Bisogna essere onesti. Io ho dedicato la bellezza di otto articoli sulle pagine di “Ereticamente” a confutare la leggenda della “luce da oriente” e a dimostrare l’originalità, la creatività il ruolo nella civiltà umana, così spesso sottovalutato o misconosciuto, della nostra Europa.
Tuttavia mi rendo conto che queste argomentazioni non possono dire molto a un certo tipo di lettori. In fondo, dimostrando la priorità europea nella scoperta dei metalli, dell’allevamento, della scrittura, della misurazione del tempo, non si fa altro che retrodatare quell’eccellenza nel campo della cultura materiale che il nostro continente ha indiscutibilmente rivelato rispetto alle altre culture umane quanto meno negli ultimi cinque secoli.
Nel campo dello spirito l’Asia avrebbe un primato che a molti appare incontestabile: sul suo suolo avrebbero avuto origine tutte le religioni importanti, non solo “le tre” religioni “del libro”, ebraismo, cristianesimo e islam, ma anche buddismo e induismo, nonché religioni “minori” come taoismo, confucianesimo, scintoismo (poiché a questo mondo ci sono almeno cinque scintoisti per ogni ebreo, sarebbe interessante sapere in base a quale criterio l’ebraismo è ritenuto una religione “grande” e lo scintoismo una “minore”, ma prescindiamo). Al confronto, l’Europa è ritenuta una terra spiritualmente arida che solo grazie ad apporti da oriente avrebbe conosciuto una dimensione superiore dello spirito.
Si tratta di un campo nel quale l’Asia ha buon gioco nel vantare una superiorità: il cristianesimo ha portato all’estinzione la spiritualità autoctona dell’Europa, delle Americhe precolombiane, grazie alla furia distruttrice dei conquistadores non sappiamo praticamente nulla, e l’Africa, soprattutto quella sotto il Sahara, è sempre stata un “buco nero” caratterizzato dall’assenza di qualsiasi forma di cultura superiore.
Tuttavia le cose non stanno esattamente in questi termini e l’Europa è probabilmente molto meno debitrice a influssi estranei anche in questo campo, e lo si vede molto bene osservando la storia di quel movimento di pensiero tipicamente europeo che è la filosofia.
La chiarezza intellettuale, il voler fondare l’immagine del mondo sulla razionalità e sulla conoscenza piuttosto che sull’opinione di un’autorità che non si osa mettere in discussione, sono un atteggiamento tipicamente europeo, diretta eredità della cultura ellenica. Non a caso, l’unica filosofia realmente tale, non europea, fu la breve stagione dell’aristotelismo arabo medioevale che, dopo aver prodotto alcuni pensatori di rilievo come Avicenna e Averroè, fu soppresso dalle autorità islamiche che conclusero – assolutamente a ragione – che l’atteggiamento critico del filosofo non è compatibile con lo stato di sottomissione mentale del credente.
Non sono mancati nel corso del tempo, tentativi di far derivare la filosofia da qualche forma di pensiero orientale. Giovanni Reale e Dario Antiseri ne hanno messo bene in rilievo tutta l’inconsistenza.
“Naturalmente non sono mancati, specialmente presso gli orientalisti, tentativi di far derivare la filosofia dall’Oriente, soprattutto sulla base di generiche analogie constatabili tra
le concezioni dei primi filosofi greci e certe idee proprie della sapienza orientale. Tuttavia, nessuno è riuscito in questo intento, e la critica rigorosa, già a partire dalla fine del secolo scorso, ha adunato una serie di prove veramente schiaccianti contro la tesi della derivazione della filosofia dei Greci dall’Oriente.
le concezioni dei primi filosofi greci e certe idee proprie della sapienza orientale. Tuttavia, nessuno è riuscito in questo intento, e la critica rigorosa, già a partire dalla fine del secolo scorso, ha adunato una serie di prove veramente schiaccianti contro la tesi della derivazione della filosofia dei Greci dall’Oriente.
a) In epoca classica nessuno dei filosofi né degli storici greci fa il ben che minimo accenno ad una presunta derivazione della filosofia dall’Oriente.
