Il feticismo delle merci è forse l’aspetto più convincente delle teorie marxiane. Fenomeno tipico dell’economia monetaria, in particolare di quella capitalistica, descrive il primato del valore di scambio dei prodotti sul valore d’uso e ne denuncia il significato simbolico. Le merci non sono semplici oggetti fisici ma rappresentano e rispecchiano i rapporti sociali e le situazioni antropologiche, rovesciando altresì i rapporti tra gli uomini. Il liberalismo, per una curiosa eterogenesi dei fini, o forse per una sorta di serendipità per celata contiguità culturale, ha utilizzato largamente la scoperta dell’uomo di Treviri. Oggi, nessuno dubita seriamente che la “forma merce” sia l’elemento essenziale della visione del mondo contemporanea. Con un’intuizione diabolicamente geniale, il liberalcapitalismo ha dunque istituito la figura del Consumatore, colui che sceglie, acquista, utilizza, getta le merci, feticcio indiscutibile. Il corollario inevitabile dell’ascesa del Consumatore – eroe postmoderno – è l’affievolimento della precedente figura simbolo della modernità, il Cittadino figlio e motore della Rivoluzione borghese del 1789.
Chi è legato ai principi della Tradizione tende a giudicare il tempo come una discesa da uno stato superiore, anteriore, ad un tramonto per fasi successive, sulle orme della morfologia spengleriana della storia. Il pericolo in agguato è di trasformare tale visione in pregiudizio, pattern, schema ricorrente. Correremo il rischio, svolgendo una riflessione sulla figura del Consumatore, sullo statuto privilegiato che gli viene falsamente attribuito, sul moto accelerato verso il basso che egli rappresenta, nonché su alcuni esiti pratici della sua egemonia.
La tesi che esponiamo è la seguente: ogni periodo storico ha specifiche figure di riferimento, la nostra, fondata sul denaro, l’ipostatizzazione idolatra del Mercato, lo scambio e la Merce, non può che ripiegare sul Consumatore, epifenomeno dell’Uomo Massa, scimmia dell’Homo Sapiens Sapiens che fummo. Secondo Gustave Le Bon, il primo coerente studioso della psicologia delle masse, “dal solo fatto di essere parte di una folla, un uomo discende di generazioni su una scala di civiltà. Individualmente, potrebbe essere un uomo civilizzato; nella folla diviene barbaro in preda all’istinto. Un individuo nella folla è un granello di sabbia fra altri granelli di sabbia, mossi dalla volontà del vento”. Tralasciamo l’evidente impostazione positivista dell’antropologo e sociologo francese tanto studiato da Benito Mussolini, e riconosciamo l’acutezza dell’analisi.
Al di là della scienza biologica, l’uomo è divenuto davvero sapiens non quando è riuscito a dominare il fuoco, scoprire la ruota o fondere materiali per ricavarne utensili, ma allorché ha riconosciuto la propria singolarità, la radicale alterità della specie di cui fa parte rispetto al resto del Creato, pervenendo alla coscienza di sé e scoprendo insieme la propria identità e la caducità della sua presenza nel mondo. Da allora, è diventato “persona”. Non è un caso che il termine, proveniente dal latino, derivi dall’ etrusco phersu, la maschera dell’attore, a sua volta con radice nel greco antico pròsopon. La nostra “prosopopea” ha la medesima origine: prima di assumere il significato di superbia o boria affettata, era la figura retorica relativa alla personificazione di oggetti inanimati o di astrazioni, ad esempio la patria. Persona è, dunque, maschera nel senso della consapevolezza individuale, del possesso del Sé, che impone identificazione e insieme presa di distanza come in uno specchio. L’uomo scopre di non essere sola materia, ma anche coscienza, e il di più è, appunto, la persona. Di qui la straordinaria importanza attribuita al concetto dal cristianesimo in ogni tempo, sino al personalismo novecentesco di Emmanuel Mounier.
