Chi non lavora non fa l’amore o chi lavora troppo non ne fa più?
É di questi giorni la notizia dell’aumento dell’etá pensionabile ad 85 anni in Giappone.
Giappone, terra del Sol Levante; terra del karoshi, la morte per il troppo lavoro; terra d’abnegazione; terra di progresso.
La longevità é il tratto distintivo della popolazione giapponese e tale longevità viene sfruttata per assecondare le folli pretese e i diktat imposti dalla produzione selvaggia, tanto che obiettivo prossimo e concreto è la completa eliminazione dell’età pensionabile. Vivere per lavorare, vuol dire vivere? É il lavoro che si impone sulle vite private e surclassa la dignità dell’uomo. Siamo uomini o macchine?
Il Giappone ha uno dei più bassi tassi di natalità al mondo, si stimano 1,4 figli a famiglia, il tempo da dedicare agli affetti è ai minimi termini, ma anche in un’ottica prettamente consumista, questa tendenza non risulta vincente, ritorcendosi contro chi l’ha imposta e spacciata per modello vincente, portando difatti, lo stato stesso a dover rinunciare ad almeno 27 milioni di lavoratori che non nasceranno, nel futuro prossimo.
Lavoratori, non me la sento di chiamarli uomini, totalmente spersonalizzati, che affrontano mediamente cento ore di straordinari ogni mese, 2159 suicidi annui per problemi sul lavoro.
Nasci, lavori, muori.
In Italia lo scenario non è dei migliori, il lavoro in nero, l’immigrazione incontrollata che porta ad un macabro gioco al ribasso per i compensi, basti pensare al lavoro nei nostri campi pagato a 2/3 euro l’ora. In Italia si muore ancora sotto il sole nei campi per 3 euro l’ora .
E la disoccupazione giovanile, la precarietà dei lavoratori tra i venticinque e trentaquattro anni, con picchi del 35% dei laureati e le parole del Presidente Istat, Giorgio Alleva che ha confermato l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni nel 2019. É bene ricordare che la legge prevede un meccanismo automatico di adeguamento alla speranza di vita, che aumenta ogni due anni, dunque se nel 2019 si andrà in pensione a 67 anni, nel 2021 si raggiungerà il traguardo della pensione a 67 anni e tre mesi.
In quest’ottica ha senso continuare a pagare i contributi? Quando ne potremmo beneficiare?
In Italia cominciammo a parlare di previdenza sociale nel 1861, immediatamente dopo l’Unità d’Italia, grazie sopratutto alla spinta fornita dalla rivoluzione industriale, così nel 1895 vi è grande attenzione per il settore degli infortuni sul lavoro (unicamente del personale statale), ma occorre attendere il 1927 per vedere il riconoscimento in capo a tutti i lavoratori dei contratti collettivi di lavoro e di una più rigida ed estesa applicazione della mutualità e della previdenza.
La rivoluzione innescata non si arresta e tra il ’33 ed il ’35 viene istituito INFPS, che sostituisce la Cassa Nazionale per la previdenza sociale e ad oggi porta il nome INPS. La vera innovazione di questo periodo é l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria per la tubercolosi, dell’assicurazione per la disoccupazione involontaria, ma soprattutto vengono introdotti gli assegni familiari per i figli a carico e la riduzione dell’orario lavorativo con ben due giorni di riposo settimanale e alla famiglia, rispondendo difatti alla necessità precisa e dichiarata di incentivare la crescita demografica. Tale ratio é coadiuvata dall’istituzione dell’Opera Nazionale Dopolavoro (OND), un servizio prettamente sociale che si occupava dell’istruzione dato l’elevato tasso di analfabetismo, delle attività ricreative sia sportive che turistiche, e per le donne vi erano corsi di pronto soccorso, igiene ed economia domestica. Uno stato sia padre che madre che si occupava d’arte, di musica, di cinema, di radio e di folklore, si condivideva, si sapeva stare insieme o almeno lo immagino.
É nel ’39 che viene fissata e ridotta l’etá pensionabile a sessant’anni per gli uomini e cinquantacinque per le donne.
Ho letto anche che in molti si divertono a falsare questi dati facilmente consultabili su siti istituzionali, questi nello specifico sono stati presi dal sito CISL, senza apologia ne mitomania, preferendo sminuire ed insabbiare la realtà dei fatti anche quando si tratta di sano progresso e sacrosante battaglie sociali e non social.
Settantotto anni sono passati e ci sentiamo tanto liberi ma viviamo nella paura, siamo diventati “ultra-bacchettoni”, misurando ogni parola, offendendoci e indignandoci per la qualunque, vuota apparenza senza ne forma ne sostanza.
Pretenziosi e volgari, sbandieratori professionisti d’ignoranza, tuttologi seriali senza competenza alcuna. Così emancipati eppure così sottomessi, assuefatti dalla vana ebrezza del sentirsi invincibili, dietro il nostro pc ultra piatto pagato a rate, armati dei nostri scintillanti smartphone ultima generazione, vestiti d’abiti tutti uguali, splendidi manichini, che nemmeno fossimo in un’esercito saremmo così precisi, roba che se ci fosse stato imposto per legge ci saremmo ribellati… si ma con un post su facebook.
Cosí disarmati, così soli.
Nicole Ledda