b) E’ storicamente dimostrato che i popoli orientali con i quali i Greci vennero a contatto possedevano, sì, una forma di “sapienza” fatta di convinzioni religiose, miti teologici e “cosmogonici”, ma non una scienza filosofica basata sulla pura ragione (sul logos come dicono i Greci). Possedevano cioè un tipo di sapienza analogo a quello che i Greci stessi possedevano prima di creare la filosofia.
c) In ogni caso, noi non siamo a conoscenza di qualche utilizzazione da parte dei Greci di scritti orientali, né di traduzioni dei medesimi. Prima di Alessandro, non ci risulta che abbiano potuto giungere in Grecia dottrine degli Indiani o di altri popoli dell’Asia, né che all’epoca in cui sorse la filosofia in Grecia esistessero Greci in grado di capire un discorso di un sacerdote egiziano o di tradurre libri egiziani.
d) Posto anche (ma è da dimostrare) che qualche idea dei filosofi greci abbia precisi antecedenti nella sapienza orientale, e che da questa sia potuta derivare, non cambierebbe la sostanza del problema che stiamo discutendo. Infatti, dal momento in cui la filosofia nacque in Grecia, rappresentò una nuova forma di espressione spirituale, tale che, nell’istante stesso in cui accoglieva i frutti di altre forme di vita spirituale, li trasformava strutturalmente, dando loro una forma rigorosamente logica”.
Giovanni Reale, Dario Antiseri: La filosofia nel suo sviluppo storico, vol. I, La Scuola, Brescia, 1988, pag. 4 – 5.
La metafisica autoctona dell’Europa è rappresentata dal pensiero di Platone. Il cristianesimo ha pescato a piene mani nel platonismo, fraintendendone lo spirito. Un fatto che sorprenderà molti, è che platonica e non cristiana è la dottrina dell’immortalità dell’anima, che non trova alcuna menzione né nell’Antico né nel Nuovo Testamento, e che probabilmente eccedeva di gran lunga le capacità speculative degli antichi ebrei, verosimilmente prossime allo zero.
Penso che ad esempio conosciate le virtù cardinali della teologia cristiana (cardinali semplicemente perché come i punti cardinali, sono quattro), “giustizia, sapienza, fortezza, temperanza”, è un’eco terribilmente sbiadita di Platone, sono le virtù delle tre classi sociali dello stato platonico, “sapienza” i filosofi, “fortezza” i guerrieri, “temperanza” il popolo lavoratore, più la giustizia comune a tutti. Naturalmente, del progetto politico platonico che dava loro un senso preciso, non è rimasto assolutamente nulla.
Gli elementi caratteristici del platonismo sono la concezione politica esposta nella “Repubblica” e la dottrina delle idee. Né l’una né l’altra hanno avuto una qualche sorta di eco nemmeno in quelle correnti cristiane che si sono dichiarate platoniche, che dal grande pensatore greco hanno ripreso al più una verniciatura superficiale.
Platone non è stato solo l’allievo di Socrate, ha raccolto le correnti della tradizione di pensiero ellenica che l’ha preceduto: l’eleatismo, il pitagorismo, il pensiero eracliteo (Cratilo, discepolo di Eraclito, fu suo maestro prima di Socrate).
In realtà non si capisce il pensiero platonico se non si comprende il significato della dottrina delle idee, concezione che ci è resa ardua dalla radicata concezione empirista per la quale le idee sono soltanto il (pallido) riflesso delle cose nella nostra mente. Le idee, come le intende Platone, sono i modelli preesistenti e atemporali delle cose stesse. Questa concezione nasce dal confronto, probabilmente, con la scoperta socratica del concetto per cui ogni cosa è perfettamente descrivibile da una definizione, con la sua prima formazione eraclitea per la quale ogni cosa è transeunte, mutevole, mai uguale a se stessa.
