Fine settimana. La giornata è grigia, pioggia lieve fitta fastidiosa. Tiro su il cappuccio dell’eskimo. A tracolla la sacca con i panini e da bere. Prendo un treno che discende verso il Baden-Wuerttemberg, costeggiando il Reno. ‘Lieb Vaterland, magst ruhig sein, – Fest steht und treu die Wacht…’. Canzone patriottica, ormai desueta in clima di buonismo democratico e di rimozione del recente passato con il rigetto totale o quasi della memoria storica – ‘gettare l’acqua sporca con dentro il bambino’, come si sussurra fra le cosche dei professori di filosofia. Versi incisi sul bassorilievo della statua, la Germania, figura femminile imponente e sgraziata, eretta tramite il bronzo fuso dei cannoni francesi catturati durante la guerra del 1870. Lo sguardo è severo e minaccioso rivolto verso la sponda opposta. Ci si arriva per sentieri fra vigneti bassi e protetti che rendono il paesaggio, nei giorni di sole, ridente e sereno. Il Reno non è più ferita aperta nell’Europa divisa e in conflitto al suo interno – ci hanno pensato il generale De Gaulle e il cancelliere Adenauer.
Il treno corre veloce, brevi soste lungo il percorso, pochi i passeggeri. Ho scelto uno scompartimento dove è permesso fumare. Ci sono solo io. Panini con prosciutto e il formaggio tagliato a fette spesse limonata frizzante sigarette senza filtro. Allungo le gambe, sonnecchio. La scelta di vivere in Germania, sperimentare il lavoro durante tutta la settimana a fare pacchi per i clienti alla cassa n. 5 all’interno della catena di magazzini Kaufhof, una spartana camera d’affitto, cuocermi due uova al tegamino sulla piastra della stufa e corpose tazze fumanti di tea scuro. Metà anni ’60.
Il treno va per depositarmi alla stazione di Karlsruhe. Dicono meriti essere visitata. Non ho però tempo a disposizione e la pioggia, che mi perseguita, non invoglia. Mi perdo il castello, d’inizio XVIII secolo, da cui partono, in numero di 32 (come nella rosa dei venti), a raggera strade e viali. Nucleo originario della città. Secondo la più accreditata leggenda Carlo III Guglielmo, margravio del Baden-Durlach, durante una partita di caccia si addormentò nella Hardwald (una foresta del luogo) e sognò un castello da cui, simili a raggi del sole, si dipartivano delle strade. Non tutti i sogni si imprigionano nel sonno più profondo o finiscono prigionieri nel cassetto… Ho una meta precisa, la Staatliche Kunsthalle (la galleria nazionale d’arte) e, al suo interno, un obiettivo preciso.
Ed eccomi di fronte al trittico (Masterstiche) di Albrecht Dürer, pittore originario di Norimberga e considerato il massimo esponente del rinascimento tedesco. In anni più recenti visiterò la casa natale e, nella piazza a lui dedicata, nei pressi del Castello imperiale, mi soffermerò sotto la statua che lo raffigura. In quel centro storico che gli Alleati devastarono con feroci bombardamenti, ad esempio, il 2 gennaio del ’45, accanimento quasi terapeutico contro quei simboli di un’Europa di cui si sentiranno sempre ostili ed estranei. Il nostro nemico, il più autentico e barbaro.
Mi attendo qualcosa di grande. Quando si pensa alla Germania, alle sue opere, ci si immagina di trovarsi di fronte all’imponenza, magari meno armonica e forse anche un po’ stolida, ma su solide fondamenta e certezze indiscusse. Al contrario, mi trovo in cornici modeste di legno scuro tre xilografie intorno a misure approssimative 25 x 20 – incisioni su lastra di figure in legno in rilievo (meglio non so spiegarmi, sono la negazione d’ogni forma di manualità e, nello specifico, il bulino mi risulta aggeggio il più sconosciuto. So soltanto, devo averlo letto in qualche manuale di storia dell’arte, come trattasi di tecnica antica e come i cinesi, per primi, l’adoperassero già nei primi secoli). Tre quadrucci, a voler essere dispregiativi, e devo averlo pensato alla prima impressione. Rozzo e stupido, io.
Leggo: composti tra il 1513 e il ’15. Essi raffigurano San Girolamo (figura sovente e cara alla tradizione medievale) nella sua cella, con il cane ed il leone, animale questo che s’accompagna e lo simboleggia, nell’atto di scrivere. V’è, nei vari oggetti, umili e dimessi, la volontà di rendere un’atmosfera contemplativa, rafforzata dalla luce che si diffonde da grandi finestre e che illumina il volto aureo del santo. V’è, forse la più famosa, Melencolia I, una donna alata dal volto pensoso, seduta presso un muro e, al fondo, uno specchio d’acqua. Circondata da oggetti disparati, legati alla tradizione alchemica. Essa incarna la virtù intellettuale, soprattutto il disagio dell’anima nella trasmutazione del piombo in oro, dalla condizione d’imperfezione della materia per ascendere alla nobiltà dello spirito. So che si è scritto tanto sul suo retto significato e tanto s’è dato da interpretare e intendere. Non per loro sono venuto, lo confesso, a Karlsruhe…
Ecco: Il cavaliere, la morte e il diavolo. Su un cavallo possente, lento e sicuro nell’in-cedere, avanza il cavaliere, chiuso nell’armatura di ferro, la lancia in mano e la spada al fianco. A protezione del nemico esterno e sua prigione affinché rimanga fedele al proprio destino. Incurante sia della morte, donna barbuta con la clessidra, su cavallo scheletrico, sia del demonio in forma di porco, simbolo d’ogni tentazione. Con unica compagnia un cane che agile si muove fra le zampe del cavallo. Nella foresta muta e come impietrita al suo passaggio. Sì. Per lui sono venuto – perché nella mente e nel cuore non ho dismesso i bastoni e le barricate e a loro, so, che tornerò. E, sebbene mi ritroverò, fianco a fianco, a camerati con cui s’accompagna il medesimo ideale e comune la sorte, la solitudine – campo di battaglia il più arduo e ardito – sarà viatico e misura.
