Luigi Durand de la Penne è stato un ammiraglio al quale durante il periodo bellico furono attribuite le più alte ricompense al V.M. quali due Croci di Guerra al merito, la promozione a tenente di Vascello per meriti eccezionali, una medaglia d’Argento sul campo (avendo salvato molti marinai a rischio della propria vita).
Nell’ottobre 1940 partecipò alla missione di Gibilterra e poi all’impresa di forzamento della base inglese di Alessandria d’Egitto.
Capogruppo dei SLC 221, 222 e 223, condotti rispettivamente dallo stesso Durand de la Penne, Vincenzo Martellotta, e Antonio Marceglia, coadiuvati dai capi palombari Emilio Bianchi e Mario Marino e dal sottocapo Spartaco Schergat, realizzò, all’alba del 19 dicembre 1941, l’affondamento della nave da battaglia inglese Valiant.
A bordo del sommergibile Scirè si portò davanti ad Alessandria d’Egitto e da lì partì con la flottiglia di SLC che attaccarono le navi inglesi ancorate nel porto. I nostri marinai affondarono la corazzata Queen Elizabeth, la petroliera Sagona e danneggiarono il cacciatorpediniere Jervis. La Valiant e la Queen Elizabeth, grazie alle acque basse del porto non affondarono completamente e dopo lunghi lavori di riparazione furono recuperate e rimesse in servizio.
Durand de la Penne, dopo aver superato con notevoli difficoltà le ostruzioni del porto, collocò da solo la carica esplosiva sotto le torri di prora della Valiant, ma una volta risalito in superficie, venne scoperto e catturato. Portato a bordo insieme al 2° capo Emilio Bianchi, secondo operatore del suo mezzo, fu rinchiuso in un locale adiacente al deposito munizioni e lì venne lasciato anche dopo che ebbe informato il comandante dell’unità inglese, capitano di vascello Charles Morgan, dell’imminenza dello scoppio della carica.
Qualche mese prima, il 26 luglio 1941, nel corso dell’azione congiunta di forzamento della base inglese di La Valletta a Malta, denominata operazione Malta Due, effettuata da due SLC e sei barchini esplosivi, per non compromettere l’esito della missione e recuperare il tempo perso per ovviare a degli imprevisti tecnici accorsi all’altro SLC e con la volontà di portare a termine a ogni costo il suo compito, Teseo Tesei, Maggiore del Genio navale della Regia Marina, brevettato palombaro, operatore della Xª Flottiglia MAS, decise di “spolettare a zero”, rinunciando cioè ad allontanarsi dall’arma prima che esplodesse sotto l’obiettivo, immolandosi così assieme al suo fedele gregario, 2º capo palombaro, Alcide Pedretti.
Per tale atto eroico fu insignito della medaglia d’oro al valor militare alla memoria e nel 1942 l’Università di Padova lo onorò conferendogli la laurea ad “honorem alla memoria”. Volontario alla guerra di Spagna, con l’inizio della seconda guerra mondiale Tesei fu destinato a operare presso la V Squadriglia della 1ª Flottiglia MAS di base a La Spezia, utilizzando i Mezzi speciali d’assalto a cui aveva dedicato i suoi studi e le sue esperienze a partire dal 1935. Nell’agosto 1940 fu decorato con la Medaglia d’Oro di 1ª Classe in riconoscimento della sua indefessa opera creativa e di studio. Per aver partecipato alle operazioni di salvataggio dell’equipaggio del sommergibile Iride, affondato da azione aerea nel Golfo di Bomba, mentre stava trasportando mezzi e operatori destinati a violare la base navale inglese di Alessandria d’Egitto, fu decorato con una Medaglia d’argento al valor militare, e promosso al grado di Maggiore G.N. in data 12 dicembre.
Teseo Tesei e Durand de la Penne sono due esempi di eroismo che ci vennero riconosciuti persino dai nostri più acerrimi detrattori, cioè gli inglesi.
Il vicegovernatore di Malta, sir Edward Jackson, ricordando l’episodio in cui Tesei affrontò la morte, scrisse: “Nel luglio scorso gli italiani hanno condotto un attacco con grande decisione per penetrare nel porto, impiegando MAS e siluri umani armati da squadre suicide (…). Questa impresa ha richiesto le più alte doti di coraggio personale.”
Durand de la Penne a Taranto nel marzo 1945, su invito del luogotenente del Regno Umberto di Savoia che presiedette la cerimonia, venne decorato dallo stesso sir Charles Morgan, che nel 1941 comandava la Valiant, che era diventato ammiraglio.