Per comprendere meglio, è utile fare riferimento alla matematica. Prendiamo una qualsiasi proposizione geometrica semplice, ad esempio che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due retti. Nel nostro mondo materiale è vera per approssimazione: se noi tracciamo un qualsiasi triangolo, sarà difficile che le linee siano perfettamente dritte, che gli angoli non siano lievemente smussati, dipende tutto dalla scala di dettaglio alla quale decidiamo di scendere, ma in definitiva potremo concludere che il reale si adatta faticosamente e imperfettamente all’universo ideale della matematica, la cui esistenza d’altra parte non è legata alla nostra dimensione soggettiva, poiché essa è uguale per tutti e “non è un’opinione”.
L’importanza della matematica nel pensiero platonico non è per nulla casuale, e ci rimanda allo stretto legame che esso ha con il pitagorismo. Platone ha mutuato anche altri aspetti del pensiero pitagorico, ad esempio la concezione della reincarnazione. Pitagora, a sua volta, risale all’orfismo, e ci rimanda a una tradizione metafisica molto antica e radicata nel mondo ellenico.
La concezione politica di Platone si fonda su queste premesse, ed è strettamente connessa alla sua visione antropologica e pedagogica. Nell’animo umano si riconoscono la ragione, gli istinti nobili e le passioni materiali (da qui la metafora del cocchio dove la ragione è l’auriga e i due cavalli, uno di buona qualità, “bianco” e uno di natura inferiore, “nero” sono l’uno e l’altro tipo di passioni). A seconda che nell’uomo prevalga l’uno o l’altro di questi elementi, sarà adatto a far parte dell’una o dell’altra delle tre classi sociali: filosofi, guerrieri, lavoratori. Lo stato, la polis, la repubblica, in altre parole, non è altro che l’uomo proiettato in grande. Il pensiero platonico è aristocratico nel senso letterale della parola, ossia mirante al governo dei migliori.
Elementi portanti di questa concezione sono l’educazione, ossia cambiare l’uomo per cambiare la società, e la selezione, cioè ricercare l’uomo adatto a ricoprire il posto giusto indipendentemente dal caso di nascita. Si noti che questa concezione è l’esatto opposto dell’utopia marxista che parte dalla premessa contraria, ossia cambiare la società per cambiare l’uomo, l’idea che dall’imposizione forzata di un determinato schema sociale possa automaticamente nascere “l’uomo nuovo”, un concetto di violenza e rozzezza assolute, come pensare di trasformare in un bipede una creatura quadrupede mutilandola degli arti anteriori. Se dovessimo credere alla favola progressista per cui ciò che segue è migliore o più evoluto di ciò che l’ha preceduto nel tempo, allora ci sarebbe da pensare che la direzione della distanza dei ventiquattro secoli che separano Platone da Marx vada invertita.
Oggi, quando noi ci accostiamo al concetto di filosofia, ci appare perlopiù un esercizio astratto e verbale sterile, ma questa è una conseguenza di una mistificazione profonda attorno al suo significato e alle sue finalità.
Come minimo occorrerebbe distinguere fra “la sapienza” greca e “la filosofia” greca o presunta tale. Giorgio Colli, il nostro maggiore studioso del pensiero greco, faceva notare che la parola “filosofia” che significa “amore per la sapienza” fu usata per la prima volta da Platone, ma in Platone essa ha ancora il significato di una sapienza perduta da ritrovare, mentre l’idea “moderna” della filosofia come un sapere mai prima posseduto da inventare ex novo, nasce solo con Aristotele.
Ora, si osservino bene i rapporti temporali: con Socrate, maestro di Platone siamo già a dopo la guerra del Peloponneso che è considerata l’evento che pone fine alla civiltà ellenica classica, e con Aristotele che fu il precettore di Alessandro Magno, siamo già nell’ellenismo.
In pratica, non considerando la fase sapienziale ma unicamente quella filosofica del pensiero greco, e riducendo tutto quanto sta prima di Socrate nella categoria dei precursori sui quali non è il caso di soffermarsi troppo, con una specie di gioco di prestidigitazione, è proprio il pensiero della grecità classica che è stato fatto scomparire dalla nostra vista.
Tra la sapienza ellenica e la “filosofia” ellenistica corre, potremmo dire, la stessa distanza che c’è fra Leonida che si immola alle Termopili con i suoi trecento spartiati per sbarrare la strada ai Persiani, ed Aristotele che si pone al servizio di Filippo II di Macedonia, il re straniero che minaccia l’indipendenza delle città greche.
