8 Ottobre 2024
Tradizione

L’umiliazione come pratica religiosa – Emanuele Franz

Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” Vangelo di Luca (Lc 14,1.7-14)

Siamo abituati a pensare che la mortificazione e l’umiliazione siano un retaggio di pratiche religiose estreme, appartenenti ad una epoca medioevale e parlarne significa, di primo acchito, essere anacronisti. Tutt’altro che limitate alla religione cristiana mostreremo in questa analisi che le pratiche della umiliazione e della mortificazione per fini religiosi sono tutt’altro che limitate e circoscritte ma anzi si diffusero in più religioni e continenti.  Innanzitutto perché? Perché sottoporre il corpo e la psiche alla degradazione, alla umiliazione, alla sofferenza? Gli antichi Egizi nei loro Misteri sottoponevano l’adepto a periodi di clausura al buio e al digiuno convinti che solo così la mente poteva raggiungere quella crisi, quello smarrimento, necessario alla rinascita dell’adepto come iniziato alla conoscenza più alta dei Segreti. La coscienza ordinaria, sicura di sé stessa, era ritenuta incapace di penetrare in altre sensazioni se non appunto attraverso una crisi e una sorta di angoscia autoindotta, o comunque indotta dal sacerdote. L’alchimia ricorda questa fase nella cosiddetta “opera al nero” o nigredo, in cui la materia, macerata nella putrefazione, nientifica le categorie di cui è condizionata per poi rinascere nell’opera al bianco. E la nigredo, nella metafora psichica, è morte interiore, separazione dall’Ego, sofferenza, crisi e in un certo modo anche umiliazione del sé, laddove per sé si intende l’Ego ordinario. Con questa analisi non si vuole assolutamente suggerire a nessuno di sperimentare

le pratiche descritte, essendo estreme, ma solamente mostrare come siano state e siano una pratica religiosa che, laddove condotta con grande preparazione e cognizione di causa ( quindi non da tutti ) possa portare a delle alterazioni della coscienza descritte dai mistici come Estasi ( Ex-stasi, uscita da sé).

Sappiamo che il mondo cristiano ha fatto della mortificazione una delle sue colonne portanti poiché la Passione di Cristo stessa è il processo attraverso il quale Lui raggiunge la resurrezione attraverso la vessazione, l’umiliazione, la flagellazione e la crocifissione.

Tutti sentenziarono che era reo di morte. Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano.” Marco (14, 1 – 15, 47)

Sopportare l’aggressività degli altri e perdonarla è un atto divino che rende Gesù appunto il Cristo, il salvatore, colui che ci redime dalla nostra miseria umana, fatta di oltraggi e cattiveria.  Ancora molto crudo il Vangelo di Marco dice della Passione:

E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso (…) Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.”

Dalla Passione del Cristo ne è discesa una sensibilità cristiana della mortificazione per raggiungere uno stato di elevazione maggiore, e questa sensibilità si è manifestata in svariate pratiche e dottrine posteriori. Ad esempio nei Flagellanti medioevali del XIII secolo, caratterizzati dalla pratica dell’autoflagellazione in pubblico. Ma la flagellazione fu una forma di penitenza e devozione impiegata da numerosi ordini religiosi, quali camaldolesi, cluniacensi, francescani e meno frequentemente domenicani. Essa serviva non solo come pratica religiosa e mortificatrice ma anche come mezzo per ottenere una comunicazione con Dio.  A Perugia, Raniero Fasani eremita francescano, influenzato dalle dottrine di Gioacchino da Fiore, fondò il primo gruppo di flagellanti, la «compagnia dei disciplinati di Cristo».

