9 Ottobre 2024
Tradizione Romana

L’oblio sulla grotta della natività di Roma. A chi fa paura il Lupercale? – Paolo Casolari

L’ha (ri)scoperta nell’angolo sud occidentale del colle Palatino, nel novembre 2007, la Soprintendenza archeologica di Roma. Si trova nell’area dei palazzi di Augusto, in asse tra il Tempio di Apollo e l’attuale Basilica di S. Anastasia, a ridosso di quest’ultima e prospiciente il Circo Massimo. E’ sepolta sotto 16 metri di terra e finora è stata solo esplorata da una telecamera sonda la quale ha mostrato una struttura di 9 metri di altezza per 7,5 di diametro, con le pareti riccamente decorate da motivi geometrici realizzati a mosaico policromo e filari di conchiglie, con al centro l’aquila di Augusto. A detta delle autorità in materia, è la grotta della natività della Romanità, la nostra “capanna di Gesù bambino” (e vedremo il parallelismo non è un gioco di parole), l’antro nel quale approdarono, sospinti dalle acque del Tevere, i gemelli Romolo e Remo. Ovvero, il Lupercale. «È incredibile pensare» dichiarò l’allora ministro per i Beni culturali Francesco Rutelli «che possa essere stato finalmente trovato un luogo mitologico, oggi diventato finalmente reale». E il soprintendente archeologo, Angelo Bottini, così certificò: «Abbiamo la ragionevole certezza che quella sia la grotta della lupa». Entusiasta per «una delle più grandi scoperte mai fatte» il professor Andrea Carandini. Insomma, un ritrovamento che fa uscire Romolo e la lupa dalla leggenda, per farli entrare nella storia dalla porta principale. Un’altra sonora scoppola dell’archeologia alla storiografia. Ebbene, sono passati dieci anni e cosa è successo? Studi, ricerche, nuovi scavi, dibattiti sull’eccezionalità del rinvenimento? Nulla di tutto questo. Nulla di nulla. Tutto fermo a quel giorno di novembre. Una annosa cortina di nebbia e di silenzio sospetto ha, infatti, sepolto di nuovo il Lupercale. Se mai avessero trovato qualcosa del genere all’estero, sarebbe diventata un’attrazione “mondiale”. Da noi no. Un mefitico silenzio ha avvolto lo scavo. Proviamo allora ad abbozzare una spiegazione all’apparente mistero, partendo dall’inizio.

Il Lupercale

La fonte più diretta sull’esistenza del Lupercale è Dionigi di Alicarnasso. In Antichità Romane (I, 32, 3-5; I, 79, 8) scrive: “C’era un sacro luogo, coperto da un folto bosco, e una roccia cava dalla quale sgorgava una sorgente; si diceva che il bosco fosse consacrato a Pan, e ci fosse un altare dedicato al dio. In questo luogo giunse la lupa e si nascose. Il bosco non esiste più, ma si vede ancora la grotta nella quale sgorga la sorgente, costruita a ridosso del lato del Palatino sulla strada che porta al circo, e vicino c’è un recinto nel quale è una statua che ricorda la leggenda: rappresenta una lupa che allatta due neonati, le figure sono in bronzo e di antica fattura. Si dice che in quest’area ci sia stato un santuario degli Arcadi che, in passato, giunsero qui con Evandro. In questo luogo i Romani costruirono un altare al dio e fecero il loro tradizionale sacrificio, che hanno continuato a offrire in questo giorno del mese di febbraio, dopo il solstizio di inverno, senza alterare nulla nei riti allora stabiliti. Questo posto i Romani lo chiamano il Lupercale”. Altre fonti che citano il Lupercale sono Livio (Ab Urbe Condita, I, 5.1.), Virgilio (Eneide, VIII, 342-344), Ovidio (Fasti, II, 381-382.), Plutarco (Romolo, 3-4), VelleioPatercolo (Historia Romana 1.15.3), Varrone (De Lingua Latina 5.54). Il primo imperatore Giulio Cesare Ottaviano Augusto – il rifondatore degli antichi culti che si considerava erede dei re del Lazio Pico, Fauno, Latino e di Enea in quanto membro della gens Iulia per essere stato adottato da Cesare – nelle sue Res Gestae ricorda con orgoglio di aver restaurato il Lupercale. Nell’area del suo immenso palazzo edificato su Palatino, che dominava l’antico approdo sul Tevere, inglobò la sacra grotta restaurata. Il Lupercale compare ancora nel IV secolo sui Cataloghi Regionari (elenchi di monumenti) della Regio X Palatium. Successivamente, per secoli, se ne perde memoria scritta. Solo nel 1526 una grotta-ninfeo decorata con conchiglie e pietre venne riscoperta ai piedi del Palatino: secondo il noto archeologo e topografo Rodolfo Lanciani (che pubblicò la Forma UrbisRomae, la mappa di tutti i resti conosciuti della Roma antica su fonti della pianta marmorea severiana) si tratta proprio del Lupercale. La scoperta del 2007 conferma tutte queste fonti.