L’aspetto più interessante e forse più rilevante della sapienza greca è il suo contenuto etico, che è bene illustrato da un episodio riguardante Solone, forse il più noto dei Sette Savi della tradizione ellenica. Solone fu invitato alla corte di Creso, il re di Lidia il cui stesso nome è diventato sinonimo di ricchezza. Dopo avergli mostrato i suoi tesori, Creso chiese al saggio greco se riteneva che egli fosse un uomo felice. Solone rispose negativamente, ed allora Creso gli domandò:
“Chi conosci tu più felice di me?”
Solone rispose citando un qualsiasi cittadino ateniese che aveva onorevolmente servito la sua città in guerra, era onesto e stimato dai suoi concittadini, aveva una moglie fedele e dei figli devoti.
Anni più tardi, Creso mosse guerra a Ciro, il re dei Persiani e fu pesantemente sconfitto e catturato. Mentre stava per essere messo a morte, invocò ripetutamente il nome di Solone, avendo finalmente compreso l’insegnamento del saggio greco. Incuriosito da quell’invocazione, Ciro chiese a Creso di che si trattasse, e questi gli narrò dell’incontro avvenuto anni prima con il sapiente greco. Allora il re dei Persiani graziò Creso e lo perdonò, pago di poter godere almeno del riflesso della saggezza di Solone.
Vivere secondo virtù è per la Sapienza greca l’unico modo per essere felici, una virtù concepita allo stesso modo della virtus romana come conformità alla propria natura, e l’uomo non è separabile dal cittadino, né la virtù dall’esercizio dei doveri civici. Tale separazione, ci spiegherà più tardi J. J. Rousseau, avviene con il cristianesimo ed è caratteristica di esso.
La filosofia presocratica, come abbiamo visto, è il prolungamento della sapienza greca (ma forse dovremmo parlare di filosofia pre-aristotelica, visto che la rottura avviene con Aristotele, ed ancora Platone conserva un valore, uno spessore ed un significato che dopo di lui non si riscontrano più
).
).
Democrito sottolinea il valore della libertà per l’uomo:
“Preferisco vivere libero e povero in una democrazia, piuttosto che essere uno schiavo ricoperto d’oro sotto una tirannide”.
Sotto una tirannide, infatti, non si può nemmeno dire di essere ricchi ma solo degli schiavi coperti d’oro, poiché il tiranno può toglierti in qualsiasi momento quel che ritieni tuo.
Naturalmente, fosse vissuto nella nostra epoca, avesse conosciuto le nostre democrazie piene di limitazioni alla libertà di pensiero, nelle quali esiste il reato d’opinione, Democrito si sarebbe reso conto che “democrazia” può ben essere il nome di una tirannide ipocritamente mascherata.
La sapienza greca o la filosofia presocratica (la seconda è il prolungamento della prima) sono permeate dalla consapevolezza della tragicità dell’esistenza.
“Da dove i viventi hanno origine”, spiega un memorabile frammento di Anassimandro, “là essi necessariamente ritornano. Essi pagano l’uno all’altro il fio dell’ingiustizia commessa vivendo”.
L’esistenza è una catena ciclica cui i viventi, ossia tutti noi, siamo connessi, destinati a tornare là da dove siamo venuti nell’eterno ripetersi di nascite e morti. Vivere significa commettere ingiustizia, causare e ricevere dolore, un’ingiustizia di cui tutti noi salderemo immancabilmente il conto con il nostro trapasso.
Analizzando i concetti espressi, vi troviamo una grande complessità: la vita, l’esistenza, prima di tutto è ciclica; inevitabilmente, prima o poi, ogni cosa deve ritornare a quel nulla, a quel non essere originario dal quale è emersa.
Io direi che qui sono avvertibili anche le somiglianze con il pensiero indiano e buddista: la vita come violenza ed il desiderio, l’istinto vitale come causa di sofferenza, che a sua volta costituisce un karma che andrà espiato, e ci dà l’impressione di essere molto vicini ad un originario fondo di pensiero indoeuropeo per ignorare il quale storici della filosofia ed orientalisti hanno dovuto spingere al massimo la settorialità delle rispettive discipline.