Ma si consideri anche S. Maria Margherita di Alacoque. Santa, com’è noto, che fu l’iniziatrice del culto del Sacro Cuore di Gesù. Margherita, per fugare le tentazioni, si infliggeva penitenze sempre più atroci. Cominciò la sua vita monastica imponendosi di bere soltanto una volta la settimana, ed esclusivamente la risciacquatura dei piatti del convento; poi s’incise sul petto, con un coltello, il nome di Gesù, ribadendo l’atroce tatuaggio, che rischiava di cicatrizzarsi troppo rapidamente, con la fiamma d’una candela; o ancora, dovendo un giorno pulire il vomito d’un malato, avvertì, come ci confessa nel suo Diario (pubblicato nel 1915 con una prefazione del papa dell’epoca, Benedetto XV, che additava in Margherita «un modello per tutti i cristiani») «un impulso irresistibile a raccoglierlo con la lingua»; e infine, trovandosi ad assistere una donna malata di dissenteria e provando un senso di disgusto, s’impose d’inghiottirne le urine e ne avrebbe perfino inghiottito gli escrementi solidi se, come ci ricorda sempre nel Diario, non le fosse apparso il volto di Gesù che amorevolmente l’ammonì e la dissuase, ricordandole che «non era l’ora della refezione». Leggiamo alcuni passi dei suoi diari: “Mi legavo le dita e vi piantavo degli aghi; in quaresima ogni giorno usavo la disciplina il più possibile per onorare i colpi di frusta della sua flagellazione. Ma per quanto a lungo mi battessi con la disciplina, non avevo abbastanza sangue da offrire al mio buon Maestro in cambio di quello che Lui aveva versato per mio amore. Poiché era sulla schiena che mi battevo, ci mettevo sempre un po’ di tempo. (…)Sentivo una fame insaziabile di umiliazioni e mortificazioni, anche se per natura mi ripugnavano vivamente (…) Desideravo che si conservasse ricordo di me solo per disprezzarmi, umiliarmi e ingiuriarmi, perché null’altro mi è dovuto

Ma anche Santa Teresa d’Ávila, volendo emulare la sofferenza di Cristo, scrive nel suo -castello interiore- edito nel 1577: “Sapete cosa significhi essere davvero spirituali? Rendersi schiavi di Dio dandogli la nostra libertà, marchiati dal suo ferro, di modo che possa venderci come schiavi in tutto il mondo” Alle Sorelle Monache: “ognuna di voi cerchi di essere inferiore a tutte e loro schiava, vedendo in che modo o per quali vie può compiacere e servire le altre

Tecniche simili deve averle apprese Grigorij Efimovič Rasputin dalla setta mistica dei Chlysty una setta dichiarata eretica dalla Chiesa Ortodossa. Rasputin amava definirsi un “Cristo in miniatura” e praticava dei rituali di automortificazione che gli consentivano di superare la sua dimensione terrena, di staccarsi da sé, e penetrare pertanto nella dimensione inalterabile e inamovibile dello Spirito. Il monaco siberiano si incatenava, si faceva picchiare, si immergeva nel fango nudo lasciandosi divorare dagli insetti. Dai rapporti della polizia segreta degli Zar che lo spiavano sappiamo che pagava delle prostitute di San Pietroburgo per sputargli in faccia.  Lui la chiamerà “La gioia della sofferenza” e dirà: “L’ingiuria è una gioia per l’anima”. L’umiliazione volontaria del suo stato gli permette di accedere a un livello superiore e di staccarsi dal suo Ego. Ma anche il Mahatma Gandhi similmente si sottoponeva a discipline estreme come il silenzio, il digiuno e perfino alla castità. Rinunciò infatti ai rapporti sessuali all’età di 36 anni diventando totalmente casto sebbene sposato, pronunciando, secondo la tradizione induista, i voti di brahmacharya. Nonostante questo sottoponeva il suo voto di castità a durissime prove, andando a letto con donne nude, senza nemmeno sfiorarle, comportando per lui mortificazioni e tribolazioni.