Lo schiavo non era “persona”, esattamente come l’uomo massa del socialismo, il cui unico movente sono i bisogni materiali ed i cui comportamenti sono determinati dall’Intellettuale Collettivo, ovvero dal partito, dal sindacato o altre organizzazioni che lo dirigono. L’illuminismo, sulle piste scoperte dai greci, sembrava aver trovato la soluzione: ogni essere umano è titolare di diritti all’interno di una società organizzata, la polis, dunque è un cittadino. Di qui il dovere di difendere la repubblica-nazione in armi, pagare le imposte, ma, specularmente, il diritto di partecipare, essere rappresentato, votare, formarsi un’opinione sui principali temi che dovrà essere ascoltata, anzi diventerà, se maggioritaria, senso comune o addirittura legge
Si possono rintracciare anche dei fini, degli orizzonti di senso nelle definizioni di persona, individuo, cittadino, membro della massa. La persona si presume autonoma e tendente alla coincidenza tra verità e bene comune. L’uomo massa è un soggetto passivo che può essere mobilitato e diventare folla per motivi diversi ed in base a parole d’ordine ricevute. L’individuo da cui discende il cittadino è scopo di se stesso, agisce quasi esclusivamente in base all’interesse, non riconosce alcuno sopra di sé, ma è, di fatto, eterodiretto quanto l’uomo massa. Il cittadino geloso della sua individualità è stato la grande invenzione borghese delle prime rivoluzioni industriali e civili, ma non si è rivelato sufficiente per affrontare il tempo nostro, unidimensionale, devoto feticista della merce. Bisognava inventare una figura ulteriore, alla quale far balenare nuovi “diritti”, da rivendicare e godere azzerando ogni dimensione della vita diversa da quella del piacere, della soggettività, della soddisfazione immediata di desideri ed impulsi. Neoplebe desiderante è la definizione, perfetta quanto raggelante, proposta da un grande battitore libero della cultura italiana, Costanzo Preve. Il nuovo plebeo desiderante ha adesso una qualifica di cui va orgoglioso: è diventato un consumatore!
La forza delle parole trascende sempre l’uso strumentale che se fa: se dunque la persona è colui che ha coscienza del suo “essere nel mondo”, l’individuo è l’unità che non si può dividere (in-dividuo), la massa richiama la pesantezza e l’assenza di forma, il consumatore è il soggetto che prende per intero, e dunque, in qualche modo, toglie dalla circolazione. L’attore non protagonista – suo malgrado – della gran tragedia di una società che vive a perdifiato, scopre, inventa, applica, produce, e, inevitabilmente, consuma, usa e getta via. Il consumatore è il perfetto uomo fungibile, prodotto egli stesso, fabbricato per acquistare merci da trasformare rapidamente in rifiuti: cose inutili, consumate anche se nuove. Naturalmente, esiste anche una definizione politicamente corretta, eufemistica e giuridicamente riconosciuta: il consumatore è la controparte non professionale dell’impresa. In tre parole e una negazione il quadro di un intero mondo, quello della società mercantile! Orientiamoci utilizzando definizioni da manuale scolastico: il consumatore utilizza beni e servizi prodotti dal sistema economico; secondo i Bignami di diritto, è la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta.
Parole accuratamente disinfettate, disincarnate, che occultano la verità: il consumatore è un puntino il cui unico compito è avere desideri indotti da soddisfare acquistando oggi quel che non gli piacerà più domani mattina, un cliente ipnotizzato sino a fargli credere che ogni capriccio è un diritto da accontentare carta di credito alla mano. Ha sempre ragione, purché solvibile. La figura del consumatore non è sfuggita all’asfissiante tendenza di regolare ogni aspetto della vita: possediamo quindi un intero Codice del Consumo, che, fatte le debite proporzioni, possiamo considerare l’equivalente postmoderno del codice napoleonico di diritto commerciale e privato, prodotto della rivoluzione borghese nata in Francia.
Ad imitazione degli Usa, eldorado del Consumatore Globale, e non casualmente sede centrale dei padroni del mondo, vengono promulgate leggi fotocopia in un quadro giuridico radicalmente diverso da quello americano. Pensiamo alla “class action”, l’azione collettiva, che genera cause con centinaia, migliaia, o milioni di attori che sfidano un convenuto (azienda o amministrazione pubblica) esclusivamente sul piano del risarcimento, o ristoro con vittoria delle spese, per gli adepti della neolingua curiale. Gli effetti possono diventare drammatici e, talvolta anche ridicoli. Legioni di avvocati si specializzano nel citare a giudizio professionisti, artigiani e chiunque abbia suppostamente leso i sacri diritti del Consumatore. Il bene comune, l’etica condivisa non pervenuti, rivolgersi a Chi l’ha visto.
E’ di importanza capitale capire che la figura del consumatore ha un posto di rilievo nell’ideologia neoliberale. Infatti, essa costituisce il collegamento, il punto di unione e di consenso di grandi masse rispetto agli interessi privati del capitalismo. Promosso ad interlocutore privilegiato, anzi a giudice insindacabile del Dio Mercato e della sua ancella Concorrenza, il consumatore, da dominato e sfruttato qual è, produttore e lavoratore prima, donatore di sangue e debitore del sistema, diventa, una volta indossato l’abito di utente e consumatore, l’entusiasta sostenitore di un meccanismo, che, lo hanno convinto, offre opportunità, permette scelte “libere”, garantisce i mitici e mistici “diritti” Questi, in realtà, si restringono ad un obbligo introiettato come facoltà da esercitare ad ogni costo: spendere tutto il proprio denaro ed ancora di più, giacché hanno creato il credito al consumo, comprando ciò che ci viene fatto piacere dall’orchestra pubblicitaria o dal conformismo di massa.