Secondo Tesei il siluro pilotato era da considerarsi più un’arma morale che non destinata a infliggere gravi danni al nemico; era solito dire:
“Occorre che tutto il mondo sappia che vi sono italiani che si recano a Malta nel modo più temerario: se affonderemo qualche nave, oppur no, non ha molta importanza: quel che importa è che noi si sia capaci di saltare in aria col nostro apparecchio sotto l’occhio del nemico: avremo così indicato ai nostri figli e alle future generazioni a prezzo di quali sacrifici si serva il proprio ideale e per quale via si pervenga al successo.”
Dal canto suo, Durand de la Penne, seguendo un impeccabile codice d’onore militare, al fine di far porre in salvo l’equipaggio, informò il comandante dell’unità inglese dell’imminenza dello scoppio della carica.
Il Siluro a Lenta Corsa (SLC) fu un’invenzione proprio di Teseo Tesei che elaborò un progetto di rinnovamento relativo alla torpedine, che durante la prima guerra mondiale fu utilizzata per affondare l’ammiraglia austriaca Viribus Unitis, per arrivare a costruire un’arma che avesse sulla precedente importanti vantaggi, cioè che permettesse, a due uomini, di vivere, navigare, dirigersi contro un bersaglio e attaccarlo liberamente sott’acqua.
Quest’arma fu appunto il Siluro a Lenta Corsa, denominato “maiale” per la sua forma tozza e fu il micidiale strumento utilizzato contro le navi inglesi ormeggiate a Malta e Alessandria d’Egitto dai nostri marò.
A differenza di costoro, Jaures Cavalieri fu un “indomito combattente della libertà” Jaures Cavalieri fu un “indomito combattente della libertà”, come lo definì nel 1998 nell’elogio funebre il segretario dell’Anpi di San Faustino, quartiere orientale di Modena, uno fra i tanti partigiani da portare ad esempio. E fu tanto altro ancora. Fu uno dei più spietati assassini di tutta la Resistenza, un partigiano che poté vantare una quarantina di stupri e l’uccisione di un numero impressionante di persone. Nessuna delle donne da lui stuprate sopravvisse alla violenza.
Un’altra delle sue imprese fu la tortura e la morte, dopo quindici giorni di agonia, di un bambino di 11 anni, Angiolino Cattabriga fratello di Paolina Cattabriga, di Cavezzo (MO), quest’ultima di 15 anni, prelevata insieme alla madre il 16 aprile 1945 dalla tristemente nota “banda di Cavezzo”, il nucleo partigiano alle dirette dipendenze della Brigata Partigiana Garibaldi e costretta ad un calvario di 12 giorni prima di ottenere la “grazia della morte”.
Le sue vittime non erano fasciste e non appartenevano alla borghesia se non in un solo caso, quello dei fratelli modenesi Alberto e Tina Morselli.
Era la sera del 10 aprile del ’45 quando quattro partigiani comandati dal Cavalieri irruppero nella loro villa sequestrando il fratello Alberto, unico loro obiettivo. Nel trambusto accorse dal piano superiore la sorella Tina, una bella donna sulla quarantina. Era in vestaglia e questo scatenò le pulsioni del partigiano e la condanna a morte della donna.
Mentre il Cavalieri e un altro partigiano s’allontanavano coi sequestrati, gli altri compagni presero a rovistare e rubare quanto di più prezioso vi fosse: denaro, orologi, macchine fotografiche, biciclette eccetera.
In lacrime e implorante Tina Morselli fu trascinata fin sull’argine del Secchia e mentre il fratello veniva subito abbattuto, subì violenza dal Cavalieri e poi dall’altro, il partigiano “Fulmine”, all’anagrafe Egidio Sighinolfi.
Un’ora dopo, terminato il doppio stupro il Cavalieri uccise la donna con tre colpi di pistola al viso, poi, aiutato dall’altro, ne gettò il corpo nella fossa, sopra quello del fratello. Così furono trovati nella esumazione avvenuta nel 1950.
Al processo risultò che i Morselli non erano mai stati fascisti e anzi avessero aiutato la Resistenza con cospicue somme di denaro e che quando Alberto volle controllarle e confrontarle col responsabile del Comitato di liberazione, esse non corrispondevano.
Questa fu la causa che determinò la decisione della sua soppressione.
Per farlo occorreva un’accusa, e fu quella di spia, generica ma sempre efficace.
Al processo risultò anche la spoliazione del suo cadavere dell’orologio e di trentamila lire.
Il Sighinolfi, reo confesso, fu condannato a 24 anni e così il Cavalieri che nel frattempo il partito aveva fatto fuggire in Jugoslavia.
Episodi come questo venivano poi definiti eccessi dall’Anpi di turno.
