Torino, Corso Casale n.205, sulla modesta facciata una lapide. ‘Fra queste mura/ Emilio Salgari/ visse in onorata povertà/ popolando il mondo di personaggi/ nati dalla sua inesauribile fantasia/ fedeli ad un cavalleresco ideale/ di lealtà e di coraggio/ perché gli italiani non dimentichino/ la sua genialità avventurosa/ il suo doloroso calvario/ la rivista Italia nel mare/ questo ricordo pose’. Da qui, nella mattina di martedì 25 aprile 1911, con un rasoio in tasca prese il tram verso Val San Martino, dove era solito portarvi la famiglia per una merenda sul prato. Nel bosco, in un anfratto, si lacerò il ventre e la gola – simile ad antico bushi – con gli occhi rivolti là dove sorge il sole. Soffocato dai debiti; la moglie adorata ormai fuori di senno.
Forse, nella mente, gli apparvero le immagini dei suoi eroi più celebri, che nutrirono più generazioni di sogni di eroismo e di sfide verso un mondo che guardava il ‘nostro’ Paese quale sole pizza mandolini e che, nelle trincee del Carso sui picchi rocciosi nelle acque amare dell’Adriatico e in cieli fino allora inviolati, gettarono, al contrario, le fondamenta di un’Italia in camicia nera, illusa certo, d’essere più grande e migliore. Che sarebbe l’esistenza, del resto, se non s’impastasse della materia del sogno? Su un misero praho alla deriva sventola orgogliosa la rossa bandiera di Sandokan – ‘la Tigre non è morta!’ – e prossima la rivincita; così, sul ponte del vascello, il Folgore, ‘il Corsaro Nero piange’ ma mantiene fede al suo giuramento di vendetta.
Drieu la Rochelle racconta come, nel bosco di Charleroi, abbandonando lo zaino sotto l’avanzare dei tedeschi, vi lasciasse anche in esso una copia del Così parlò Zarathustra. Dopo un momento magico di esaltazione eroica, la fuga. E quanti furono, fra i nostri soldati, che partirono per il fronte con Le tigri della Malesia quale viatico e si protessero dal fango dalla fame dal sangue versato immaginandosi d’essere nei mari del Sud all’arrembaggio di qualche galeone spagnolo? Eppure Salgari aveva dalla sua una sola breve esperienza in mare. Per tre mesi aveva navigato sul mercantile Italia Una, credo come passeggero, lungo l’Adriatico toccando la costa dalmata e spingendosi non oltre il porto di Brindisi. Ci sono uomini che, pur prigionieri di uno spazio ristretto, conoscono l’infinito e sanno travalicare ogni forma di confine dato. Come in una cella, secondo braccio, carcere di Regina Coeli. Il mare è capace di esercitare queste suggestioni. ‘E’ sempre possibile arrivare al limite, toccarlo, cambiare direzione e seguirlo, per poi superarlo nel punto in cui i ferma’, traggo da Il Cerchio Celtico, romanzo dello scrittore svedese Bjoern Larsson, che di mare se ne intende.
Arriviamo a Brindisi, di sera. Siamo stipati in due pullman, uno di studenti greci che tornano a casa per trascorrervi le vacanze di Pasqua (ci sono anche un paio di ragazze, una carina e sostenuta, l’altra un po’ buzzicona, ilare e amicale); nell’altro quaranta, più o meno, provenienti da varie parti d’Italia e appartenenti a realtà difformi della cosiddetta ‘destra radicale’. La rivalità – radicato male di un’area litigiosa – genera la strafottenza, lazzi e scherzi, l’armonia solo di facciata… Aprile 1968. Da un anno i colonnelli hanno preso il potere ad Atene e, nell’anniversario, ci hanno invitato. Ci aspettiamo ‘grandi cose’ (il mito del mercenario in Congo, alimentato dalla proiezione del bel documentario di Gualtiero Jacopetti Africa, addio!; la ‘guerra rivoluzionaria’ dei giovani ufficiali in Algeria, dopo il disastro in Indocina, i romanzi di Larteguy, l’OAS contro il tradimento di De Gaulle; ora basta proiettarsi oltre uno stretto braccio di mare e campi di addestramento uso di armi ed esplosivi tecniche di controllo delle città). Delusione. Nulla di tutto questo ed anche l’ospitalità si riduce ad alloggiarci senza vitto all’Accademia militare, una villa fra gli alberi e protetta da un alto muro. L’incontro con i militari, poi, si svolge in modo ufficiale e sbrigativo.Tornerò a Roma consapevole che ‘il socialismo da caserma’ non fa per me. Fiero e irriverente, libero di farmi ricrescere la barba e i capelli lunghi, d’indossare i pantaloni di velluto rosso e l’eskimo, cantato da Guccini. La rivoluzione è altrove, ma questa è altra storia… dopo cinquant’anni mi sento in diritto di essere distante e distinto.
Con Cesare, a cui ho prestato il giubbetto di pelle (finirà ad essere un regalo), mi sembra con quel folle guerriero e proletario di Tonino e con Giorgio, utilissimo nei giorni successivi in quanto, figlio di un pope della chiesa ortodossa, parla greco, ci scegliamo una bettola nei pressi del porto. Scalcinata ma economica. Pesce e vino. Poi tutti sul traghetto. Sparpagliati nel salone, chi su poltrone a cercare, in posizione fetale, di dormire; chi al banco e ai tavolini del bar con caffè e birre a schiamazzare. Io mi cerco un posto riparato. Il più alto, su una panchina in legno, avvolto dalla notte – stelle in cielo, scia a poppa –, raggiunto da una americana – un affarino esile occhialuto dai capelli biondi modello spinaci in cottura –, che non riesce a stimolare l’innato romanticismo che è in me. Ci arrangiamo con il tedesco. All’alba primo e breve attracco all’isola di Corfù; il seguente al porto di Igoumenitsa dove si scende.
