di Giacinto Reale
“Il suicidio della giovane destra”, con questa espressione – titolo di un paragrafo di “Noi rivoluzionari”di Adalberto Baldoni – si fa usualmente riferimento a quanto avvenuto la mattina del 16 marzo del 1968 all’Università di Roma, allorché alcune centinaia di attivisti missini, confluiti da tutta Italia, tentarono l’assalto alla facoltà di Lettere, occupata dai “cinesi”, furono respinti, si trincerarono a Giurisprudenza e finirono la giornata con un gran numero di arresti
L’anno scorso, in occasione del 45° anniversario (ah, la “magia” dei numeri), se ne è parlato parecchio; quest’anno, prevedo, meno…bisognerà aspettare il cinquantenario.
Allora, provo qui ad anticipare i tempi, con un pezzo che – per essere meno “pedante” – si muove su due piani: la ricostruzione oggettiva di fatti, antefatti e postfatti, con i giudizi che allora e dopo se ne diedero, e il personale ricordo di un modesto attivista di provincia che ne fu piccolo protagonista…l’ho chiamato, guarda caso, “G”.
Il 10 gennaio del 1968 viene occupata l’Università di Torino: è la scintilla che innesca il fuoco che covava sotto la cenere; in breve altre Università sono occupate dagli studenti in rivolta a Nord come a Sud.
Roma, che non è partita per prima, assume ben presto la guida del movimento: Lettere e Architettura sono gli epicentri della protesta che, dopo qualche iniziale tentennamento, si fa “dura” e rifiuta il dialogo con il rettore D’Avack.
Si verifica anche una situazione che non ha sostanzialmente eguali da nessun altra parte: la Facoltà di Giurisprudenza, tradizionale roccaforte neofascista viene occupata dai ragazzi del Fuan, di Avanguardia Nazionale e di Primula Goliardica, che rifiutano la logica dello scontro con i “compagni”, e provano forme di dialogo (anche con la partecipazione alle Assemblee) aldilà degli steccati, in nome, almeno, del comune denominatore generazionale.
Tale abbozzo di “unità” trova un’importante conferma “operativa” la mattina del 1° marzo, allorché sulle scale che portano alla Facoltà di Architettura, gli studenti affrontano con decisione (alla fine ci saranno circa 150 feriti e oltre 200 fermati) la polizia; la prima fila dei “rivoltosi” è ben presto monopolizzata dagli attivisti neofascisti, più “allenati” dei compagni allo scontro.
È questa la goccia che fa traboccare il vaso nelle “segrete stanze” dei Partiti: se il PCI è preoccupato della deriva a sinistra filo maoista delle masse giovanili, e incarica i vertici istituzionali della FGCI di provare un recupero, il MSI è alle prese con un duplice problema: il fascino che l’azione di piazza – anche se a fianco dei “rossi” – esercita sui suoi militanti, e la perdita di consensi con la sua base elettorale più anticomunista e conservatrice, per questa incapacità a contrastare l’azione sovvertitrice che muove dalle Università, ma presumibilmente toccherà a breve le fabbriche e le campagne (per non dire poi dell’attacco alle Istituzioni concretato nelle bastonate a poliziotti e Carabinieri).
È per questo che, quando i vertici del Movimento studentesco romano e nazionale decidono una “Giornata nazionale di protesta” alla Facoltà di lettere, per il 16 marzo, Michelini & C ritengono sia giunto per loro il momento di agire.
Qui, in verità la storia resta poco chiara: Mantovani, all’epoca Presidente nazionale del Fuan (che occupava Giurisprudenza) ha sempre affermato di aver pensato ad un aiuto di camerati provenienti da tutte le parti solo per garantirsi il diritto di parola all’Assemblea di Lettere mentre questa non era sicuramente l’idea di Michelini (e del suo braccio operativo, il capo dei Volontari Nazionali Alberto Rossi), che conta invece di “sgombrare” l’Università con l’aiuto di qualche centinaio di attivisti (anche non universitari, non importa) reclutati in tutta Italia.
Sta di fatto, che partono le telefonate di convocazione, e la periferia si mobilita.
A Bari, G ricevette la telefonata mentre era a tavola con i suoi. Era “Lillino”, il suo “capo”, parco di parole, come al solito: “Ci vediamo alle 22 alla Giovane Italia. Ci sarà un pullman. Dobbiamo andare a Roma per una manifestazione all’Università”.
Si inventò la scusa di una festa di compleanno fuori città, che sarebbe finita tardi, e quindi rendeva preferibile restare a dormire alla villa del festeggiato…i suoi non ci credettero molto, ma rinunciarono ad approfondimenti che – sapevano – avrebbero provocato solo ansia.
E così, all’ora fissata, G era al posto fissato: un pullman piuttosto malmesso era già lì…a poco a poco arrivavano gli altri; alla fine, erano una trentina, su almeno un centinaio di telefonate di convocazione…succedeva sempre così.
Tanti assenti, e un presente “non invitato”: arrivò anche un ragazzino di circa quindici anni, che da un po’ frequentava la sede, seguito a ruota, però, dal padre, vecchio “fascistone”: “Se avete bisogno, vengo io” – disse – “ma Michele lasciatelo qui, è quasi un bambino”.
Lui, il discolaccio, tentava di svincolarsi dalla presa del robusto genitore, ma non ebbe alcun aiuto…anzi, quando si furono fatte le 23, “Lillino” fece perentorio all’autista: “Inutile aspettare ancora, partiamo”, e aggiunse, vagamente minaccioso: “Al ritorno faremo i conti con gli assenti”.