In realtà erano la regola nelle fila del partigianato marxista che, anche quando ammantava le sue infamie di un’aura idealista e politica, perseguiva i suoi fini con mezzi banditeschi, comunque spregevoli e vigliacchi.
E’ stato un capo partigiano come Giorgio Bocca a scrivere che il terrorismo: “…non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio”
Si cerca, cioè, con fredda determinazione quella “strage indiscriminata” che solo la turpe ipocrisia di certa politica può provare a definire come “atto gi guerra”. Ogni riferimento alla ripugnante mattanza di via Rasella è puramente voluto.
Fu Secchia a proclamare: “è venuta l’ora del terrorismo”, più chiaro sarà Arturo Colombi, responsabile della Federazione comunista di Torino, nel 1944, in una relazione ai suoi vertici, che gli raccomandano più attenzione negli attentati ai locali pubblici (in uno è morta la piccola figlia del ristoratore) a puntualizzare: “Si è sempre colpito giusto, può darsi che qualche pedone o cameriere sia stato colpito, ma è la guerra. In quanto al pubblico, non ha che non frequentare luoghi di ritrovo di tedeschi e traditori… non si fa del terrorismo senza rischiare di colpire anche degli innocenti”.
Siamo proprio nella fattispecie prevista dalla Treccani alla voce “terrorismo: “violenza illegittima finalizzata ad incutere terrore nei membri di una collettività organizzata”.
Quindi, “terroristi” i partigiani come i loro epigoni islamisti, anticipatori anche in un certo gusto per dare la morte in maniera appariscente e raccapricciante. Jhaidi John usava l’affilato coltello per tagliare gole; Camesasca e Sgobaro, due tra i più noti gappisti milanesi, finiscono a martellate e colpi di lima, per strada due Ufficiali tedeschi, in una scena da film del terrore e splatter che possiamo solo immaginare.
Da una parte, abbiamo gli Uomini che agirono sulla base della loro Fede e seguendo un rigido codice d’Onore militare che dettò un limite anche alla violenza bellica, riservandola ai mezzi e risparmiando le vite dei militari, seppure nemici.
Da un’altra parte, ci sono i “banditi” senza regole che seguono i dettami del:
“TESTO DELLA CIRCOLARE 574 del C.V.L. COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE I^ DIV. AUT. VAL CHISONE – A. SERAFINOCOMANDO – Segreto – Ogg. Disposizioni sul trattamento da usarsi contro il nemico –
Al Com.te Brigata M. Albergian E.I. – Al Com.te Brigata Val Dora
Ricevo e trasmetto le disposizioni avute dal C.V.L. nei riguardi del nemico. Gli appartenenti alle Brigate Nere, alla Folgore, Nembo, Xa Mas e tutte le truppe volontarie sono considerati fuori legge e condannati a morte. Uguale trattamento sia usato anche ai feriti di tali reparti trovati sul campo. Abituato a non discutere gli ordini che ricevo non tollererò nessuna infrazione al riguardo.
I Com. di Brigata diano disposizioni ai loro uff. e così via in merito. Di tale trattamento sono esclusi gli Alpini della M.R. AD ECCEZIONE DEGLI Uff. superiori e dei volontari. In caso che si debbono fare dei prigionieri per interrogatori ecc. il prigioniero non deve essere tenuto in vita oltre le tre ore.
IL C. DI DIVISIONE
Marcellin
(timbro tondo ad inchiostro con la scritta 1° DIV. ALP. AUT. VAL CHISONE C.V.L. – COMANDO).”
Ecco le figure di Durand de la Penne e Teseo Tesei sono emblematiche. Nessuno dei due aderì alla RSI. L’uno aderì al fronte monarchico, l’altro si sacrificò eroicamente, ma entrambi furono due italiani esemplari che forse, dopo l’8 settembre, si sarebbero trovati su fronti avversi, ma con un atteggiamento, uno stile di vita e un metodo di combattimento che ne esalta le figure di eroi leali e coraggiosi. E’ lo stesso stile di coloro che continuarono a combattere a viso aperto il nemico invasore solo per coerenza e fedeltà, per essere d’esempio e riscattare l’Onore dell’Italia.
Cavalieri, al contrario, è il campione di quelli che colpivano vigliaccamente alle spalle e che, in nome del comunismo, tradivano le alleanze e la Patria.
Gli eroi usavano i “maiali” per navigare, dirigersi contro il nemico e attaccarlo liberamente sott’acqua; gli altri erano maiali nell’animo e usavano i civili come scudo, capro espiatorio e oggetto delle loro nefandezze.
E sono ancora talmente maiali da continuare a celebrare, con arroganza e senza vergogna, il ricordo della loro infamia.
Enrico Marino
Fonte illustrazione: http://www.albertoparducci.it/
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