I Lupercali

(Lupercalia) erano la più antica e più duratura ricorrenza della Romanità: basti pensare che la si celebrò per ben milleduecento anni, sino al sesto secolo dell’era volgare, in piena epoca cristiana. Solo allora vennero aboliti da papa Gelasio e sostituiti/silenziati con la festa di S. Valentino (anticipata di un giorno). La celebrazione romana propiziava l’esplosione del caos, la fecondità delle femmine e della terra e sanciva il passaggio all’età adulta dei giovani maschi. Si teneva due giorni dopo le idi, il 15 febbraio e “ruotava” tutt’attorno al Lupercale. L’origine leggendaria, citata anche da Ovidio, la fa risalire al regno di Romolo e a un prolungato periodo di sterilità femminile: si invocò Giunone e si ottenne un responso inquietante: le donne dovevano essere penetrate da un sacro caprone; un augure etrusco interpretò l’oracolo nel senso di sacrificare un capro e tagliare strisce di pelle con cui colpire le donne affinché, dopo dieci mesi lunari, potessero  partorire. La festa/cerimonia/rito funzionava così. La mattina “scendevano in pista” due schiere contrapposte di giovani romani: dodici Fabiani e altrettanti Quinctiales, nudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia. I Quinctiales erano legati alla famiglia Quinctii e associati con Romolo; i Fabiani erano legati alla famiglia Fabii ed erano associati con Remo. Dopo il 45 e.v. si aggiunse il terzo gruppo dei Iuliani in onore di Caio Giulio Cesare. Si partiva la mattina con una cerimonia (fonte Plutarco) che “iniziava” i nuovi luperci. Il rito avveniva nella grotta del Lupercale: qui si sacrificavano capre e un cane. Dopodiché i nuovi adepti venivano segnati sulla fronte, intingendo il coltello nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra. Il significato era quello di un atto di morte e poi di rinascita. Successivamente venivano fatte indossare ai luperci pelli delle capre sacrificate, dalle quali venivano tagliate delle strisce, le februa o amiculumIunonis, da usare come fruste. Compiuto un pasto abbondante, tutti i luperci, vecchi e nuovi iniziati, partendo dal Lupercale  iniziavano una corse forsennata intorno al colle Palatino. Saltavano e colpivano con rami di fico selvatico il suolo per favorirne la fertilità e percuotevano le giovani donne con le fruste per propiziarne ed ottenerne la fecondità. Le ragazze, ridendo di spavento alla vista di questi giovani invasati e fallici, offrivano loro volontariamente il ventre; col tempo si limitarono alle palme delle mani. I luperci – lupi/hirci – erano, dunque, lupi nella loro corsa sfrenata intorno al colle e capri nell’infondere la fertilità dell’animale alla terra e alle donne. Dopo la lunga corsa sfrenata e propiziatoria, i giovani, sfiniti e rischierati, entravano ufficialmente in città, nel Foro, attraversando il più antico arco di Roma, il Tigillum(trave)Sororium(delle sorelle), a menzione di Giunone Sororia, patrona delle giovani a cui maturano i seni, ovvero sororiano(crescono insieme, come sorelle). L’attraversamento di questa porta segnava solennemente per i luperci il passaggio dal tempo selvaggio giovanile, che se ne andava via per sempre, al tempo del cittadino e della romana disciplina. Non conosciamo le regole precise della sfida tra le due squadre, sappiamo però che la festa/rito/cerimonia vedeva la partecipazione convinta di tutta l’Urbe ed i figli delle famiglie più in vista facevano a gara per unirsi ai luperci, i quali terminavano la giornata con un gigantesco e festoso banchetto collettivo. La festa spiega la centralità, anche funzionale, della grotta del Lupercale nella Romanità (e l’attenzione di Augusto nel restituirla agli antichi fasti): era questa un topos simbolico e fisico ove celebrare  il rito della cerimonia annuale che annodava, e insieme garantiva, la connessione tra la nascita della Civitas Romana e il ciclo eterno della vita che si rinnova a se stessa.