Rimango in contemplazione, ne traccio idealmente ogni linea, per tempo indefinito. Un attimo o un’ora o un secolo nulla sono quando il soffio dell’Eterno s’alita… Egli si distacca dalla parete e viene a rendersi ossa carne sangue. (Mi si perdoni la vanità in me così rara…). Mi chiama sussurra con il medesimo mio accento m’invita non tanto a seguirlo nel cammino (egli si volge da Oriente verso Occidente, ma ora e sempre è fissato così, come sospeso fra due mondi che furono in conflitto), ma di non desiste- re dal mio. E, come per lui, poco o nulla conta la Causa e la Meta. Nichilismo. Così ‘Io ho riposto la mia causa sul Nulla’, mi suggerirà – prima di Nietzsche – l’Unico di Max Stirner.
Dunque la vita contemplativa la vita intellettuale la vita morale – rappresentazioni di un mondo che andava scomparendo e coloro che verranno dopo ne faranno sovente scempio (il Cavaliere del Dürer, dal volto simile a legno abbozzato malamente a col- pi d’accetta, verrà inteso come simbolo di quel Medio Evo che andava ingabbiato da una critica arrogante e presuntuosa quale epoca di ‘secoli bui’ e lo stesso suo artista lo si faceva complice). Ascoltando una conversazione della studiosa francese Régine Pernoud – leggerò successivamente Luce del Medioevo –, condividerò la sua tesi che l’arte medievale, privilegiando i valori spirituali, non ignorasse la prospettiva le belle forme le proporzioni, soltanto non se ne curasse. Un guerriero, ad esempio, viene raffigurato più grande del castello a cui pone assedio perché non i bastioni merlati o le aguzze torri sono ‘la forza’ ma il braccio che tende l’arco e lo spirito che lo anima. Così i corpi dell’uomo e della donna spesso non si distinguono, sembrano asessuati perché l’anima possa vibrare libera dai lacci della materia.
Così avverto in me ‘odore di cuoio e di foresta’ (rubo l’ultima riga al bel libro di Jean Cau, che verrà dieci anni dopo), forse è soltanto l’umidore dell’eskimo e di nicotina. Mi piace, però, pensarlo, oggi che sono smontato da cavallo dismessa l’armatura e solo la mente e il cuore creano e palpitano per battaglie immaginarie e perse. Sono, però, come lo sono i vecchi (un po’ ridicoli e alquanto confusi), appollaiato, modello pappagallo reiterato e noioso, sul trespolo della memoria e d’una bandiera ideale, sebbene ormai ridotta a straccio di seta. Sono – e ci tendo a precisarlo, orgoglio un po’ becero, se volete – diverso da come scrive di se stesso e di come interpreta del Duerer l’immagine del cavaliere quel Marcello Veneziani, eterno saputo arrogante e presuntuoso, in un articolo del 2013. Costui (smontato dalla poltrona d’alto dirigente RAI. E, in quella veste, ha forse osato proporre qualcosa d’altro e di ‘nostro’ che si opponesse a programmi indecenti e servili?) ricorda come il libro di Jean Cau, il cui titolo è il medesimo della xilografia, divenisse lettura prima di quella generazione di disperati, anni ’70, e da cui egli s’è salvato in un bagno purificatore di presenza nella realtà… di quale realtà tacciamo per pudicizia.
Il cavaliere dei perdenti (senza successo), individualista, nichilista, condannato alla solitudine (i suoi emuli al sangue generosamente versato alla latitanza a sbarre e chiavistelli). Eppure io sono certo, nonostante tutto, egli rimane un vincitore. Non lo aspetta la corona d’alloro, alcun arco di trionfo, il petto ricoperto da decorazioni, il nome su apidi in marmo, ma egli ‘se ne frega’. Ed io con lui…
A sera, guardando il buio della viuzza dalla finestra, conservo e preservo il miracolo di quell’immagine – un guerriero che incede nella foresta, nel tempo ed oltre. E pen-so alla stanzetta dell’ultimo piano di quella villetta dell’Ulmstrasse dove E., nella se-dia a dondolo e il plaid a ricoprire la devastazione subita, guarda anch’essa oltre il vetro della finestra. E mi rendo conto quanto lungo e duro sia il mio cammino…
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