I sindacati dei lavoratori, sconfitti dai tempi nuovi, sono corsi ai ripari, fondando le associazioni dei consumatori: fateci caso, i vari portavoce sono tutti sindacalisti in disarmo riciclati al nuovo verbo ben remunerato. Con la collaborazione dei vecchi rappresentati del popolo lavoratore, coinvolte le folle solleticandone gli istinti più bassi e fingendo di rappresentarne la volontà, hanno costruito non solo un disciplinato gregge al loro servizio, ma ricevono ringraziamenti: più diritti, più opportunità, più merci. Merci, non beni, che è la definizione “da manuale scolastico”. Maurizio Pallante ha chiarito la distinzione di significato; i primi sono gli oggetti o i servizi che rispondono ai nostri bisogni o soddisfano i nostri desideri; le seconde sono le cose scambiate con e per profitto.
Distinzione estranea al consumatore ed al suo padrone Produttore Globale, che condividono il dogma antiscientifico della crescita illimitata, materialmente impossibile per la limitatezza delle risorse del pianeta, così abbondantemente saccheggiato senza riguardo al futuro ed alle leggi della fisica, in particolare della termodinamica. Sottigliezze inutili: il consumatore, come afferma la parola, consuma. Poiché è un orgoglioso titolare di diritti, pretende di scegliere quello che gli piace al prezzo più basso: è la globalizzazione, bellezza. Un recente rapporto di un grande istituto sociologico ha concluso, con i consueti toni corrivi degli impiegati di concetto del potere, che il consumatore italiano è vigile, attento, mobile. Così ci vogliono, dobbiamo scegliere senza riguardo ad alcun principio diverso dall’interesse (economico) personale. Poco importa se il pomodoro che arriva dagli antipodi ha generato inquinamento ambientale, basso costo del lavoro e getta sul lastrico i contadini di casa nostra. Ogni tanto, giusto per calmare i più pensierosi, mettono in campo qualche campagna equa e solidale per condannare il lavoro minorile o lo sfruttamento delle plebi neo urbanizzate del terzo mondo, ma poi tutto torna come prima.
Se siamo consumatori, possiamo essere anche produttori, questa è la frontiera prossima dei “prosumer” dotati di stampanti tridimensionali. Nell’attesa, perché non procurarsi un figlio affittando, consumando l’utero di una poveretta? Perché impedire con leggi antiquate o fastidiose prediche morali ciò che tecnicamente si può fare? Se poi è vietato in Italia, corriamo altrove. Compriamo, consumiamo, qualche giudice risolverà il problema, in senso privatistico e progressista.
Lo stesso omosessualismo dilagante, promosso da centrali ben conosciute, ha un evidente risvolto legato al consumo. Non soltanto perché i gay sono storicamente assai propensi al consumo in genere, ma perché l’ideologia comune sottostante è il libertarismo, l’assenza di limitazioni territoriali e legali, l’indifferenza amorale. Non solo pretendono di diventare padri o madri, ma esigono che tali siano considerati dalla legge due figure dello stesso sesso, pardon, genere, dopo avere realizzato da qualche parte nel vasto mondo costose pratiche di consumo e disgustoso sfruttamento. Infine, un procuratore attento, a Trento, si è finalmente opposto, con motivazioni che oltrepassano i confini della giurisprudenza. L’utero in affitto, afferma, ignora il comune sentire, scardina il diritto di famiglia e pretende di abolire la sovranità nazionale, esigendo la legalizzazione di pratiche o procedure non previste. Ohibò, prima che ai circoli degli invertiti, occorre segnalare i fatti alle associazioni dei consumatori. Qualcuno osa affermare che non tutto è merce, non tutto è compravendibile, dunque il consumo ha dei limiti. Odiosa discriminazione oscurantista, ma innanzitutto violazione del dogma liberale: lasciar fare, lasciar passare.
Ogni stagione storica ha la sua dogmatica. Quella presente è particolarmente ricca di totem e tabù. Il relativismo culturale respinge le domande di senso: non si torna indietro, produci, consuma, crepa possibilmente in fretta e di tua stessa volontà. Le morali religiose, e comunque tutte quelle “esigenti” devono essere abbattute, scienza e tecnica non hanno fini, va riconosciuta loro assoluta autonomia, affinché si possa estendere tutto ciò che può essere prodotto, scambiato, consumato sul mercato. I nuovi diritti promettono libertà che si pagano in denaro sonante o carta di credito. Possiamo, dobbiamo consumare, è un nostro diritto. Useremmo l’aggettivo “sacro”, se non fosse stato revocato dal linguaggio dei ceti riflessivi, in linea con le magnifiche sorti e progressive. Nel vocabolario, tuttavia, restano alcuni sinonimi di consumare: finire, esaurire, sprecare, sciupare, distruggere.
Quello è il fine di chi organizza il gioco, decide le quote, ritira le puntate e riscuote le vincite. Tutti gli altri sono consumatori. Consumati.
ROBERTO PECCHIOLI