Il primo Natale cristiano al … Lupercale

Nel IV secolo l’imperatore Costantino fece edificare la prima costruzione cristiana del centro di Roma: S. Anastasia, dedicandola alla sorellastra. Oggi la chiesa è caduta quasi nel dimenticatoio ed è fuori dai circuiti turistici, ma all’inizio dell’era cristiana era la terza per importanza a Roma, dopo il Laterano e S. Maria Maggiore. La sua posizione, alle pendici del Palatino verso il Circo Massimo, la fece eleggere a chiesa di corte imperiale (titulsAnastasiae). Sappiamo che in S. Anastasia i papi, a partire dal V secolo, celebravano regolarmente il 25 dicembre il Natale di Cristo. Fu Sisto III a introdurre l’uso di un rito solenne tripartito: poco dopo la mezzanotte il vescovo di Roma teneva la prima messa nella basilica di S. Maria Maggiore; dopo, prima del sorgere del sole, celebrava la seconda in S. Anastasia; infine, all’alba, la terza messa in S. Pietro. L’uso di celebrare a Roma il Natale in data fissa, il 25 dicembre, era già documentato a partire dal 336 e. v. nel DepositioMartyrym, il calendario liturgico di Filocalo (in precedenza non c’era  tradizione unitaria sulla ricorrenza e le comunità cristiane la festeggiavano con irregolarità e in mesi diversi). Era stato Costantino – l’imperatore che aveva già concesso la libertà di culto ai cristiani nel 313 e si era occupato della data della Pasqua nel 325 (Nicea) – a sovrapporre la festa per la nascita del Cristo alla ricorrenza romana della nascita del Sole invincibile (Natalis Solis Invicti), festa calendariale che Aureliano, nel 274 e.v., stabilì al 25 dicembre, al culmine delle feste solstiziali che seguivano i Saturnali e a suggello millenario della tradizione di culti solari che attraversava tutta la storia della romanità e del mondo italico (dalla Valcamonica ai Pelasgi, dall’Ausel del sabini all’An-sur, il non spento, di Terracina, dal Monte del Sole/Soratte, al Sol Indiges di Laurento, sino alla definitiva consacrazione augustea, con l’edificazione del tempio di Apollo entro il pomerio). Il Cristo che-ci-salva-la-vita, dunque, prendeva il posto del Sole che-dà-la-vita. Ma Costantino si spinse anche oltre. Fece in modo che la prima officiatura del natale di Cristo avvenisse proprio nella chiesa di S. Anastasia. E perché mai? Oltretutto, l’imperatore aveva già spostato la capitale a Bisanzio/Costantinopoli. Sarà forse perché a ridosso della basilica di S. Anastasia c’è il Lupercale? Costantino, facendo celebrare la prima messa di Natale, e fissandola simbolicamente in S. Anastasia, prese “politicamente” due piccioni con una fava, imponendo la svolta (cristiana) alla storia. Operando una ulteriore sovrapposizione/mistificazione dopo quella della data, assimilò (e tombò) la natività di Roma, rappresentata dal Lupercale, all’altra natività d’importazione, quella del Nazareno e della sua grotta/capanna, trasformando così il vecchio culto in favore del nuovo, con una forzatura che tuttavia non operava tagli netti alla Tradizione. Grotta per grotta, nascita per nascita. E, da romano-nonostante-tutto, lo fece in situ, per assicurarsi coerenza formale e continuità ideale (non a caso aveva fatto precedere l’erezione della sua Costantinopoli dai riti romani di fondazione). Da Roma, e solo da Roma, con la sua autorevolezza e con le e sue consolari, la novità del Natale cristiano poté espandersi, come fece, a tutto il mondo conosciuto e dominato: dall’Italia alla Bretagna, alla Spagna, all’Africa settentrionale, al Medio oriente, ai Balcani. Se oggi festeggiamo il 25 dicembre, con l’annesso immaginifico della grotta e della nascita del “Salvatore” figlio di dio e di vergine, è grazie a tutto questo. Dunque, come ha ben scritto Carandini (La casa di Augusto. Dai “Lupercalia” al Natale, Roma-Bari, 2008) è assolutamente certo che “alle pendici del Palatino si erano succeduti natali, epifanie e fondazioni tra Romolo, Augusto e Cristo”, ma questa verità, incontestabile, è oggi assai imbarazzante per la Chiesa cattolica. E’ questo il motivo per cui, per Roma e per l’Italia, il Lupercale deve rimanere sepolto? Col favore degli insipienti e dell’opinione pubblica, crediamo che più di qualcuno pensi sia un bene che Romolo rimanga una favoletta: sai mai che possa tornare alla memoria che purelui è figlio di dio (Marte) e di vergine (Rea Silvia).