Non si tratta di un’influenza del pensiero indiano su quello greco, ma di qualcosa di riconducibile a un comune fondo indoeuropeo, e si nota bene che con il modo di pensare abramitico, dei popoli semitici da cui ha avuto origine il cristianesimo, sia pure in epoca storica geograficamente più vicini ai Greci, non c’è nessuna somiglianza.
Eraclito ha scritto che “Omero ed Esiodo che supplicavano gli dei di dare pace al mondo, non erano consapevoli di pregare per la sua morte”, poiché l’essenza stessa della vita è il conflitto. “La guerra è madre e regina di tutte le cose”; non la guerra che talvolta gli uomini si fanno, ma la lotta incessante tra predatori e prede, la morte di alcuni che è la sopravvivenza per altri, ed è essa a generare le cose ed i viventi, a costruire i tipi più elevati, e pare quasi di toccare con venticinque secoli d’anticipo il concetto darwiniano di selezione naturale.
E’ una visione che potremmo definire un nichilismo aristocratico, capace di osservare con occhio lucido tutta la tragicità e la precarietà della condizione umana senza cercare scappatoie soprannaturali, è una visione che presuppone un’umanità sana che riesce ad apprezzare gli aspetti positivi dell’esistenza pur essendo conscia della loro caducità, laddove il cristianesimo vuole l’uomo malato per poterlo “redimere”.
A partire da Aristotele abbiamo la filosofia nel senso che ci siamo abituati a dare a questa parola, come narcisistico esercizio intellettuale nel quale, come ebbe a dire Cicerone, “riceve maggiore considerazione chi inventa una stranezza nuova, che chi ripete una verità già detta da altri”, la cultura del mondo cosmopolita “globalizzato” ante litteram creato dalle conquiste di Alessandro, dove s’infiltrano sempre più elementi non greci e non europei, i cui fermenti di dissoluzione si attaccheranno come un contagio al mondo romano dopo che quest’ultimo l’avrà politicamente assoggettato, il “terreno di coltura” su cui si svilupperà il cristianesimo.
Le radici dell’Europa sono elleniche ma anche latine, celtiche e germaniche. Roma ha dato al nostro continente qualcosa di più dell’unità del mondo mediterraneo e di una parte di esso creata con il valore delle sue legioni, le ha dato un’imponente costruzione giuridica e amministrativa, il concetto dello stato come personalità giuridica, “res publica” là dove fin allora era semplicemente proprietà dei sovrani, compresi i sudditi, l’idea della legge universale e oggettiva, “erga omnes”.
Tutto questo non sarebbe nemmeno stato concepibile se Roma non avesse con l’educazione modellato un tipo umano eticamente elevato.
“Et facere et pati fortiter romanum est”, è da romani agire e sopportare con fermezza. Il romano affronta le vicende della vita con un senso di equilibrio interiore, non perde il controllo di sé nei momenti favorevoli e non si abbatte nelle sventure; ancora più del greco gli è proprio il senso della misura.
Un mio rimpianto docente del liceo ormai scomparso da molti anni, faceva notare come Orazio traduca il “Nun chré methusthen” (“ora bisogna ubriacarsi” di Alceo con “Nunc est bibendum”, il romano “beve”, non “si ubriaca”.
A differenza di quelle cristiane, le virtù romane sono virtù civiche: valore e disciplina in battaglia, frugalità e parsimonia nell’amministrazione delle proprie cose, obbedienza filiale, magnanimità e saggezza come pater familias, senso di appartenenza, fierezza di appartenere alla propria civitas ed alla propria stirpe, preoccupazione per i suoi destini, forza d’animo nelle sventure, moderazione nei successi.
La virtus romana non è la “virtù” cristiana, viene da vir, e significa appunto in ogni circostanza riuscire ad essere e sapersi comportare da uomini.