Ma facciamo un salto nei secoli ora per mostrare come simili pratiche non erano per nulla contesto proprio dell’occidente e nemmeno della cristianità. Ci riferisce Walter Burkert nella sua monumentale: – La religione greca di epoca arcaica e classica- con estrema precisione e ricchezza di dettagli quelli che erano i rituali di Artemide Orthia a Sparta.  La descrizione più completa della cerimonia celebrata al santuario di Orthia, ci dice il Burkert, e la testimonianza canonicamente più utilizzata, è di Pausania (III, 16.10-11): gli efebi spartani vengono fustigati nei pressi dell’altare, tanto da cospargerlo di sangue, mentre la Sacerdotessa giudica l’intensità dei colpi reggendo in mano lo xoanon della Dea, il quale si appesantisce quando la violenza delle fruste cala. I ragazzini nudi venivano fustigati dalla Sacerdotessa, che incarnava la selvaggia Artemide, e a Lei veniva offerta l’umiliazione e la sofferenza degli efebi. I coribanti invece erano i sacerdoti della Dea Cibele, Dea della fertilità figlia di Urano e Gea. Le lunghe processioni orgiastiche che essi facevano in modo rituale in onore alla Dea prevedevano uno stato di esaltazione procurato con danze e suoni, danze sfrenate e orgiastiche, durante le quali spesso si autoinfliggevano delle ferite ai genitali e si vestivano da donne. Alcuni, nelle processioni equinoziali di primavera, arrivavano persino ad auto evirarsi. Umiliavano sé stessi vestendosi da donne e si flagellavano il pene per raggiungere il contatto con la Dea Madre. Anche la mistica ebraica ci ha lasciato vive testimonianze di tecniche mistiche che prevedevano di indursi il pianto e la tristezza, la mortificazione e l’angoscia, per raggiungere Dio. Moshe Idel, uno dei massimi studiosi di mistica ebraica, nel suo -Qabbalah- ci informa che secondo i testi della mistica ebraica il pianto autoindotto, come pratica di auto pentimento e umiliazione, consentiva al praticante il raggiungimento di uno stato di coscienza sovra terreno. Secondo queste tecniche la Shekhinah (la rivelazione) si ottiene per mezzo di una sofferenza volontaria autoindotta e culminante nel pianto. Ci si causava cioè uno stato di sofferenza, di disagio e afflizione volontari allo scopo di annichilirsi davanti a Dio e di essere in grado di ricevere la Sua Luce.  Ma si hanno esempi di tali tecniche persino nella mistica dei Tantra Induisti. Il Sadhu è un mistico della religione Indù, un santo e asceta. La più estrema delle sette di sādhu è quella degli Aghori, fondata da Kina Ram, un asceta del XVIII secolo. Ricercano l’illuminazione seguendo, tra i comportamenti di Shiva, quelli che sono considerati come i più fuori dalla norma. Gli si attribuiscono delle abitudini di impurità assoluta, come il consumo di carne in decomposizione, dei loro stessi escrementi e della loro urina, la meditazione seduti su un cadavere, l’unione sessuale con delle prostitute nel corso del periodo mestruale. In quest’ultimo caso, si tratterebbe di un rito tantrico attraverso il quale essi si incarnerebbero con la loro partner in Śiva e Kali. In effetti, gli Aghori pensano che gli estremi siano identici e che la distinzione tradizionale indù tra puro e impuro sia solo il risultato di Māyā, l’illusione da cui si vogliono liberare. Secondo l’Hevajra  Tantra  (2:7, 5-13)  e il Guhyasamaja Tantra il consumo di feci e urina consente al devoto di divenire signore dei poteri magici. Nei samaya o “impegni” si insiste in diversi testi sull’opportunità di abituarsi alle cose più immonde, come cibarsi e spalamarsi di feci, bere urina e seme, assaggiare carne umana e tutto ciò per superare la dualità di puro/impuro piacevole/disgustoso e raggiungere così l’unità. Nel Vijnana bhairava tantra si fanno uso di tecniche ancora più estreme, consistenti nell’infliggersi volontariamente il dolore per giungere alla realtà del Brahman. L’aforisma n.91 dice:  “Per lo yogin che, trafitto qualche membro del corpo con una spina acuminata, ecc., vi applichi la mente, ecco che lì si invera l’immacolata conoscenza di Bhairava (Śiva)”  Somananda inoltre affermava che: “Śiva risplende anche nel dolore

Come si vede non vi è religione, nei suoi aspetti più mistici, che non abbia conosciuto l’umiliazione fra le sue pratiche per separarsi dalla dimensione terrena e giungere al divino. La pratica mistica dell’umiliazione, a mio dire, consiste in una potente prassi per giungere ad isolare il corpo e la psiche in una sfera e distaccarla da un piano che di per sé non può provare né dolore né umiliazione, ovvero lo Spirito. In fin dei conti ciò che si corrompe e si mortifica, ciò che si umilia, è sempre e solo il transitorio, non l’Asse portante dello Spirito. Esso non conosce consunzione né deterioramento. I devoti a questa pratica hanno un accesso, pur estremo, ma sicuro a questa Colonna inamovibile ed eterna che è lo Spirito. Chi infine lo ha raggiunto sa bene che la mortificazione della carne non sussiste, perché non c’è carne dove non c’è tempo, ed è illusoria l’umiliazione dell’Io poiché nell’Eterno non c’è Soggetto alcuno.

Emanuele Franz

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