 Paolo Casolari

Paolo Casolari è un giornalista professionista e saggista. Autore di “Roma dentro” (MMC Edizioni, 2013), L’Anima muore di sera (Irradiazioni 2006), Saturnia Tellus (Edizioni L’Orbicolare, 2004). Dirigente del Movimento Tradizionale Romano, curatore del sito www.saturniatellus.com. Cultore della Tradizione romana e della storia militare italiana del ‘900.

4 Comments

  • Giandomenico Casalino 8 Maggio 2017

    Caro Paolo, mi complimento con Te per il Tuo ottimo articolo, poiché sei riuscito a dimostrare, in guisa semplice ed accessibile, che la cosiddetta storia è effettivamente la metafora del Mito: chi conosce e possiede i Miti e i Simboli possiede gli Animi, il resto è sciocchezza e strumento di dominazione essoterica delle plebi ignoranti!
    Giandomenico Casalino

  • Giandomenico Casalino 8 Maggio 2017

    Caro Paolo, mi complimento con Te per il Tuo ottimo articolo, poiché sei riuscito a dimostrare, in guisa semplice ed accessibile, che la cosiddetta storia è effettivamente la metafora del Mito: chi conosce e possiede i Miti e i Simboli possiede gli Animi, il resto è sciocchezza e strumento di dominazione essoterica delle plebi ignoranti!
    Giandomenico Casalino

  • Fabrizio Modestini 8 Maggio 2017

    C’è da supporre che se quella fosse stata la grotta dove so stava in preghiera Maometto durante un suo ipotetico soggiorno a Roma a quest’ora sarebbe al centro dell’attenzione generale e oggetto di diversi studi. Bisogna costituire un gruppo per l’apertura del Lupercale come quello già esistente per la riapertura del museo della Civiltà Romana.

  • Fabrizio Modestini 8 Maggio 2017

    C’è da supporre che se quella fosse stata la grotta dove so stava in preghiera Maometto durante un suo ipotetico soggiorno a Roma a quest’ora sarebbe al centro dell’attenzione generale e oggetto di diversi studi. Bisogna costituire un gruppo per l’apertura del Lupercale come quello già esistente per la riapertura del museo della Civiltà Romana.

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