Del concetto antico di virtù, curiosamente rimane una traccia negli erbari, nei bestiari, nei lapidari medievali, laddove si parla delle “virtù” delle piante, degli animali, dei metalli: “virtù” significa portare alla massima estrinsecazione, sviluppare ciò che è conforme alla propria natura; è un’idea esattamente opposta a quella del cristianesimo che implica l’andare contro la propria natura che si suppone corrotta dal peccato originale.
I Celti hanno trasmesso all’Europa la loro forte immaginazione mitopoietica che è alla base della propensione europea per la letteratura fantastica. dalle radici celtiche abbiamo ereditato il folclore come forma di mitologia popolare, con creature fantastiche come elfi e folletti, ed alcuni miti ancora vivi nella nostra cultura apparentemente scettica e “realistica”: il Ciclo Bretone, Artù, Merlino, Excalibur, il Santo Graal sono presenze ancora vive, simboli ancora forti nella nostra cultura sono forse uno dei maggiori residui di paganesimo che permangono oggi in Europa.
Si pensi solo al successo editoriale che è riuscito ad avere un autore mediocre, Dan Brown, con un romanzo ancor più mediocre, “Il codice Da Vinci”, semplicemente toccando le corde giuste, con riferimenti peraltro pasticciati e mistificati, a questi miti e simboli ancora forti nella nostra cultura, appena sotto lo strato di verniciatura “moderna”. (Un’altra volta occorrerà dedicare uno studio apposito ai fraintendimenti del mito del Graal contenuti nel “Codice Da Vinci”). Tuttavia, quanto meno, dimostrano quanto questi miti e questi simboli siano ancora forti nel nostro immaginario, e un discorso dello stesso genere vale anche per John R. R. Tolkien che ha pescato a piene mani nel folclore e nella mitologia celtica anche se, bisogna ammetterlo, era un gran pasticcione con una spiccata tendenza a confondere “elfi” con “guelfi”.
Della Germania, dei Tedeschi, di tutto quello che è germanico, dal 1945 ci si è fatti un dovere di dire e pensare tutto il male possibile, eppure senza di loro l’Europa e la cultura europea non sarebbero quello che sono o non esisterebbero affatto.
Ai Germani è toccato soprattutto in età medievale raccogliere l’eredità di quanto altri avevano costruito, a partire dalla tradizione imperiale romana, e difenderlo militarmente. Non si può non pensare ai cavalieri carolingi che fermarono l’invasione mussulmana a Poitiers (ce ne fossero oggi, che questa invasione si ripete in forma più subdola!), ai Germanici che attorno al mille fermarono la penetrazione in Europa di genti centro-asiatiche come Avari e Ungari, ai Normanni che scacciarono gli Arabi dalla Sicilia e dall’Italia meridionale, allo scudo che l’Austria asburgica è stata per secoli per l’intera Europa contro l’aggressione ottomana.
Tutto ciò trova un corrispettivo spirituale nelle tradizioni cavalleresche dell’Europa medievale, “Fedeltà è più forte del fuoco”, ma innegabilmente i Germani hanno apportato alla cultura europea anche altro. La concezione germanica dello stato che nasce da rapporti personali fra governanti e governati, da un patto liberamente sottoscritto ma che una volta contratto va osservato con una fedeltà che non ammette deroghe, è alla base non solo del forte spirito identitario che ha caratterizzato il medioevo feudale e comunale, ma, incontrandosi con la paideia greca e l’humanitas latina, ha generato la nostra concezione che accorda alla persona, al singolo, ai suoi diritti, una centralità assolutamente sconosciuta in altre culture.
E cosa sarebbe la cultura dell’Europa se vi togliessimo Goethe, Kant, Hegel, Mozart, Beethoven, Nietzsche e la grande stagione culturale dell’età romantica?
Noi siamo gli eredi di una civiltà grande non solo per le sue conquiste materiali, ma anche per le sue realizzazioni nel dominio dello spirito, del pensiero e dell’ethos, un lascito che abbiamo il dovere di difendere e trasmettere ai nostri figli, di non lasciar sommergere dalla globalizzazione mondialista che tutto appiattisce, ed essere ben consapevoli che gli allogeni extraeuropei non ci hanno mai insegnato e non hanno da insegnarci nulla.
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