A G, che in quel periodo iniziava le sue letture squadriste, la scena del padre e del figlio ricordò situazioni simili che aveva conosciuto sulle pagine dei libri, quando scavezzacolli in cerca di avventura cercavano invano un posto sui 18BL, tra “bombardieri” Arditi e assaltatori futuristi.
Insomma, il viaggio iniziava sotto i migliori auspici…
La notte era lunga, ma passò presto: furono superati, con buona fortuna, i tornanti dell’Irpinia (allora non c’era ancora l’A
utostrada), con quelle salite ripidissime dove la strada era circondata da botteghe fornite di saporito “prosciutto di montagna”, ma anche da elettrauto e carrozzieri pronti all’ intervento o al rimorchio di veicoli che non reggessero lo sforzo.
utostrada), con quelle salite ripidissime dove la strada era circondata da botteghe fornite di saporito “prosciutto di montagna”, ma anche da elettrauto e carrozzieri pronti all’ intervento o al rimorchio di veicoli che non reggessero lo sforzo.
Non dormì nessuno: “Giovinezza”, “All’armi” si alternavano con il più prosaico “Figlia ti voglio dare per sposo…..”, finchè all’orizzonte apparvero i colli fatali.
Il pullman scaricò tutti davanti all’ingresso principale della Sapienza, e l’appuntamento per il ritorno fu fissato alle 20 a piazza Esedra, dopodiché i baldi giovani si sparsero nelle vie adiacenti per una robusta colazione.
Allora “cornetto e caffè” erano – almeno dai nostri eroi – considerati poco meno di una pretenziosa raffinatezza, e così i più si indirizzarono a panifici e salumerie, dove, però, con loro sorpresa, alla richiesta di “focaccia” si videro offrire “pizza al taglio”.
Non era proprio la stessa cosa, comunque era inutile stare a fare sofismi: una bella fetta, e via, pronti a tutto.
Il gruppo, così riadunatosi, fece il suo ingresso all’Ateneo dal vialone principale (erano appena le 8), ma, giunto sul piazzale, vi trovò in attesa uno schieramento di giovanotti (più o meno in pari numero) con aria minacciosa.
“Cominciamo bene” pensò G “ci aspettavano” e si schierò con gli altri, in “unica linea” pronti alla carica… fu allora che si udì chiaramente “Lillino, siamo noi!”. Era Cerullo, allora Segretario nazionale della Giovane Italia, che aveva riconosciuto il suo fiduciario barese; con lui un gruppetto di “camerati” modenesi colà convenuti con le stesse intenzioni.
Pacche sulle spalle, allegria per la zuffa evitata (si sa: in certe occasioni, si danno, ma si possono anche prendere) e poi tutti verso Giurisprudenza: Cerullo che conosceva bene la situazione faceva da guida.
Nella notte tra il 15 e il 16, mentre i pullman degli attivisti missini viaggiano alla volta della Capitale, Delle Chiaie, leader di Avanguardia Nazionale, che partecipa alla occupazione di Giurisprudenza, avuto sentore della mobilitazione con l’intenzione di arrivare allo scontro, fa appiccare il fuoco in un locale della Facoltà, nella speranza che l’arrivo della polizia e il suo successivo dispiegarsi in forze, visto l’aggravarsi della situazione, prevenga l’azione dei ragazzi di Michelini.
In effetti, però, non succede niente: due elementi di Avanguardia restano lievemente feriti e tocca agli stessi occupanti impedire l’estendersi delle fiamme.
Così, alla mattina, una sessantina di avanguardisti e tre-quattrocento missini si aggirano per i corridoi e le aule di Giursiprudenza, incerti sul da farsi, mentre nella vicina Lettere arrivano – anche qui da tutta Italia – migliaia di manifestanti comunisti, con bandiere rosse e striscioni inneggianti a Ho Chi Min.
Quando il numero sembra loro sufficiente – nelle more sono arrivati anche Almirante e Caradonna –, i neofascisti muovono in direzione della Facoltà “rossa”: impugnano bandiere tricolori, ma anche braccioli di poltroncine, gambe di sedie e randelli improvvisati.
I cinquanta metri che separano le due Facoltà sono fatti di slancio, a passo di carica, ma non da tutti: i ragazzi di Avanguardia e una parte degli occupanti originari si dispongono sulle scale del Rettorato (che praticamente divide le due Facoltà) per marcare il loro dissenso.
Con loro – e questo la dice lunga sulla confusione del momento –, i “pugilotti” di Angelino Rossi, che sono lì “solo per difendere Caradonna”, e, forse non condividono nemmeno l’iniziativa dell’azione (ambedue i gruppi, comunque, “scenderanno in campo” quando, di lì a poco, vedranno i camerati indietreggiare, sotto la spinta della massa dei “cinesi”).
Sulle scale di Lettere, frattanto, si sono schierate alcune centinaia di compagni che non intendono far entrare i “fascisti”… con loro (e anche questo è “curioso”), in prima fila, i militanti “di destra” di Primula Goliardica, secondo la testimonianza di un loro dirigente dell’epoca, Ugo Gaudenzi.
I “difensori” sono di più, e per nulla disposti a cedere; a dar man forte sono arrivati gli attivisti di via delle Botteghe Oscure e gruppi di operai comunisti precettati nel vicino quartiere di san Lorenzo. Fatta esaurire la “carica” degli avversari, i “compagni” partono a loro volta all’attacco, costringendo i missini a rifugiarsi nella Facoltà di Giurisprudenza da dove erano partiti.
Inizia così un lungo assedio, durante il quale al tentativo di sfondare il portone di ingresso, protetto da una robusta cancellata e da una improvvisata barricata, si contrappone la difesa degli attaccati, che fa ricorso a lanci di tavoli, sgabelli e sedie dai tetti.
SEGUE LA SECONDA PARTE
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