(Leggo: ‘La notte è un bozzolo confortevole, l’alba è una terra di nessuno senza cielo né mare’. Rifletto: ci consente di pensare come il futuro esista per dare legittimità al presente. Pur proponendosi quale incognita, rivestendo l’oggi del suo domani).
Sempre con il traghetto, questa volta dal porto del Pireo, torno in Italia. Il medesimo pullman mi riporta a Roma. E l’università e i cortei la molotov le barricate i lacrimogeni gli esami in facoltà l’agosto di Praga i carri armati russi e ancora ‘aria di rivoluzione’, come canterà Franco Battiato, forse ingannevole ma vissuta, giorno dopo giorno, con entusiasmo dedizione e, motto del mio blasone da anarco-fascista, faccia al sole e in culo al mondo. Poi l’autunno del ’69, ‘caldo’, e la sera del 12 dicembre, ‘la madre di tutte le stragi’ là dove venne a morire l’innocenza, e la cella delimitata da sbarre e chiavistelli a racchiudermi per anni…
Una cella simile a cabina d’una barca a vela. Emilio Salgari con Sandokan e il Corsaro Nero eredi per tutti e di tutti. ‘Niente dà la pace dell’anima di una sera d’inverno soli a bordo, con i gabbiani, il vento e le onde come unica compagnia’ (sempre tratto dal libro di Bjoern Larsson). Celle d’isolamento, soprannominate ‘Villa Triste’, per dei mesi, il letto con i piedi cementati al pavimento un lucernaio sbarre porta in legno spioncino mattonelle alle pareti trasudanti umidità il buiolo in plastica niente occhiali sigarette ma non i fiammiferi (idiozia o sadismo?). Avanti e indietro cantare contare le orizzontali poi le medesime in verticale raccontare storie a voce alta, per farmi compagnia, battere contro la porta farsi accendere la sigaretta con il mozzicone la seconda e la terza finchè ti senti i polmoni che ti scassano il torace…
I miei viaggi, l’autostop e lo zaino, la Spagna ‘con le strade brulle e rosse’, come le aveva definite Brasillach, il mio fratello più caro; la Germania Berlino e Monaco e Francoforte, ove trascorsi quasi un anno a confezionare pacchi al Kaufhof, e, nei pressi di Lipsia, Roecken là dove nacque ed è sepolto il padre di Zarathustra. E sempre lei a tenermi a conforto, anche quando s’è resa ombra e sogno e illusione… E le battaglie, mani levate, braccia tese, i bastoni le barricate, i rossi che non fanno paura, gli sbirri grintosi e le camionette della celere e i manganelli o la notte ad attaccare manifesti o a discutere fiumi di parole… Visioni, avanti e indietro, tre metri per sei. Ad un tavolino, una gamba traballante, ricoperto da una tovaglia rossa, Emilio Salgari scrive, pressato dagli editori e dai debiti, senza poter correggere approfondire riflettere. Il suo destino, la sua condanna. E scorge, immagini sempre più vivide, i pirati della Malesya guidati da Sandokan, dal portoghese Yanez de Gomera con l’ennesima sigaretta fra le labbra, uomini tutta azione cuore ideali (Margherita Sarfatti, l’ebrea Musa del Mussolini giunto al potere, non li volle fra i ‘precursori’ del Fascismo perché gettavano un’ombra ‘sinistra’ sulla missione colonizzatrice dell’uomo bianco. Anticipando la boria di Israele le pretese su Gerusalemme i mitra contro le pietre dell’intifada). E scorge, vivide immagini, il Mar delle Antille le coste l’isola della Tortuga i perfidi spagnoli gli intrepidi corsari, primo fra tutti Emilio conte di Ventimiglia. E scorge, sprazzi di vivide immagini, dal Polo Nord ai deserti africani, un mondo d’eroi, (‘gli eroi son tutti giovani e belli’ canta Guccini) e tutti leali generosi e, alfine, vittoriosi…
Dei versi della poetessa americana Emily Dickinson, anno 1890. Li riporto in italiano, il testo originale l’ho difronte, ma memore di mia madre, l’italo-americana in odio gli USA, non posso verificarne la correttezza. Eccoli: ‘Per l’anima cresciuta in terra ferma/ esaltazione è andare/ di là dalle dimore e i promontori/ immergendosi nell’eternità!/ Più di noi, che crescemmo fra montagne,/ può forse il navigatore godere/ la divina ebbrezza/ del primo miglio lontano da terra?’. Quella divina esaltazione può generarsi anche soltanto con l’inchiostro a descrivere l’onda il vento la tempesta annunciata o, forse, misurando lo spazio ristretto tra sbarre e chiavistelli. Chissà? So soltanto – abbandono per un istante la mia ‘innata’ modestia – come – e sono trascorsi oltre quaranta anni – non m’è mai capitato di svegliarmi in piena notte, sudato e angosciato, con l’incubo di rivivere in sogno la galera. Quasi che fossi allora più libero e, oserei dire, felice. Con il vento in faccia il sapore salmastro sulla pelle lo sguardo a cercare la linea dell’orizzonte per navigare oltre e sempre. Issando la bandiera rossa con al centro la testa della tigre ruggente e, appoggiato al parapetto del vascello, lasciare che le lacrime coabitassero con la fierezza e la speranza. Bella e inutile…
Mario Michele Merlino