsi, nelle scuole italiane, tra i cui docenti di vertice ci sono i seicento nuovi eroi patriottici dell’idioma comune, è stato tenuto l’Open Day, di cui ignoriamo l’utilità e la natura, ma che certamente poteva essere denominato Scuola Aperta senza problemi, anzi consentendo la comprensione alla casalinga di Voghera, al precario cagliaritano e, perché no, all’immigrato che cerca di orientarsi e capire quel che succede intorno a lui. E’ superfluo ricostruire una genealogia dello sfascio, ma questi pochi esempi bastano ed avanzano. Anzi, no, poiché l’Università Bocconi, tempio della scienza economica e finanziaria, impartisce già in inglese molti corsi curricolari. Di che cosa stanno parlando, dunque, i professoroni che fanno scudo con il loro corpo alla decadenza dell’italiano? Il fallimento educativo della scuola e della società è in larga misura opera loro; in qualunque lingua loro hanno decerebrato le generazioni per conto delle ideologie dominanti, i cui tratti comuni sono l’universalismo senza frontiere, il materialismo e la prevalenza del pensiero economico e strumentale.

Se ne inferisce che l’ignoranza di massa è programmata con cura, esattamente come l’obsolescenza delle merci. I soldatini del mercato, nonché i sottufficiali e gli ufficiali inferiori del sistema, devono essere abili e rapidi nell’azionare meccanismi, padroneggiare telecomandi e tastiera del computer, ma nessun pensiero critico è ammesso. Un mezzo ideale è intorpidire le menti è rendere la lingua povera ed incapace di descrivere concetti, meglio ancora se il lessico relativo è abolito per disuso. Negli Stati Uniti, giusto vent’anni fa, usciva un libro di Allan Bloom, prestigioso docente universitario, il cui titolo emblematico è La chiusura della mente americana. Vi si descrive il declino dell’istruzione nella nazione guida, che non risparmia neppure gli atenei d’eccellenza e si affronta di petto una delle caratteristiche dello spirito americano, il riduzionismo, il desiderio ossessivo di restringere, compendiare la conoscenza in sintesi sempre più ristrette. Saul Bellow, il grande scrittore che ne ha curato la prefazione, nel suo romanzo Herzog fece dire al protagonista, un laureato in filosofia in crisi esistenziale “Ciò di cui ha bisogno questo paese è una buona sintesi del cinque per cento”.

Il fatto è che la cultura e la conoscenza seguono il percorso contrario, dal semplice al complesso, e solo al termine di un faticoso percorso di apprendimento, costellato di nozioni, memoria, spezzoni di materia francamente noiosi si padroneggia davvero un argomento sino a poterne pensare e scrivere una sintesi. Come recuperare il ritardo accumulato, tuttavia, nell’epoca trionfante della comunicazione sincopata, condensata sino al monosillabo del T9, della neolingua di acronimi ed abbreviazioni degli SMS? In più, ci sono i guasti provocati dal linguaggio di Twitter “zippato” in centoquaranta caratteri e dalla scarnificazione dei concetti operata da Facebook, ove peraltro impera il turpiloquio, l’insulto, la falsificazione di sé.

Allan Bloom va oltre, e sfida l’impopolarità affermando che un altro problema è diventato l’imperio della musica: “sebbene non abbiano libri, in compenso gli studenti hanno la musica. Niente è più singolare, a proposito di questa generazione, della sua assoluta dipendenza dalla musica.”. E scriveva nel 1987, prima dell’avvento degli smartphones, degli i-pod e delle cuffie alle orecchie che disconnettono dal mondo circostante, chiudono la porta in faccia alla realtà, ma consentono l’autistico e compulsivo ascolto di brani musicali. Si tratta, in genere, di rock, tecno, e simili: suoni fatti per dettare ritmi, allontanare, quando se ne abusa, dalla riflessione, dall’introspezione, anche dal semplice stare con se stessi, e, naturalmente, parlarsi, in una lingua sempre più scarna, prossima all’afasia e talora al grugnito. Ti voglio bene diventa TVB, ed è l’espressione del sentimento più importante della vita.

Bamboccioni autocentrati, sbottò Padoa Schioppa, ma la responsabilità è di quella classe dirigente di cui l’economista e banchiere scomparso era eminente rappresentante. Incapaci di stringere i denti, choosy, li giudicò la professoressa Fornero, che evidentemente ama così tanto l’Italia da pensare in tecno-anglo americano, ma non sono cresciuti così per un destino ineludibile. Le classi superiori insegnano a compiere gesti ripetitivi, in un postfordismo di risulta: governare un carrello di magazzino, pigiare il giusto bottone dei vari telecomandi che costellano vita e lavoro, accendere il computer e svolgervi funzioni operative. Bastano poche decine di parole, vani gli sforzi di eruditi compilatori di vocabolari. Una dura esperienza personale di chi scrive queste note è stata convincere giovani funzionari doganali, tutti rigorosamente laureati ed in possesso di master, ad applicarsi alla tariffa doganale e alle relative note esplicative: troppo complesse, la maggior parte delle parole che definiscono merci e prodotti erano del tutto nuove, le descrizioni “fanno venire mal di testa”, piagnucolò una ragazza non delle peggiori.

Forse è proprio la smania indotta della rapidità, del cosiddetto “tempo reale” la grande avversaria della conoscenza e quindi della lingua. Tutto deve avvenire in fretta, subito ed ancora prima. Ciò disabitua allo sforzo, alla concentrazione, al pensiero che valuta, distingue, discrimina, si appropria di concetti attraverso le parole che li esprimono. Nello specifico, se Manzoni è noioso, Dante difficile, Leopardi triste e tutti insieme sono antiquati e “non servono”, se i signorini viziati- alcuni hanno ormai età ragguardevoli – girano per il vasto mondo con le cuffie, ascoltando pessimi suoni ed ignorando il resto, non sarà l’appello dei seicento, nominatisi “gruppo di Firenze” a rovesciare la tendenza.

Ortografia, dettato, un ritorno della vecchia, tediosa analisi logica e grammaticale non possono far male. Non bastano, se i docenti, specchio della società di cui sono classe dominata all’interno della classe dominante, secondo la definizione di Costanzo Preve, una che una cattedra universitaria non l’ebbe mai, non ritornano ad educare. Al pensiero, innanzitutto, ovvero a mettere in funzione quella materia grigia di cui siamo dotati, poi a conoscere, amare e praticare la cultura (coltivazione di sé), poi ad esercitare il pensiero critico, dunque il giudizio, ma informato, meditato. Non c’è pensiero senza logos, la parola, che, ovviamente è innanzitutto quella dell’idioma nativo, frutto della propria comunità naturale.

Professoroni, convincete innanzitutto i legislatori e gli operatori dell’informazione ad utilizzare il ricchissimo lessico italiano. Al bando jobs act e simili, ma anche la Champions League, che potremmo continuare a chiamare Coppa dei Campioni, se proprio la parola Lega non ci piace. Sul televideo della Rai, che, ahinoi, è la principale agenzia culturale italiana, la partita di calcio domenicale anticipata alle 12,30 viene definita “lunch match”. Soprattutto i più giovani, diseducati alla proprietà di linguaggio e cresciuti nello sbrigativo, desolante primato di ciò che è strumentale, usano troppi termini stranieri masticati attraverso le reti sociali ed i canali musicali, ne ignorano i corrispettivi italiani, si esprimono ripetendo pochissimi verbi omnibus che usano per manifestare qualsiasi concetto. L’esito è la ridicola scoperta dei dotti: non sanno scrivere, non riescono a comprendere un testo di media complessità, ancor meno sono in grado di riassumerne oralmente o per iscritto il senso o riferirne i dettagli.

Non resta che un duro, oscuro lavoro di ricostruzione, focalizzato sul recupero del “centro”, ossia riabituare i cervelli a pensare, a consultare con umiltà vocabolari e dizionari dei sinonimi (facile, tutto è online ed i giovani sono connessi ininterrottamente), riportare compiti ed esami scritti all’importanza del passato.

Predisporre testi scritti di qualsiasi genere è un progetto sempre nuovo: occorre riflettere sull’argomento, prendere posizione, argomentare, informarsi, conoscere punti di vista diversi in materia, individuare con pazienza le parole giuste, mettere in forma ciò di cui dobbiamo scrivere. Non è un gioco o una passeggiata, ma un elemento decisivo nell’educazione è l’accettazione serena di un certo grado di sacrificio, l’abitudine ad andare, piano piano, oltre i propri limiti di ieri, a riconoscere come necessario ed esaltante il tirocinio, la scoperta. Non lo hanno mai insegnato, i nuovi indignati speciali, no, sono stati gli ispiratori o gli eredi della sessantottina proibizione di ogni divieto, hanno voluto ed imposto le promozioni di massa e l’abbassamento degli standard di conoscenza di ogni materia, condannando intere generazioni alla minorità e consegnando la nazione al declino. Oggi ne prendono atto, benvenuti all’inferno, voi che avete teorizzato paradisi artificiali e siete stati tanti omini di burro tesi a condurre nel Paese dei Balocchi milioni di malcapitati Lucignoli .

Nell’anno di grazia 2017 ci accorgiamo che la lingua nazionale è un oggetto misterioso e sconosciuto, e che diplomati e laureati si affiancano a chi non ha potuto studiare in un penoso semianalfabetismo funzionale. I giovani non sono una lavagna vuota, ma una spugna che assorbe qualsiasi cosa. La bontà del minestrone dipende dalle verdure e dall’abilità del cuoco. Non firmino appelli, dunque, ma si mettano al lavoro. Recuperare dipende da loro, dal clima civile che essi sono in grado di generare, dall’amore per la conoscenza che sapranno trasmettere, dal rispetto dell’identità civile, culturale, nazionale e linguistica di cui, al contrario, sono stati attivi distruttori.

A Roma antica, un greco si definiva un grande saltatore, ma giustificava i suoi insuccessi ripetendo che lui era bravo a Rodi. I concreti Romani lo misero a posto, dicendogli a muso duro Hic Rhodus, hic salta, qui è Rodi, qui salta. Riprendano subito ad insegnare i fondamentali della lingua, senza aspettare circolari ministeriali, linee guida, tavoli tecnici o assemblee esplicative. Quelle cose sono il problema, non la soluzione. Su un punto si deve concordare con John Kennedy, quando ammonì i concittadini a non chiedersi ciò che avrebbe potuto fare per loro l’America, ma che cosa essi stessi dovessero fare per migliorare la nazione.

Professori, qui è l’ Italia, qui saltate, una buona volta!

Roberto Pecchioli

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